Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Le cose avvengono per caso, già; ma se ci mettiamo del nostro, allora no, non vengono per caso. Come si fa ad imprimere un senso lì dove senso non c’è? Facile, basta raccontarle…
Non è semplice decidersi ad eliminare, smontare, cacciare nell’ombra cose cui sono stati dedicati tempo ed energie. Non è semplice fare a pezzi, separare e declassare a semplice passatempo i frutti di uno sforzo convinto. Ma alle volte è necessario, forse liberatorio. La moderazione aiuta a fare pulizia, ecologia, permette di riciclare, forse di dare nuova vita, una seconda occasione, a quanto – in apparenza privo di vitalità – si è rimasti (troppo) a lungo aggrappati.
Questa operazione, questo allargare l’ombra, il velo pietoso, è arrivato a lambire i confini di questo spazio ormai pieno di ragnatele e polvere e qualche sfogo infantile. Non del tutto abbandonato, già, ma non più accogliente come un tempo…fino a qualche tempo fa un’ombra del genere, un dubbio del genere, mi avrebbe inquietato, adesso meno…sono però successe alcune cose, sciocche, a cui ho però voluto imprimere, ho cercato di imprimere un seno. Per adesso hanno la forma della traccia, di pista da seguire…
Una decina di giorni fa, in modo del tutto casuale – sempre che non si inizi a raccontarla in un certo modo – proprio dopo essermi finalmente deciso a far cancellare i (pochi e non troppo fortunati) titoli che ho pubblicato in questi anni, frugavo fra i libri di una bancarella. Fra le varie cose, mi sono trovato fra le mani un libello sottile, tutto rovinato e sottolineato a penna, Il bene del male. Paradossi del senso comune di Adolf Guggenbühl-Craig. Nello sfogliarlo l’occhio mi cade su di un passo sottolineato in verde. A quel punto decido di comprarlo e tornare a casa. Il passo suona così:
In modo conscio o inconscio ogni persona vorrebbe avvicinarsi a Dio, questo è archetipico. Desiderare di essere Dio, credere addirittura di essere Dio è probabilmente l’espressione di una psicopatologia archetipica. La fede, l’idea che la creatività, l’indipendenza e la spontaneità debbano essere il vero fine dello sviluppo psichico sono legate al complesso di Dio…l’idea collettiva che ognuno debba essere o diventare, se possibile, creativo, indipendente, spontaneo, è quasi una malattia mentale collettiva. Creatività, indipendenza e spontaneità come fine sono un’espressione di tracotanza. E la tracotanza era molto pericolosa per gli antichi Greci. A causa dell’identificazione con Dio, essa conduceva alla violenza e veniva sempre punita in modo durissimo.
Lo psichiatra svizzero distingue fra una creatività trascendentale (propria del genio) e una creatività personale o comune – caratteristica delle persone normali. Quest’ultima è una creatività che, se accolta, pur nel suo piccolo, può essere fonte di soddisfazione, poiché realizza le personali inclinazioni, ma senza la goffa, a tratti comica, in altri fastidiosa o addirittura tragica pretesa di esser in grado di esprimere cose e contenuti che siano creativi in senso alto, ossia tali da nutrire e rispondere alle profonde esigenze di altri essere umani, di altre anime…bisogna accogliere la propria personale creatività senza false – ossia eccessive, ossia tracotanti, quasi divine – aspirazioni. Solo così, continua lo psichiatra, oltre a conoscersi e ad accettarsi per come si è, si può “apprezzare e gioire per la creatività, la spontaneità e l’indipendenza nel caso queste si manifestino”, poiché, dice ancora, vi è un elemento che non dipende dalla volontà, che non risponde alle leggi di causa-effetto e si sottrae al mondo pur plasmando il mondo e la nostra stessa esistenza. Questa è l’anima.
