Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Qualcuno, forse, conosce già Timmy Tim, i suoi problemi e dilemmi[1]. Forse è già stato dimenticato, ma lui vive ed è pieno di problemi non risolti che, come ovvio, rovinano l’esistenza sua e di chi gli sta intorno. Timmy ha certi problemi nel gestire la rabbia, lo scontro. E ogni evento avverso, anche il più insignificante, nella sua mente assume grandezze inimmaginabili, tali da rendere la sua vita, e quella di chi in lui si imbatte, un vero inferno. Timmy pare decisamente irrecuperabile. La società non riesce a fare un cazzo per lui, e lui lo sa. Per questo è sconfortato e tale sconforto ritorna su se stesso, andando ad alimentare la sua rabbia sempre in cerca di un oggetto, un obiettivo, una scusa per scatenarsi…
Possibile che succeda di nuovo? E sempre per strada? E sempre con le macchine di mezzo? Timmy Tim la guida solo raramente, la macchina. Sa che per lui è territorio ostile, campo minato, strumento demoniaco. Non sgarra, quando guida. Se vede il giallo si ferma. Se un pedone attraversa Tim frena. Se deve dare la precedenza, che precedenza sia. Le persone impazziscono, quando guidano la macchina. E Timmy Tim non ama le persone che impazziscono e, soprattutto, non ama le persone che impazziscono con lui, anzi, contro di lui. Per questo non vuole nemmeno salirci, in macchina, figurarsi poi a guidarne una. Ma oggi è obbligato a farlo, perché la madre deve uscire dall’ospedale e lui deve andare a prenderla. Glielo aveva detto in tutti i modi. Ti mando un taxi, ti vengo a prendere e ti carico sul carrello della spesa del supermercato e con una moneta ti porto fino a casa. Ma lei no. Le aveva perfino proposto di farsi prendere dal suo amichetto, ma lei lo aveva guardato con disprezzo. Evidentemente quel mezzo uomo era, per fortuna, uscito dalla vita della madre. E Timmy Tim aveva ringraziato il Dio in cui non aveva fede, per quella cosa, perché temeva che un giorno o l’altro sarebbe stato lui a tirar fuori, a modo suo, quell’uomo dalla vita della madre. Insomma, Tim aveva dovuto mettersi alla guida. Aveva il cuore in gola per l’angoscia e una voce che gli sussurrava all’orecchio che non sarebbe riuscito ad arrivare all’ospedale, che per nessuna ragione al mondo sarebbe stato in grado di guidare, senza incidenti, per sette miseri chilometri. E così era accaduto, perché la sua anima era profetica…
…che cazzo hai detto, pezzo di merda, eh? Ripeti il cazzo che mi hai detto…Timmy Tim scandisce per bene le parole, che escono come proiettili dalle fila di denti serrati per lo sforzo, mentre con la gamba destra stantuffa dentro al finestrino sfondato di una monovolume ferma sul ciglio della strada, subito dopo l’incrocio. Il tacco delle scarpe insiste sulla nuca, il collo, le spalle, i reni di un cinquantenne che l’aveva appena mandato affanculo e gli aveva dato dello stronzo, e tutto solo perché Timmy Tim aveva impegnato l’incrocio con un di più di cautela e prudenza…
Non è che Timmy Tim, poverino, abbia letto testi sull’aggressività o sulla gestione dell’ira e quegli incontri con specialisti sempre diversi, non avevano sortito alcun effetto, e infatti, mentre picchia, non pensa nemmeno per un attimo che la sua reazione è non solo esagerata, ma addirittura segnata da un certo parossismo. E nemmeno ha mai riflettuto su certe tracce o segni o cicatrici – dello spirito, ma anche del corpo – che gli hanno lasciato i calci in culo, le sberle, i pugni e le cinghiate di certi amichetti della madre, quando lui, da bambino, dava di matto. E nemmeno ha mai ragionato sugli schiaffi della madre o sui graffi sulle guance lasciate delle unghie ingiallite dal tabacco di sigarette succhiate fino al filtro. Non pensa che questo sconosciuto che sta devastando, in fondo, non ha fatto niente di così grave per meritare un trattamento del genere, così come lui, da bambino, non meritava quelle severe, severissime punizioni, solo per aver chiesto qualcosa da mangiare o perché pregava per non rimanere solo tutto il giorno o perché la sera non riusciva ad addormentarsi e che l’uomo che riusciva a vedere anche da sotto le palpebre abbassate e per cui stava immobile sotto le coperte, gli faceva così tanta paura da farlo urlare.
