Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Una gioviale scossetta elettrica, trasmessa dalla sveglia automatica incorporata nel modulatore d’umore che si trovava vicino al letto, destò Rick Deckart. Sorpreso – lo sorprendeva sempre il trovarsi sveglio senza alcun preavviso – si alzò dal letto con indosso il pigiama multicolore e si stiracchiò. Ora, nell’altro letto, anche Iran, sua moglie, dischiuse gli occhi grigi, tutt’altro che gioviali, sbatté le palpebre, quindi gemette e le richiuse.
Il tema principale di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? è la possibilità di distinguere umani e androidi. La necessità di farlo, per Rick Deckart, è però collegata non solo alla sua specifica missione (come sempre non riassumo la trama, troppo nota per essere ripetuta per l’ennesima volta), ma a tutta una serie di aspetti per nulla secondari, anzi. Cose tipo l’amore (e la possibilità di provare attrazione per un androide, così come la possibilità, per un androide, di provare qualcosa in generale); il discrimine fra normale e anormale; fra una vita autentica o meno; fra la rassegnazione e l’impulso a resistere ad un mondo, una realtà, una vita che non ci piacciono. La risposta a tali domande punta a una questione più generale che concerne l’umanità dell’essere umano. Questo romanzo di Dick in realtà non offre risposte, bensì delle possibili piste. Certo, per seguirle bisogna avere il fiuto del cane da tartufo, ma anche l’istinto e la natura di talpa. Bisogna saper scavare, ma senza perdersi…
In quell’istante – continuò Iran – quando ho tolto l’audio, ero d’umore 382; avevo appena composto il numero. Benché percepissi intellettualmente quel vuoto non lo “sentivo”. La prima reazione è stata quella di ringraziare il cielo che ci potevamo permettere un modulatore d’umore Penfield. Ma poi mi sono resa conto di quanto fosse malsano percepire l’assenza di vita, non solo in questo palazzo ma ovunque, e non reagire; capisci?
Ciò che specifica l’essere umano in quanto tale è la capacità di non far finta di nulla, di far convergere intelletto ed emotività – e quindi realizzare che la conoscenza, ogni conoscenza, è sempre connotata affettivamente; e che di conseguenza dietro ogni emozione – nell’essere umano – può essere intravista (in filigrana) un’idea: ogni idea è a suo modo intrisa di carne e sangue – è emotivamente vivificata; la carne e il sangue sono portatori di messaggi, idee, concezioni del mondo.
Dick va però oltre e aggiunge un nuovo elemento. L’intelligenza è nell’uomo incredibilmente sviluppata, ma in fondo la si può trovare ovunque; a differenza dell’empatia che, al contrario, sarebbe una caratteristica specifica dell’essere umano…
L’empatia, evidentemente, esisteva solo nel contesto della comunità umana, mentre qualche grado di intelligenza si poteva trovare in qualsiasi specie e ordine natura, arachnida compresi…
L’empatia – in realtà – sembra ben dosata e distribuita nella Natura. Non è appannaggio del solo essere umano che, tuttavia, è l’unico a costruire ospedali e a proporre cure universali e disinteressate in modo sistematico…viene a questo proposito in mente la celebre risposta dell’antropologa Margaret Mead ad uno studente che le chiedeva quale fosse il primo segno di civiltà in una comunità. La risposta, in sintesi, è la seguente: il ritrovamento di un femore rotto e poi guarito e cioè curato. In natura, un animale, dopo una ferita del genere, così grave, viene inevitabilmente abbandonato alla propria sorte, ossia alla morte. Nella civiltà umana, al contrario, qualcuno è stato curato, messo in salvo – perché qualcun altro ha speso tempo e risorse per curare e salvare.
L’essere umano condividerebbe con tutto quanto esiste una indomita la volontà di vivere, e su tale sfondo universale si staglierebbe, come tratto distintivo, la sua capacità di prendersi cura dei propri simili. Certo, basta guardarsi intorno per prendere atto del fatto che l’essere umano si distingue anche per la sua capacità di commettere atrocità su larga scala, del tutto estranee a quanto lo circonda. Sembra un vicolo cieco. Fuori di noi un agnello è un agnello, mentre un lupo è un lupo – mentre gli esseri umani possono assumere sia l’uno che l’altro ruolo o, addirittura, entrambi.
