Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Qualche tempo fa mi sono imbattuto in una vecchia, brevissima e folgorante storiella di origine mediorientale che ha come protagonista un folle saggio (per qualcuno più folle che saggio, per altri più saggio che folle) di nome mullah Nasreddin. Un giorno il mullah fu sorpreso da un passante a gettar manciate di briciole attorno alla casa – il passante, perplesso, gli chiese cosa stesse facendo e il mullah: “Allontano le tigri”.
“Ma qui non ci sono tigri, glielo assicuro” rispose stupito il passante.
E il mullah, raggiante: “Esatto. Efficace, no?”.
Spesso, senza rendercene conto, agiamo in modo del tutto irrazionale, almeno all’apparenza – costelliamo le giornate e le nostre attività di tante piccole azioni del tutto superflue, se considerate in modo distaccato (come il passante), eppure assolutamente necessarie, se prese dal versante interno, ossia dal senso che vi infondiamo (come il mullah). Una girandola di piccole azioni, accortezze, cerimoniali e rituali vengono silenziosamente e tenacemente selezionati dal tempo e dall’esperienza come utili, se non necessari per (avere l’illusione di) tenere sotto controllo le insidie del mondo o realtà (le tigri).
Per la fredda ragione è facile far saltare il giochino: lì dove per abitudine istituiamo relazioni causa-effetto in realtà non ci sarebbero altro che coincidenze o pericoli e avversità mai esistiti. Come nella storiella del mullah, rovesciandola, spesso si parte da un ambiente assolutamente privo di tigri, cui seguirebbe un agire volto a sventare un pericolo mai veramente esistito. Si è immersi nell’errore più comune del mondo: confondere il pensiero con la realtà, credere che i pensieri siano reali e non produzioni della mente – istituire nel mondo nessi che in realtà sono solo nella nostra mente. Eppure, per ritornare al mullah, qualcosa non torna mai veramente: in effetti il suo rituale sembra proprio necessario, lì di tigri – di cui ha timore – non se ne vede traccia. Cosa è che viene prima? Il pensiero o il reale? Il rituale che scaccia le tigri o l’assenza di tigri che conferma il vuoto e folle rituale fondato su di una paura irrazionale? In mancanza di eventi avversi la superstizione del mullah viene confermata, giorno dopo giorno, e così lo sono tutte le nostre false – e dunque cattive – credenze. Perché se è vero che il passante ha la testa ben piantata sul collo e conosce l’ambiente che lo circonda, tuttavia il mullah sembra vedere qualcosa che il passante non riesce a vedere: il mondo, o realtà, sorpassa infinitamente i nostri buoni ragionamenti. Per questo motivo è bene essere vigili, attenti, senza mai dar nulla per scontato. Il mullah direbbe al passate: non prendere le cose alla leggera o, ancora, non credere che le tigri non ci saranno in futuro solo perché non ci sono mai state. Tu non sai tutto. In entrambi i casi, a ben vedere, c’è una dichiarazione di fede: da un lato il buon senso, la razionalità; dall’altro, il sistema di pratiche e azioni per tentare di controllare, per quanto possibile, il mondo.
Il secondo versante è quello che mi incuriosisce. Mi interessa perché mette in moto la narrazione del reale, più che il (preteso e ingenuo) prenderne atto con imparzialità; in qualche modo, il complesso agire umano è un fenomenale sistema di credenze che permette di respirare il mondo – apre a incredibili imprese oppure può restringe in modo incredibile il campo della libertà (si pensi solo allo sterminato menù di pratiche di cui fanno spettacolo ossessivi e compulsivi) – in entrambi i casi, una cosa è certa: vi è un’onestà emotiva di fondo: il mondo appare (come in effetti è) enorme, potente, incontrollabile, pericoloso, pieno di segni da interpretare, di spiriti cui rispondere con il giusto agire, forze cosmiche cui sottomettersi o allearsi. Ad un livello più alto, fatto di onestà intellettuale, o saggezza, si può parlare di (parziale) accettazione e comprensione della realtà e della sua incredibile potenza. Tale accettazione, che non ha nulla a che fare con la rassegnazione (che si risolve in una limitazione della propria libertà per un fine impossibile – ossia controllare il mondo) permette di liberare le energie e l’agire mettendo in conto la nostra natura limitata.
