Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Da mio padre ho ereditato la capacità di amministrare le poche sostanze guadagnate, di farle fruttare. Ho ereditato la precisione, la capacità di catalogare, progettare e mettere ordine, almeno in parte, lì dove scorgo lo scompiglio. Tale tendenza, tuttavia, tradisce a tratti una certa tendenza al controllo, all’intolleranza verso l’incertezza, il vizio della ripetizione dello stesso e una voluttuosa tendenza a perdermi nel dettaglio, nella parola a tratti vuota, pignola e fastidiosa, in un ossessivo incedere del discorso che incespica su se stesso. Da lui ho ereditato la folta chioma scura, la carnagione olivastra, ma anche le gambe sottili, gli stinchi lucidi e privi di peli che tanto dispiacere mi danno, a guardarli. I denti, sani e bianchissimi, e le orecchie lievemente staccate dalla testa mi danno un’aria da finto tonto che ho imparato a sfruttare fin da giovanissimo.
Da mia madre ho ereditato la tendenza al lamento, una certa mancanza di iniziativa e una perversa tendenza al sacrificio. Attraverso di lei, risalendo a mio nonno, sfoggio un bel naso adunco, segno di una personalità e presenza nel mondo che, in realtà, non mi riconosco, a dispetto dell’opinione altrui. Da lei ho preso la tendenza a usare un solo paio di scarpe alla volta, consumandolo all’interno a causa dei piedi piatti mai corretti. Con meno velocità, ma presto consumo anche i giacconi invernali, i colletti delle camicie, le unghie spezzate. Da lei ho preso anche il vizio di stare davanti alla televisione tenuta a basso volume, scorgendo solo distrattamente le news che scorrono in basso.
Di mio nonno ho la gentilezza nei modi, il silenzioso rispetto del turno di parola, un certo incespicare della parola stessa e la passione per lunghe passeggiate prive di meta o scopo. Non rinnego la riservatezza che gli era propria. E benché rasenti la timidezza, non inficia, come era stato per lui, la mia capacità di scambiare poche, cortesi parole con quelli con cui entro in relazione. Che sia il giornalaio, il cassiere, il barista, il fruttivendolo – una parola precisa, individualizzata, non deve mai mancare nell’incontro.
Conscio della natura contraddittoria dei miei averi, sostanze, talenti e tendenze, non nascondo di aver ereditato da mio padre una certa tendenza all’urlo. Combinato come è alla tendenza – di origine materna – a sopportare in silenzio, giungo spesso a momenti di tensione tali da portarmi a esplodere, liberando il padre in me. Nei momenti di lucidità sento, a dirla tutta, di esserne vero e proprio megafono – sento che dalla mia bocca e dalle mie labbra esplode la sua voce, piuttosto che la mia. Nei NO che tuono nel mondo, riecheggiano i suoi no, quelli violenti e senza appello esplosi contro il bambino che sono stato. Con gli occhi della mente posso scorgere le mie labbra serrarsi e gli occhi socchiudersi per esprimere la più profonda condanna, la delusione. Sono, al tempo stesso, padre e figlio, padrone e servo. Chiudo gli occhi e respiro profondamente, consapevole che lo scorrere del tempo e la stagnante distinzione fra il prima l’adesso e il poi è solo negli orologi e nei calendari attaccati con un chiodino al muro, dietro alla porta della cucina, mentre nell’animo, lì dove dimora la verità, tali distinzioni non esistono affatto. Non amo il padre, né il bambino che sono stato e che a tratti sono.
Non posso neppure nascondere di aver ereditato da mia madre una certa tendenza alla dipendenza e a improvvisi cedimenti al disordine. Da lei e da mio nonno ho preso il vizio per il fumo di cui, però, mi son liberato molti anni fa. I disordini, molteplici, sono sedati solo a tratti, per irrompere in determinati periodi. Una certa voracità, che mi disgusta e mi mette di fronte alla debolezza della mia volontà, la posso scorgere facilmente allo specchio, raggrumata com’è nel mio ventre cadente. La passione per il vino, eccessiva e difficile da estirpare, rovina molti dei miei risvegli e trasforma l’immagine mia allo specchio in imputato da sottoporre a giudizio. E ancora, una certa tendenza – che è anche di mio padre – alla superstizione, ai rituali, al tentativo di controllare i fenomeni e il futuro per mezzo di piccole azioni, di oggetti ben disposti o da buttare, restituire, tenere d’occhio per comprenderne le influenze. Tutto parla, per me. Il mondo è ricco, strabordante simboli, segnali, richiami, eco, presagi.