Una considerazione del protagonista aiuta ad inquadrare meglio l’intera questione:
…si chiese se Mozart avesse avuto qualche intuizione del fatto che il futuro non esisteva, che aveva già usato tutto il poco tempo che gli spettava…queste prove finiranno, lo spettacolo finirà, i cantanti moriranno…infine il nome “Mozart” scomparirà e la polvere avrà vinto…possiamo sfuggirle per un po’…sopravvivere un po’ più a lungo, me sempre per un tempo comunque definito…
L’essere umano, forse, si specifica per un cortocircuito, per una capacità che non lo rende superiore a quanto lo circonda, bensì capace di tutto, caritatevole e/o mostruoso – e cioè un intelletto così sviluppato da tramutarsi da strumento di salvezza in supplizio e calvario: quella stessa consapevolezza di sé che gli permette di proiettarsi nel futuro e anticipare la morte, la propria e quella di ogni cosa, ha determinato il progresso, le cure, ma anche gli attaccamenti, la creazione di clan, tribù… e quindi tutto il complesso di diffidenza, paura, violenza, capacità di sterminio…
L’intelletto, di per sé, è uno strumento di analisi che assolve a scopi precisi: la sopravvivenza – ma quando questa è assicurata, allora l’intelletto torna su se stesso, accumula dati su dati e forse così avvelena la vita, propria e altrui – fa sorgere la volontà innanzitutto di accumulare e poi, magari, di scalare, accentrare potere, risorse, capacità di dominio – risponde in modo compulsivo a dei bisogni soddisfatti, poiché sa e sente la necessità del male, della sofferenza e della morte, ma non si arrende – tale mancanza di resa, di lucida accettazione, non consente all’essere umano di fermarsi e riconsiderare le cose da un’ottica superiore, più generale.
…è la condizione fondamentale della vita essere costretti a far violenza alla propria personalità. Prima o poi, tutte le creature viventi devono farlo. È l’ombra estrema, il difetto della creazione; è la maledizione che si compie, la maledizione che si nutre della vita. In tutto l’universo.
Intelletto, emozioni, sentimenti? Quale è il tratto distintivo dell’essere umano? Forse, l’essere umano è la sua stessa capacità, frutto di un lunghissimo percorso (ogni volta da ripercorrere da zero dal singolo) che porta alla consapevolezza di essere solo una Parte del Tutto e (forse) niente più. Visione pessimistica? Non credo, almeno, non se ci si colloca e ci si auto-comprende onestamente in quell’universo di cui Dick parla: difficile da conseguire, ma tale onestà non pretende che per l’essere umano vi sia un diritto speciale, un privilegio che lo collochi al di sopra di quanto lo circonda. No, non è pessimismo, perché il pessimismo è una sorta di piagnisteo. E non è di certo una forma di ottimismo, poiché l’ottimismo è un ottuso chiuder gli occhi di fronte al negativo, al limite, al dolore imperante. Il realismo, al contrario, è la presa d’atto – e questo è forse specificamente umano, ossia la sua capacità di riconoscersi – ripeto – come parte del Tutto, calato nel fluire incessante delle cose, nel limite cui tutte le cose sono soggette…è il sentimento del vuoto, il non chiuder gli occhi rispetto a tale nulla incombente, ma anche lo slancio – e cioè rifiuto dell’arrendevolezza degli androidi – che offre alla vita un senso, un significato che sarà pure infondato (e quindi in-sensato), ma che tuttavia è reale, concreto come la carne di cui siamo fatti…un significato che verrà spazzato via con la carne di cui siamo fatti? E va bene. Io non so se gli androidi sognino pecore elettriche, però mi ha fatto venire in mente un sogno bello e spaventoso che ha ripreso piede fra i pensieri…
Immagina di ritrovarti nel bel mezzo di un lungo, lunghissimo corridoio, nella vecchia casa dei tuoi genitori. E immagina che infondo a quel corridoio vi sia un bagno e, dentro, tuo fratello davanti allo specchio, gli occhi rivolti in basso, su un lavandino grigio, vecchio, forse sporco, e che accanto a lui ci sia tuo padre, vostro padre, anziano, ma stranamente alto, che continua a fargli sempre la stessa domanda, ininterrottamente: hai finito di leggere quel libro? E tuo fratello, senza parlare o trovare il coraggio di alzare lo sguardo, fa cenno di no. E allora tu ti avvicini lentamente verso il bagno, attraversando il buio corridoio, e dici a tuo padre di smetterla, di non insistere, di lasciar stare tuo fratello. E alla fine lui esce e lo guardi in faccia. Non è arrabbiato, ma solo terribilmente, mortalmente, deluso, amareggiato, sfiduciato. E allora tu entri, al suo posto, e cerchi di consolare tuo fratello e lui alza finalmente lo sguardo verso di te – solo che un occhio, il sinistro, rimane chiuso. Rotto. Assomiglia a quelle vecchie bambole che aprivano gli occhi se le tenevi dritte e li chiudevano se le adagiavi. Uguale, il suo occhio sinistro era difettoso e quel difetto, spaventoso, ti obbliga a fare qualcosa. Porti le tue mani verso il suo volto, Vediamo di mettere a posto questo occhio, dici, ma proprio nel momento in cui stai per sfiorare il suo volto, qualcosa monta, in te, e sei obbligato ad aprire i tuoi, di occhi, e svegliarti nel bel mezzo della notte…
Non so se gli androidi sognino pecore elettriche e non so nemmeno cosa sia un essere umano, ma so che gli umani possono sognare fratelli tramutati in bambole difettose cariche di un profondo dolore di cui tu vuoi disperatamente prenderti cura…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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