La storiella del mullah ha riportato alla mente – spesso accade con questi temi – la mia nonna sciamanica, la persona cui devo una certa tendenza a non fidarmi di quanto si può solo vedere. Alla base della sua lunga vita c’era un’idea che non aveva mai pensato, ma che ne aveva costituito la spina dorsale, il fascino, la profonda testardaggine: per quale motivo chi è convinto di veder-di-più deve arretrare rispetto a chi forse vede meno? Tutte le sue parole, azioni, convinzioni premettevano una questione basilare: cosa è reale? quello contro cui semplicemente inciampi nel mondo o quanto smuove il tuo essere fin nell’intimo? Perché lei diceva – e non ammetteva repliche – di veder spiriti, intravedere il futuro, il destino. Era convinta di aver delle capacità, se non poteri. Vedeva le anime. Sempre con la coda dell’occhio, sempre di sfuggita, sempre nell’attimo in cui svanivano, sempre nel momento in cui tu non potevi vederli più, poiché arrivavi troppo tardi. E una cosa ho da lei imparato. Ogni spirito ha il suo unico spettatore. Gli spiriti sono esclusivi. Uno spirito, un vivente. Fra i viventi, solo il racconto delle rispettive visioni. Alcuni, molti spiriti erano buoni. Alcuni, una minoranza, cattivi o invidiosi. E più eri prezioso – e io per lei lo ero più di tutti e tutto – più questi spiriti invidiosi ti giravano intorno, cercavano di insinuarsi nei pensieri. Di qui la necessità della benedizione della notte, prima di lasciarmi affrontare la notte e il sonno – un segno della croce sulla fronte del bambino che si avventura, solo, nel regno dei sogni.
E poi il suo sguardo scrutatore su quello puro dei neonati che, secondo lei, potevano ancora vedere quegli stessi angeli con cui erano stati a contatto fino a pochi giorni prima – c’era qualcosa di splendidamente platonico, anche se allora, nella mia infanzia, non pensavo a Platone, ma venivo semplicemente scosso da un brivido, al pensiero della capacità dei miei fratelli più piccoli di veder le anime. Non avevano gli occhi puntati al soffitto della camera da letto, ma ben oltre, verso l’Iperuranio, un mondo fatto di anime e idee.
Sono grato per quella collezione di pratiche e scaramanzie, rituali e credenze che da bambino tanto mi affascinavano, quando d’estate mi separavo dalla mia famiglia, abbandonavo il mondo fatto di giacche e cravatte, del tempo misurato sugli orologi, di impegni e strade tutte asfalto e semafori. Per mesi mi trasferivo dai miei nonni, di cui ho sorriso, da ragazzo, dopo aver letto una manciata di libri – senza capirli – solo ora, nella maturità, ne (ri-)scopro la profonda, sotterranea, vivificante influenza, la ricchezza, la potenza.
Ricordo perfettamente uno di quegli assolati pomeriggi di agosto, quando il caldo era così asfissiante che non si poteva metter piede fuori di casa e bisognava tenere le saracinesche abbassate, lasciando giusto qualche spiraglio per pochi raggi di luce. Mio nonno aveva mal di testa, per il troppo sole. Mia nonna lo aveva fatto sedere sulla sedia, in cucina, e poi gli aveva sistemato sulla testa un piatto riempito con un filo d’acqua, in cui poi aveva lasciato cadere poche gocce di olio. Aveva poi preso un bicchiere con dentro una pallina di cotone accesa con un fiammifero, per “togliergli il sole dalla testa” – e ricordo l’acqua che bolliva e il bicchiere che si riempiva di una nebbia fitta e scura, mentre lei farfugliava muovendolo lentamente in piccoli cerchi – e poi la lettura dell’olio, delle forme che aveva preso e mio nonno che ascoltava, attento, così come io, rapito e senza comprendere una sola parola del loro linguaggio esoterico.