No, Timmy Tim non pensa tutto questo mentre apre lo sportello e trascina lo sconosciuto fuori dall’abitacolo. Non gli interessa che l’uomo pianga e non si ferma nemmeno davanti alla donna, forse la moglie, che sta piangendo disperatamente. E neppure si accorge dei due bambini che, sul divanetto posteriore, si dimenano – muti per l’orrore – intrappolati dalle cinture di sicurezza. Si sarebbe fermato, se li avesse visti, se avesse incontrato i loro occhi? Nessuno lo sa…
Che cazzo hai detto? Riprende Timmy, e qui si capisce che si sente veramente triste e depresso e che in qualche modo la sua felicità o almeno fine di questo dolore, in questo momento, dipende dallo sconosciuto. E se lo picchia, come sta effettivamente facendo, significa che deve e vuole sovrastarlo, che ha un disperato bisogno di sovrastarlo – e che questo è come fargli dire, implicitamente o anche esplicitamente, che non lo è, uno stronzo. E questo perché, forse, Timmy Tim pensa effettivamente di essere uno stronzo che non vale un cazzo di niente e che si merita quelle brutte ingiurie…e però, allo stesso tempo, Timmy non le sopporta, così come non sopportava, da bambino, le brutte parole che gli sputavano in faccia la madre e i suoi amichetti…e l’unica cosa che vuole è che tutte quelle brutte cose rimangano sepolte…
Anche se non è uno sciocco, Timmy Tim in questo momento non riesce a comprendere di non essere semplicemente un violento; non gli passa per la testa di non essere solo ed unicamente quel bastardo vigliacco che effettivamente è; uno che infierisce su un uomo che piange e implora di fronte alla moglie e ai figli…no, Timmy Tim non capisce di essere letteralmente uno schiavo, schiavo del giudizio di questo malcapitato estraneo.
Il violento Timmy Tim non ha alcuna fede in sé e per questo ha bisogno di questo povero uomo che sta sputando bava e sangue e forse un dente. Ha bisogno, un disperato e vitale bisogno che questo uomo ritiri quanto detto. Timmy Tim, in fondo, non può tollerare che questo sconosciuto conosca la verità, che la confermi e la faccia montare a galla, in superficie. Il terribile giudizio che Timmy Tim ha di sé è tornato in superficie, anche se lui cerca di cacciarlo in fondo, lì dove da sempre ribolle e gli fa venire la schiuma alla bocca…
Quanto ancora può picchiare, Timmy Tim? La scena va avanti da non più di trenta secondi. Probabilmente si sarebbe fermato da solo, ma qualcuno arriva alle sue spalle e qualcosa lo colpisce, con violenza, alla schiena, scaraventandolo contro la fiancata della macchina. Ed ecco che incontra gli occhi di una bambina. Sette, forse otto anni. Accanto a lei un bambino, più piccolo. Immobili. La bocca spalancata e muta. Gli occhi spalancati e muti.
Cazzo, soffia Timmy Tim, lasciandosi cadere. Affanculo la madre, che ci marcisse all’ospedale. Si accascia accanto all’uomo che ha devastato. Rimane lì, a terra, zitto e buono, rassegnato a quel che sarà.
[1] Per chi non sapesse o avesse dimenticato certe di storie di Timmy Tim può sapere o rammemorare QUI.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
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