Adesso, lo ripeto, le cose avvengono per caso, ma il caso ha voluto – lo scrivo adesso, prima no – che insieme al libro di Adolf Guggenbühl-Craig, avessi acquistato anche Le storie che curano. Freud, Jung, Adler di James Hillman, che insiste proprio sull’anima, anzi, sulla vita come necessità di “fare anima”:
Non c’è nessun altro fine che l’opera medesima del far anima, e l’anima è senza fine.
Il testo di Hillman, come altri che mi è capitato di leggere, è labirintico, ma su una cosa è chiaro: è necessario – per fare anima – andare a cercare nella parte inferiore di sé, in quella primitiva, nelle voci inferiori e infime che popolano il nostro essere. Si tratta di prendere confidenza con le parti non ascoltate, poiché solo da lì si può partire per porre la domanda: cosa vuole l’anima? Non Io, bensì l’anima che io non sono e che, tuttavia, mi costituisce…
Fare anima significa entrare in contatto con il proprio limite, il proprio senso di imperfezione, con quella che nel gergo degli specialisti viene definita Ombra. Ed ecco che il discorso di Hillman e di Guggenbühl-Craig sembrano toccarsi nel porre l’accento sui limiti dell’Io (mi pare d’aver scritto QUI qualcosa sulla sua miseria) che deve rinunciare alla propria tracotanza (voler-farsi-Dio), per aprire al limite e, all’interno del limite, incontrare la propria unicità – scintilla divina – o, meglio, fare anima, entrare nel mondo non secondo le (folli, nevrotiche, assurde) prospettive dell’assoluta creatività, indipendenza, spontaneità, bensì secondo il limite inteso come il proprio limite, ossia la propria personale, irripetibile, irriducibile stortura, imperfezione o, ancora, secondo il proprio demone (idea che da un po’ mi assilla – QUI).
Le mete altissime dell’Io generano mostri, separazione, isolamento, inutili dolori, sensi di colpa e pentimenti. L’Io che accetta i propri mostri, che sta presso le proprie parti-tutt’altro-che-divine, si riconosce per quello che è ed è finalmente pronto ad operare nel mondo e, di conseguenza, anche se non è suo obiettivo specifico, per il mondo – è pronto lasciarsi guidare dall’anima. Significa questo l’espressione fare anima?
All’interno di alcune belle pagine dove ingaggia un confronto con Alfred Adler, Hillman scrive:
Il migliore accesso all’imperfezione è l’umorismo, l’autoironia, lo sciogliersi in una risata, e la capacità di accettare un’umiliazione, che non richieda poi compensazioni verso l’alto. Il senso dell’imperfezione può essere una via al sentimento comunitario. Un’altra via, ancor più sicura, è quel legame così umano che è il senso dell’umorismo.
L’umorismo, quindi, permetterebbe di fare un passo indietro rispetto alla serietà con cui ci si getta nel mondo, con cui si tratta se stessi e gli altri. L’umorismo permette, quindi, e in un paradosso mica di poco conto: l’umorismo permetterebbe di fare anima, ossia la cosa più seria al mondo. Tutte le cose prese seriamente possono, forse, esser prese meno seriamente senza mancar loro del dovuto rispetto. Sembra un caso, ma il caso qui non esiste, poiché si sta raccontando, ma alla fine di questo breve saggio, Hillman cita proprio Adolf Guggenbühl-Craig. Uno scritto non tradotto in italiano, che affronta il tema del potere in senso molto ampio. La citazione – un lampo – mi tocca da vicino: “il potere, la tendenza alla superiorità, presenti in tutte quelle professioni che in qualche modo sono assistenziali, e la polarizzazione debole-forte (paziente e medico, alunno e insegnante, e così via), sono antitesi distruttive che si verificano…quando il medico perde contatto con la propria vulnerabilità, l’insegnante con la sua ignoranza…”.
