Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Lettere a Ian Testa – Misconosci te stesso

Caro Ian,

dopo molto tempo, innumerevoli dubbi e ripensamenti, mi sono finalmente deciso a scriverti. Posso vederti, mentre cerchi di realizzare, mentre ti dici che, dopo anni di silenzio, mi rivolgo a te come niente fosse, come se di mezzo non ci fossero un tremendo silenzio e una distanza fatta di giorni, mesi, anni, figli, lavoro, responsabilità. Perché sono qui a scrivere proprio a te? Perché troppe cose non vanno. Concedimi questa libertà – e se ti dicessi che questa mia iniziativa è dettata da un’urgenza? Dal fatto che mi pare di aver perduto l’anima? Anima. E chi la usa più una parola del genere. Me ne sorprendo anche io, mentre lo faccio. Eppure non trovo termine che sia più adatto, calzante, pregnante. Ebbene, la mia anima è imbrigliata nelle cose di ogni giorno; nelle piccole, diffuse preoccupazioni; in miseri impegni; in vuoti pensieri; nel tentativo di essere un buon padre di famiglia, un uomo responsabile, affidabile, fedele. Lo so, non sto scrivendo nulla di particolarmente interessante o di originale – ma non sono qui per impressionarti, sorprenderti, stupirti – ma solo e unicamente per vuotare il sacco, per dire la verità, sempre che tu voglia ascoltarmi.

Abbiamo la stessa età e non so te, ma io, giunto ai miei quarantacinque anni, mi ritrovo perso, senza orientamento o con una sola idea certa. E la cosa divertente è che ho realizzato la maggiorparte di quello che desideravo. È vero, la realizzazione dei propri desideri può essere l’anticamera di quello che diventerà il nostro piccolo inferno privato.

Non miro a niente di speciale, in questo mio scriverti – non voglio mimare le opere del passato, quei grandi che tu, lo so, conosci benissimo, non le Confessioni, non il Libro rosso o chissà che altro…no, miro solo a me stesso. E per farlo, devo misconoscere me stesso. Non è un gioco di parole, ma il preciso punto dove sono giunto. Misconosci te stesso. Formula da intendere nella sua doppia accezione – come perentoria affermazione, come accorata esortazione. Tu misconosci te stesso, tu non sai chi veramente sei o cosa veramente desideri – da questo errore fatale i miei (falsi) desideri, una volta realizzati, si sono mostrati per quello che veramente erano, qualcosa che cadeva fuori di me. E ancora “ti prego”, misconosci te stesso, poiché solo questo può permetterti di riprendere il cammino…

Ricordi quella sera di tanti anni fa, nella mia stanza, quando eri venuto a trovarmi e insieme, sfogliando il Pellegrino cherubico di Angelo Silesius ci imbattemmo in questo passo: “Non so quel che sono, non sono quel che so”? Ricordi la pelle d’oca e i venti caldi che dallo stomaco salivano su fino a farci rizzare i capelli? Eravamo solo due ragazzi ingenui, ignoranti, eppure vivi. A chi posso dunque scrivere se non a te, di questi miei banali e grigi dolori? Altri mi prenderebbero in giro o mi affibbierebbero un codice. Ma come potrebbero contenere e rendere conto di quella brezza antica che ancora oggi mi scuote fin nelle fondamenta? Soffia instancabile, da troppo tempo ormai. Mi sorprende mentre sono in macchina, fermo davanti al semaforo nell’attesa che mi conceda il via libera; al mattino, quando la giornata deve ancora iniziare, e alla sera, nella consapevolezza d’aver assolto a tutti i doveri, colpevole però d’aver disatteso il mio…

Mi sono lasciato prendere dal panico e ho perseguito – spesso e purtroppo raggiungendoli – molti obiettivi. Ho vagato in molte direzioni, seguito sempre dal sospetto di non aver mai realmente mosso un passo. Tre sogni, come rintocchi di campane che suonano a morto, mi hanno imposto di fermarmi una volta e per tutte. Ed è da questa fredda e immobile situazione che ti sto scrivendo. Faccio tutto quello che devo fare, ma, in realtà, nulla realmente compio. Anzi, sono io stesso un nulla. Al mattino mi sveglio e inizio a contare le ore che mi separano dalla sera, dal sonno, nella febbrile attesa di un sogno che possa indicarmi la via.

Tutti lo sanno, ogni percorso spirituale inizia dal dolore, dalla meraviglia o, ancora, dall’angoscia – anche se non ogni dolore dà necessariamente inizio alla ricerca spirituale. Per anni ho sofferto, convinto che tale condizione fosse semplicemente da accettare e sopportare, ma un giorno, senza che lo volessi, qualcosa è cambiato: “Sono stanco di soffrire” una parte di me a me ha parlato. Di lì, da quel giorno, è iniziata la ricerca del farmaco. Ne ho provati molti ma, infine, solo la scrittura riesce a lenire e a dar forma, anzi, a lenire nell’atto stesso di dar forma al dolore…nel ricamarci sopra, nel farlo parlare, nel prestargli questa mia mano, come esercizio spirituale per eccellenza.

È forse giunto il tempo di fermarsi. Sarò in grado? Ho lavorato tanto, ma senza aver mai realizzato nulla; ho studiato molto, ma senza arrivare a conoscere nulla con chiarezza e precisione; ho una famiglia, ma la solitudine avvelena queste mie povere giornate. Tutto è ben fatto, ma il mal-essere è sempre più pervasivo. Mi sono accorto di aver passato mesi e anni ad agitarmi come un forsennato, ma con la sensazione di essere ancora al punto d’inizio. Ho spinto sui pedali d’una bici senza catena, a vuoto, incapace di avanzare d’un solo passo, privo di senso e di veri compagni di viaggio.

Così, isolato, ho vagato da un errore all’altro, incapace di accettare l’essenza dell’agire stesso, il resto necessario che corrode ogni scelta, la possibilità dell’errore e del fallimento – da tempo paralizzato dal dubbio e nel naufragio della prima persona ti invio questa lettera nella speranza che tu voglia leggerla…

Il tuo amico,

T

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