Mi sono spesso sottoposto a questi riti. Mia nonna mi guardava le mani, seguendone le linee, o mi faceva spalancare gli occhi, per leggerli meglio o verificava la forma del mio cranio – dicendomi che era la forma di chi era estremamente, ma pericolosamente intelligente, o ancora la forma delle mie orecchie, dicendomi che erano quelle di chi avrebbe vissuto almeno cent’anni. E io ascoltavo, senza contraddirla, anche quando, orami adulto, passavo a trovarla solo per qualche giorno. E lei controllava la mia lingua, e io la lasciavo fare, e ascoltavo diagnosi e previsioni, seguivo ricette e auspici. Lasciavo cadere a terra Kant o Hegel, Aristotele e Freud e mi immergevo nelle sue lunghe narrazioni o la ascoltavo, alla sera, mentre recitava il suo rosario in un eterno lamento, che per me era una ninna nanna. Ed ero a casa – in un sogno a occhi aperti, seduto nel suo balconcino che affacciava sul mare. E chi ero io per mettere bocca e tentar di contraddire la profonda saggezza di una anziana donna ignorante di tutto e che non s’era mai mossa dal suo paesino e che quel poco che conosceva, l’aveva appreso dalla televisione? Ricordo come fosse ieri il suo ultimo rituale – una volta che m’aveva lasciato preparare il caffè perché a lei facevano troppo male le ginocchia e non poteva alzarsi. Ricordo che aveva preteso la mia tazzina, per leggerne il fondo. Aveva inforcato gli spessi occhiali dalla montatura nera, le guance cadenti immobili, il neo viola, le rughe profonde, sulla fronte, segno d’un serio sforzo ermeneutico, Guarda, aveva detto, ti sta esplodendo la testa. Pensi troppo. E quella fu una delle poche volte che ero riuscito a vedere quello che vedeva lei. Una piccola testa, di profilo, con tanto di naso e bocca e collo, al sommo aperta in una vera e propria esplosione. Non va bene, aveva sentenziato, prima di chiudersi nel suo silenzio.
E aveva ben profetizzato – poiché qualche mese dopo avrei scontato le conseguenze di una enorme confusione in cui da tempo vivevo, senza rendermene conto – credevo reali i pensieri e confondevo la riflessione con l’azione.
Chissà quanti, senza saperlo veramente, si perdono in riti che non riconoscono come riti. Ognuno ha i propri e tutti hanno come fine l’improvvido tentativo di controllare il mondo, trattenere il tempo e la vita un pelo prima del suo confine ignoto – perché su, in fondo, la vita non è altro che questo: morte e significato. E strettissimo il loro legame, poiché la morte è spaventosa solo fino a che non si è dato un significato alla vita.
Io, intanto, seguendo la flebile voce del mio demone, mi lascerò andare a qualche stravaganza: conterò fino a dieci aspettando il latrato d’un cane; conterò i cerchi della ragnatela della ringhiera del mio balcone vaticinando sugli anni che mi restano da vivere; tratterrò il respiro per tre secondi prima di rispondere al telefono, scacciando così le cattive notizie; e interpreterò – proprio adesso – fra un minuto, il fondo della tazzina del caffè che fuma proprio qui, accanto a me….sento che è il momento giusto…e chi ha letto fin qui, può benissimo essere il passante. Glielo concedo volentieri.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Bellissimo, bellissimo, bellissimo pezzo! Pensa che riflettevo proprio in questi giorni su questi argomenti (in realtà mi è capitato anche nel passato di farlo), ossia su quanto possano essere veramente reali i nostri pensieri, e non solo cose montate dalla nostra mente, ossia “narrazioni”… Capitano a volte dei segnali, chiamiamoli così, che instillano una sorta di dubbio, che lasciano addosso la sensazione che la realtà potrebbe essere ben diversa da quella che pensiamo, che immaginiamo, che vediamo attorno a noi o che stiamo addirittura vivendo, ma poi ecco che si intromette quasi subito la ragione che, come al solito, riporta tutto perentoriamente all’ordine… E credo che questa sia un po’ la nostra condanna (quel “pensare troppo”, appunto, spiegato così bene dalla tua fantastica nonna sciamanica). Viviamo in un mistero e siamo noi stessi un mistero, alla fine, checché ne dica la scienza per cercare sempre spiegazioni logiche a qualsiasi nostro assillo filosofico.
Cara Alessandra, grazie per il tuo bel commento. “Viviamo in un mistero e siamo noi stessi un mistero” – è esattamente quanto volevo dire…si tratta di capire se la razionalità sia la chiave giusta per questa toppa che chiamiamo “realtà” – o se non sia necessario, piuttosto, lasciare uno spazio, sgombrare il campo dal buon senso (il passante della storiella) e dalle chiacchiere e, chissà, vedere le cose come stanno. Punto e basta. Un saluto.
Troppi pensieri affollano la mia mente dopo questo post, anche perché proprio in questi giorni tento di capire leggendo faticosamente ” L’illusione della realtà ” di Donald Hoffman. C’é da dire comunque che sei stato molto, ma molto, fortunato !
Ti ringrazio. E sì, ho avuto il privilegio di vivere il classico clima del profondo sud del nostro paese – un miscuglio di pratiche, superstizioni, umiltà e gelosa fierezza per una saggezza condensata in poche frasi e molti gesti, espressioni del viso.