Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Io, il giovane monaco e la Bhagavad-Gita – Parte prima

Posso rivedere la scena. Ero seduto sul treno, anni fa, sette, forse otto. Tentavo di finire certi lavori lasciati in sospeso, di ritorno a casa, distrutto. Un giovane monaco arancione-vestito e con la testa rasata, passava fra le file di sedili, quasi tutti occupati da pendolari stanchi, sfiniti, mezzo addormentati. Ai sorrisi del giovane monaco, rispondevano con semplici, No, oppure Non sono interessato, Non ho soldi. Molti neppure lo degnavano d’uno sguardo. Si era fermato anche davanti a me, sempre con lo stesso, ostinato sorriso. Solo a fatica riuscivo a sembrare gentile, a malapena capace di tenere lo sguardo lontano dagli appunti. Chiede un’offerta e da una sacca tutta colorata, tira fuori un tris di libricini. E per un istante il suo sguardo era andato al piccolo piano di legno su cui gravavano due grandi manuali. Si era però immediatamente accorto che guardavo il suo sguardo che guardava la prova del mio interesse per la carta fatta per esser letta.

Cosa hai? avevo chiesto per sottrarlo all’imbarazzo.

Cosa cerchi?

Dopo un attimo, non so ancora perché, gli rispondevo con una sincerità che non mi appartiene, guardingo come sono, Un libro contro la rabbia.

Rabbia…

E allora tira fuori un volumone e me lo piazza sotto al naso senza dire nulla e io, senza dire nulla, lo prendo, lo sfoglio senza vero sguardo, dò un contributo e, nel congedarlo con un sorriso, lascio cadere il libro di lato, sullo zaino afflosciato sul sedile accanto, pronto a tornare al mio lavoro.

Ci troverai dentro cose importanti.

Va bene.

Appena il giovane monaco si era allontanato, avevo lasciato cadere lo sguardo sulla copertina del volumone che mi era appena costato un pezzo da dieci. Sulla copertina figure bizzarre, braccia su braccia, elefanti inghirlandati, corni, scritte in sanscrito. Sapevo poco, allora come oggi, delle religioni e filosofie orientali, tutto preso com’ero – e sono – dal mio ingenuo eurocentrismo. Più volte mi sono ripromesso, in questi anni, di leggerlo con una qualche attenzione e sinceramente non ricordo altri testi iniziati e abbandonati tante volte quanto questo. È da mesi sul mio comodino, a prendere polvere e a lasciare la precedenza ad altri, pochi, testi che ho ancora la forza di leggere con una qualche attenzione o interesse. Lo sfoglio, leggo un paio di passaggi, qualche volta sottolineo e con la matita prendo qualche appunto o traccio a margine un grande punto interrogativo, prima di passare ad altro. Da mesi, sera dopo sera, sfoglio questo pesante tomo preso per caso, sul treno, da un giovane monaco. Ne leggo mezza pagina, quindi chiudo gli occhi brucianti dopo l’ennesima giornata fotocopia di quella precedente…ma sotto le palpebre compare lui…che con me si intrattiene.

Non mi interessa la religione, dico al giovane monaco, la sera, quando steso sul letto, distrutto, chiudo gli occhi…siamo nuovamente sul treno affollato, seduti, in una sorta di bolla, Non mi interessa la religione, farfuglio, e mia moglie, di lato, mi prende il braccio, credendo che, come spesso mi accade, io mi lamenti nel sonno…ma io la spingo nel Nulla e mi concentro sul giovane monaco che siede davanti a me, la schiena dritta, le labbra sottili, Va bene, niente religione, cerca di rassicurarmi.

Da ragazzo tutto mi spaventava. Gli altri mi credevano intelligente, terribilmente intelligente, ma io non sapevo muovere un dito, ero incapace di dire una sola parola, esprimere un pensiero, prendere una decisione. Sapevo a malapena il mio nome, ero un idiota.

Il monaco sorride, inclinando un poco la testa. Mi invita a continuare.

La psicologa della scuola era letteralmente innamorata di me. Diceva di non aver mai incontrato uno studente come me. Mi aveva consigliato di prendere un foglio bianco e disegnare a mano libera un cerchio e dentro un quadrato e scrivere AGISCI.

Ha funzionato?

Faccio cenno di no. Il monaco sorride, ma sta bene, poiché il primo a sorridere sono io.

Sul libro che mi hai dato sta scritto che non dovremmo mai agire pensando ai frutti del nostro agire…di agire in libertà e con distacco, in modo disinteressato, mai cedevoli verso l’inazione e sempre attivi e lieti, felici…ma questo non significa nulla, gli dico, non capisco, ammetto…tutto quello che sono riuscito a fare è sempre stato frutto di pianificazione, deliberazione, volontà, ferma volontà di raccogliere i frutti…come può esserci felicità e realizzazione. Come è possibile una vita in cui l’agire non miri a risultati?

Il tuo problema è l’agire, dunque.

.

…e la felicità.

Evidente.

O il tuo problema è non tanto l’agire, quanto la tua attenzione al frutto dell’agire? E di cercare la felicità nel frutto dell’azione, piuttosto che nell’azione stessa…

Non capisco.

Immagina che qualcuno ti faccia una cortesia, una gentilezza…di qualsiasi tipo…tu come reagiresti?

Lo ringrazierei, ovvio.

E come dovrebbe sentirsi l’altro, a tuo avviso? Lo chiameresti contento o felice, almeno in quel momento?

Certamente.

E se quella stessa persona pretendesse un beneficio, un frutto da quell’azione, pretendendo la tua riconoscenza, che tu lo ringrazi o, per assurdo, chieda qualcosa in cambio…tu cosa faresti?

Ne sarei infastidito.

Perché? Forse perché quell’azione risulterebbe orientata ad un fine?

Certo, egoistica o ipocrita…così la definirei.

Quindi orientata ad un fine o ai frutti, l’azione sarebbe del tutto interessata o premeditata. O sbaglio?

Non sbagli.

E allora quella persona sarebbe lieta o felice?

No.

E otterrebbe quel che intendeva ottenere? Favori e riconoscimenti?

Certo che no.

E qui una pausa.

Ritorniamo all’azione che non tien conto dei frutti.

Va bene.

Se tu non facessi nulla per lui, in cambio. Perderebbe qualcosa?

No.

Perché?

Perché non si aspettava di ottenere nulla.

Esatto. E se tu facessi qualcosa in cambio per lui alla prima occasione utile. Lui otterrebbe e beneficerebbe dei frutti del suo agire?

Certamente.

Senza che abbia però fatto nulla per ottenerli.

Giusto…e quindi agire senza tener conto del frutto del proprio agire, significa che il senso del proprio agire, il suo baricentro, per così dire, cade nell’agire stesso, di per sé compiuto, appagante, perfetto, tanto che sia riconosciuto o meno? Mentre chi vuole fondare il proprio agire sul frutto dell’agire, sul riconoscimento altrui, su un qualche beneficio o guadagno, farebbe cadere fuori di sé il senso del proprio agire, portando necessariamente squilibrio e fallimento, dolore. Hai detto questo? Qui ho sbagliato?

Io non sto dicendo nulla, sei tu a parlare.

Provo ad aggiungere altro, ma tutto si confonde.

Qui è dove tu sei arrivato, sorride.

Apro gli occhi e mi ritrovo sotto le coperte, la luce dell’abat-jour ancora accesa. Sono quasi le tre. Mia moglie dorme al mio fianco, un occhio socchiuso.

Mi alzo. Come potrei dormire?

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Questa voce è stata pubblicata il aprile 2, 2023 da con tag , , , , .

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