Tutto bello mi ripetevo, nel prendere appunti su di un’agenda, ma cosa vorrà poi dire veramente tutta questa storia del “fare anima”? mi chiedevo. Letti e ri-letti i libri non ne venivo fuori, anche se intanto smantellavo lavori cui avevo dato tanto, troppo valore…
Se non la soluzione, quantomeno un indizio, un messaggio, mi è stato recapitato in un sogno. I fatti risalgono tutti a quest’ultimo periodo, ma il sogno a questa notte. Nella sua semplicità, mi ha spinto – come avviene sempre più raramente – a scrivere un post su questo blog che ogni giorno rischia di essere – come per i libricini di cui sopra – rischia, dicevo, di essere cestinato e ridotto a nulla una volta per tutte.
Ero semplicemente su di un autobus vuoto, di notte, e dovevo tornare a casa. Ad certo punto nel bel mezzo di una di quelle strade secondarie e senza illuminazione che tutti conoscono, l’autista ferma l’autobus e mi fa cenno di scendere, Per andare a casa devi passare di lì e indica, dall’altra parte della strada, un piccolo sentiero la cui entrata in un bosco è debolmente illuminata da un lampione. Legittimamente protesto, Non posso andare lì. E infatti è notte e lì è buio pesto e potrebbero esserci nascosti uomini pericolosi e bestie selvatiche. L’autista taglia corto, Non posso mica portarti io a casa e apre la porta per farmi scendere. Nell’eseguire l’ordine cado dall’autobus, sulla strada, come un imbecille e quello, cogliendo al volo l’occasione, parte suonando il clacson.
Non è che l’ho capito bene, ma una cosa mi pare credibile – per tornare a casa, per mettersi in cammino verso l’anima, che poi è tutt’uno col fare anima, bisogna per prima cosa cadere o fallire e magari accettare e fare i conti con il lato comico della storia – fatto – e poi bisogna decidersi ad andare, però, ci vuole coraggio. Ecco, ce ne vuole. Il clacson dell’autista mi ha svegliato, quindi non so come andrà a finire. Mi pare che la scena sia rimasta in sospeso. Sono quindi obbligato a fermarmi anche io.
Giuro di non aver inventato nulla. E per tutti gli scettici, ecco un classico finale da fiaba:
“E chi a questa storia non crede, ha gli occhi ma non ci vede”
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Sbagliare, cadere, rialzarsi, e avere il coraggio di fare i conti con sé stessi per ricominciare tutto daccapo. Oh, io ti credo, eccome se ti credo… ( e Hillman è da un po’ che vorrei riprenderlo in mano, anche per cercare di ritrovare le tracce del mio daimon )
Già…e poi saper mollare le cose che non vanno e coltivare tutto il resto. Buona ricerca…
Anche a te
Purché tra le tu non ponga la tua scrittura e i tuoi contenuti che, non essendo (richiesti di essere) , sono liberi di evolvere nel limite che individua ognuno di noi al mondo (anche il genio assoluto in quanto umano).
Dopotutto, il limite è la definizione di uno spazio che ci appartiene, che ci fa reali.
Le parole! /: divino? Per grazia di dio e, solo poi, per volontà del popolo? Povero Carlo III! E poveri i suoi bambini! Tanto per dire.
Vedi a quanti giochi/equivoci possono condurre le parole?
Il limite è l’inverso dell’ostacolo. Senza limite non esistiamo; Non occuperemmo uno spazio; saremmo l’equivalente di un arto fantasma: un’anima fantasma.
E’ davvero, hai ragione, il tema della hybris da cui nessuno è, sempre, immune; che ci può persino stare purché non si faccia struttura.
Attendo questa tua evoluzione: senza scetticismo alcuno. Attendo di leggerne.
“Il limite è l’inverso dell’ostacolo” – bella formula. Per il resto, Chissà se verrà fuori dell’altro. Sono tempi in cui il vento soffia altrove, se soffia. E la direzione del vento, quella proprio no, non dipende da noi. Grazie per il tuo commento. A presto