Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Pausa d’Estate – Un sabato di sole, sabbia e sonno con Marcovaldo

Per i suoi reumi, aveva detto il dottore della Mutua, quest’estate ci vogliono delle belle sabbiature. E Marcovaldo un sabato pomeriggio esplorava le rive del fiume, cercando un posto di rena asciutta e soleggiata…

Quest’anno, forse, non può esser veramente vantata una pausa – questo è stato, di fatto, un anno di sostanziale pausa o attesa, chissà, forse nella speranza che il silenzio porti consiglio. Non è ancora accaduto. Forse accadrà. Come il buon vecchio Marcovaldo, d’estate, ci si può coprire in qualche modo di sabbia nel tentativo di asciugare tutto l’umor nero accumulato e stagnante dal lungo inverno…non che l’estate non produca il suo – di umor nero – ma quello estivo, a confronto, può essere più sottile e impalpabile. Come quello che prende nel primissimo pomeriggio, dopo il pasto dei più, quando s’alza un poco di vento – ne sono testimone in questo preciso momento – e gli alberi leggermente fremono, senza che vi sia un senso, oltre il loro stesso esser lì con tutto il carico delle foglie scintillanti – quando la parola si arresta, tutta pudore, di fronte al Reale, di per sé indicibile.

Il sole dardeggiava, la sabbia bruciava, e Marcovaldo grondando sudore sotto il cappelluccio di carta provava, nella sofferenza di star lì immobile a cuocere, il senso di soddisfazione che danno le cure faticose o le medicine sgradevoli, quando si pensa: più è cattiva più è segno che fa bene.

Le estati per eccellenza sono quelle in cui non si sa bene dove si andrà a parare. Sono quelle più pericolose, le estati vuote, piatte e calde fino allo sfinimento, quelle in cui tutto è impossibile, ma di un impossibile tutto particolare, quello in cui, precisamente, difetta pure la volontà – dove anima e mondo debolmente si intrecciano nelle ore perdute, lunghissime, che fan sorridere e forse danno da pensare nel loro essere così suscettibili a cadere nel dimenticatoio, disponibili ad abbracciare il nulla. Qui non si parla delle estati tutte mete e tragitti e progetti e lunghi viaggi – dove tutto è scritto e pianificato; e nemmeno si parla di quelle in cui nulla è pianificato e in cui si tenta l’avventura, perché queste sono estati dove, al più, possono esserci inconvenienti e intoppi. No, no. Qui si tratta di terra bruciata e nulla più – dell’incapacità di fare che lascia brillare l’impossibilità di essere. È una sorta di involontario e distratto, inconsapevole andare, come quello del buon Marcovaldo.

S’addormentò, cullato dalla corrente leggera che un po’ tendeva, un po’ rilassava l’ormeggio. Tendi e rilassa, il nodo, che prima Filippetto aveva già mezzo slegato, si sciolse del tutto. E la chiatta carica di sabbia scese libera per il fiume. Era l’ora più calda del pomeriggio; tutto dormiva: l’uomo sepolto nella sabbia, le pergole degli imbarcaderi, i ponti deserti, le case che spuntavano a persiane chiuse oltre le murate…

Strano effetto. Sarà il caldo, quello per cui lo star fermi e non aver di dove andare produce un continuo errare – ritrovarsi mal-andati e pervasi da un mal-essere che parla senza lasciarsi capire, o che nulla dice, ma proprio per questo capace di catturare tutta l’attenzione. Sono le ore, i tempi e i giorni che non esistono eppure sono, che non offrono nulla, ma a cui ci si aggrappa. Un mio amico cui presto lascerò la parola, così pure molte delle persone intelligenti – ma veramente – sostengono che ogni ricerca spirituale prende le mosse dal dolore. Hanno ragione, forse. Non me ne intendo.

Si può restare a lungo aggrappati al vento del primo pomeriggio, alle cicali urlanti, a qualche bambino che, nell’ora del silenzio, vaga annoiato, forse per la prima volta nella dimensione dello spirito? Si può trattenere la lancetta delle ore? Come scongiurare il rischio che irrompa quella che tutti, sbagliando, chiamano la realtà? C’è la possibilità? Purtroppo no. Che queste ore non passino mai. Il nulla di cui sono fatte ha ancora molto da dire, nel suo silenzio di sfinge.

Capì d’essere in mezzo al fiume, in viaggio; nessuno rispondeva: era solo, sepolto in un barcone di sabbia alla deriva senza remi né timone. Sapeva che avrebbe dovuto alzarsi, cercare di approdare, chiamate aiuto; ma nello stesso tempo il pensiero che le sabbiature richiedevano una completa immobilità aveva il sopravvento, lo faceva sentire impegnato a star lì fermo più che poteva, per non perdere attimi preziosi alla sua cura.

E, sempre che si sia ancora vivi, è sempre un grande stupore, l’estate, con le sue risate forzate, le false esperienze madide di sudore, gli occhi gonfi di oggetti e l’impressione, sulla spiaggia, che la folla, la calca, la vera vita, il vero divertimento, sia sempre un poco più in là, nello stabilimento accanto – traditi come si è dall’illusione che schiaccia le innumerevoli solitudini su di un orizzonte piatto e soffocante, fatto di ombrelloni e costruzioni abusive, così come le stelle, distanti nello spazio infinito, paiono puntini disegnati su di un foglio dalla mano di un bambino.

Di sabato pomeriggio, una gran massa di bagnanti affollava quel tratto di fiume, dove l’acqua bassa arrivava solo fino all’ombelico, e i bambini vi sguazzavano a scolaresche intere, e donne grasse, e signori che facevano il morto, e ragazze in bikini, e bulli che facevano la lotta, e materassini, palloni, salvagente, pneumatici di auto, barche a remi, barche a pagaia, barche a palo, canotti di gomma…e Marcovaldo…d’una cosa era certo: che neppure una goccia d’acqua l’avrebbe sfiorato.

Incapace anche solo di dar un’idea, meglio arrendersi. Per ora va bene così. Naufragare nel silenzio dell’agosto a-venire.

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Questa voce è stata pubblicata il luglio 30, 2022 da con tag , , , .

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