Quanto ho di più prezioso, però, viene a me direttamente dai miei nonni che, come per le cose più rare e i lasciti più incredibili, hanno tagliato fuori intere generazioni e altri pretendenti, scegliendo me, in un atto di pura fede o amore che dir si voglia. Grazie a loro, sono portatore di un ottimismo indistruttibile, così come di una dogmatica fede nel futuro – c’è un orticello, nell’animo mio, su cui nessuno e nessuna vicenda può metter mano o piede o bocca – lì vi è una sorgente inesauribile che cancella tutte le male sorti, i cattivi presagi, le ansie, le ossessioni, la puntigliosità, il dubbio – è un luogo della fede, di una fede che poggia sull’amore e la dedizione. Nato oltre la quarantesima settimana, tirato a forza fuori dal ventre di mia madre, entrambi a rischio di vita – ho potuto incontrarla solo per qualche minuto dopo tre o quattro giorni dalla mia nascita, senza che lei volesse prendermi in braccio per paura, a suo dire, di non potermi sostenere. Ho avuto modo di incontrarla, poi, solo dopo tre settimane, dato che, insieme a mio padre – non pervenuto – era stata spedita lontana da me per riprendersi dopo il parto quasi fatale, per lei. Quell’assenza, però, ha aperto la via al torrente in piena dei miei nonni, della loro rinnovata giovinezza – nella fede del nuovo venuto. Me. In una certa postura del mio corpo e in alcune espressioni del mio viso una certa idea di predestinazione – seminata e radicata nel profondo – deve certamente trasparire. Alcuni l’hanno vista, mentre io, allo specchio, vedo poco più di un uomo perplesso. Ammaccata nel tempo, dalle delusioni, dai molteplici fallimenti, tuttavia la porto in me e, ammetto, non me ne vergogno. Ho tentato, invano e scioccamente di reprimerlo, questo sentimento, mentre nel lasciarlo libero divento più umile e posato, quasi saggio, forse amabile. In due parole – dai miei nonni ho ereditato la convinzione di aver diritto di essere al mondo, di essere felice, degno di rispetto – tale dignità per cui non nutro dubbio, spontaneamente la riconosco a chiunque mi si pari davanti.
Colui che veramente sa ereditare, tuttavia, non può limitarsi al computo di quanto ha avuto in dote. Nel farne ricognizione, deve misurarne i confini, i limiti, portando l’immaginazione su quanto è stato negato. Bisogna fare i conti con quanto non ci è stato consegnato.
Fuori dei confini dei miei vasti domini mancano la serenità d’animo e la capacità d’essere in pace con me stesso. Manca una certa capacità e disponibilità al contatto, che sia fisico, spirituale o scopico – guardar negli occhi, accettare una carezza, dir quanto ci si porta dentro è questione complessa, e a tratti rasenta l’impossibile.
Ma bisogna soprattutto fare attenzione a quanto si crede di aver rifiutato. Poiché nell’atto dell’ereditare, colui che si trova a ricevere può anche esser tentato di mettere le mani avanti e rifiutare l’eredità stessa, dir di no. Fin da ragazzo mi sono ripromesso di rifiutare l’immagine paterna, di rifiutare la viva testimonianza dei suoi valori, ossia disvalori, di cui faceva sfoggio con un agire inconsapevole, a tratti tracotante. Ancora giovane, mi ero ripromesso di rifiutare il suo attaccamento per le cose materiali, il suo non-sentir-ragione e voler-sempre-aver-ragione e aver-ragione-di-ogni-oppositore. Mi ero ripromesso di mettere al bando la sua risata sprezzante, il suo credersi più intelligente e competente degli altri, il suo tentativo di ridurre la moglie a questione di godimento, ma non tutto è andato secondo i piani.
Mi accorgo che quanto credevo di aver rifiutato, in realtà l’ho sempre custodito senza saperlo. Chi vuole ben ereditare, deve prendersi la briga di mischiarsi con tutto quanto è stato accatastato, buttato di lato frettolosamente. Colui che saggiamente eredita si appresta a quanto giace impolverato, coperto di ragnatele, eppure pullulante, palpitante, pieno di vite e forze oscure. Lo dico perché, perlopiù nolente, mi trovo a dover perlustrare le cantine dell’anima – uso questa parola senza ritegno, né vergogna. Saggio è colui che sa ereditare, e sa ben ereditare solo colui che accetta di non aver voce in capitolo e che incrocia le gambe di fronte allo spettacolo multiforme della propria ombra proiettata su di una parete bianca. Ben eredita chi tiene lo sguardo sui fasci di luce e le immagini di cui è intessuto.
Ho ereditato un buco e vissuto una vita collezionando toppe. Sono diventato sufficientemente saggio da godere, a tratti, alla vista del buco, della lacerazione. Ho realizzato che ogni toppa è inservibile e tuttavia proprio adesso mi sto scervellando per sostituirla con un’altra, sapendo già che presto dovrò sostituirla con un’altra ancora. Se ho veramente compreso qualcosa, allora saggio è colui che sa ereditare e, nell’ereditare, fabbricare maschere sapendole tali.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Mica facile, questa tuo pezzo, caro Tommaso. Sembra una ricognizione genetica e invece è una riflessione etica. Dall’ eredità non si sfugge, anzi non si deve sfuggire. La si accetta, mettendo pezze e maschere “Questa è la mia nostalgia”, per citare l’ Ungaretti de “i mIei fiumi”, poesia che mi è venuta in mente leggendo il tuo post, come questa di Vincenzo Cardarelli
Genitori
Io devo al grembo che m’ha partorito
il temerario amore della vita
che m’ha tanto tradito.
Poi che nacqui da un sangue
ben fervido e gioviale.
Io nacqui da una donna che cantava
nel rimettere in ordine la casa
e, madre più trionfante che amorosa,
soleva in braccio portarmi con gloria.
Ora, ebbi un padre severo
come un santo orgoglioso.
E furon questi i due forti avversari
che m’hanno generato.
Un saluto.
Molto belli, i tuoi riferimenti. Esplicito (benché prevedibili) i miei: Goethe (“Ciò che avete ereditato dai vostri antenati, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere, Faust) e Marco Aurelio, che così apre i suoi Pensieri: “Da mio nonno Vero il carattere buono e non irascibile”…ma per chiudere: questi ultimi post sono piuttosto confusi e contradditori e forse “puzzano” di resa dei conti. Ma questa è l’attuale condizione dei personaggi che abitano il blog, dove tutto è terribilmente irreale.
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