Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
“Non è di questo” disse Betty Jo Berm “che abbiamo paura. Abbiamo un solo grande timore, ed è questo: che la nostra presenza qui non abbia alcuno scopo, e che non riusciamo più ad andarcene. Un frullatore può atterrare, ma non può ripartire. Senza un aiuto esterno non riusciremo più ad abbandonare il pianeta. Forse questa è una prigione; è un’idea che ci è venuta. Forse abbiamo fatto tutti qualcosa, oppure qualcuno pensa che abbiamo fatto qualcosa”. Lo scrutò attentamente coi suoi occhi grigi, calmi, “Lei ha fatto qualcosa signor Tallchief?” gli chiese.
Come esplicita Philip Dick in premessa al romanzo, nella e per la scrittura di Labirinto di morte è stata necessaria la creazione di una nuova teologia, ossia “sviluppare un sistema di pensiero religioso, astratto e logico, basato sull’arbitrario postulato che Dio esista” – tale sistema nasce da una combinazione di dottrine classiche occidentali, impreziosite con suggestioni dal I Ching. Il libro dei Cambiamenti – l’autore non è nuovo a tali suggestioni, prova ne è il celebre La svastica sul sole (ne ho scritto qualcosa qui). Non mancano diffusi riferimenti ai grandi sistemi filosofici del passato, basti pensare a Spinoza (per la critica al concetto di miracolo), o a Kant, con riferimenti alle forme pure di spazio e tempo, ma anche alla distinzione tra fenomeno e noumeno (per i non addetti ai lavori, semplificando al massimo: tra la realtà per come ci appare o a noi si manifesta e la realtà per come è in se stessa, indipendentemente dal nostro farne esperienza). Il tutto ben saldo su di una fondamentale convinzione dell’autore: la realtà è di per sé inconoscibile, ma sempre incontrata o esperita a partire da un particolare punto di vista, quello del soggetto del (supposto) sapere.
Nulla è cambiato, disse fra sé Seth Morley. Siamo quello che eravamo prima, un’accozzaglia di dodici persone. E questo potrebbe distruggerci. Mettere fine per sempre alle nostre vite incomunicabili.
Come sempre non starò qui a dire della trama. Non mi interessa. Qui non si recensisce, né si presenta nulla. Si passa il tempo con le parole, quindi ne dirò (della trama) lo stretto indispensabile: quattordici persone vengono catapultate sul pianeta Delmak-O per mezzo di “frullatori”, navicelle spaziali per una, massimo due persone più lo stretto necessario per vivere. Viaggio sola andata. Niente ritorno. Ma chi sono i personaggi che finiscono su questo fantomatico e sconosciuto pianeta? Un teologo, uno psicologo, un sociologo, uno scienziato, una donna divoratrice di uomini e così via – tutti sono accomunati da un medesimo gesto, dallo stesso fine: la fuga dal pianeta d’origine, dopo aver ottenuto un trasferimento; tutti in fuga da vecchie vite inutili e sterili; tutti alla ricerca di migliori condizioni nel nuovo pianeta. Tutti, al fondo, scossi da una medesima angoscia d’essersi macchiati d’una colpa, d’aver fatto qualcosa o, peggio, di non aver fatto qualcosa, di aver mancato l’appuntamento con il senso della vita, poiché è del senso, in fondo, che tutti i diversi (e alla fin fine identici) personaggi sono alla ricerca.
Dick ci offre una visione pessimistica dell’uomo e della sua natura – in un mondo ostile, messi di fronte alla morte e nel timore di morte violenta (con una implicita chiamata al modello hobbesiano) questo gruppo di individui chiusi, egoisti, impauriti, monadici, si mettono alla ricerca di un capo, di un uomo forte – ciò che li unisce è il semplice calcolo dell’utile, nessuna socievolezza originaria, ma solo una radicale insicurezza e paura che tengono uniti individui pronti alla prima occasione a soverchiare l’altro. Uno dopo l’altro, iniziano a morire – per mano di chi? Qui mi fermo.
…visto questo tremendo fatto che sconvolge le nostre vite, dobbiamo sceglie immediatamente un capo, un uomo forte che riesca a tenerci assieme come un gruppo, perché in realtà adesso non siamo affatto un gruppo, ma dovremmo esserlo, dobbiamo esserlo.
Quale è il loro problema? Non sanno veramente dove sono, non sanno perché sono lì, su Delmak-O. Il tempo dell’entusiasmo era durato solo il tempo del viaggio. Qualcuno, dall’alto (qui la carica religiosa dell’attesa della chiamata), dovrà dir loro cosa fare – quale sarà il loro compito. È sul senso della missione o della vita che si intrattengono i quattordici personaggi in cerca di significato? La realtà, il mondo stesso e la natura sono al tempo stesso vuote e terribilmente carichi, anzi, sovraccarichi – le cose vanno insieme: più intenso è il sentimento del vuoto, maggiore sarà lo spazio per i fantasmi della mente, per creature sconosciute, striscianti, invisibili, capaci di repentine trasformazioni – tutte simboleggiate da una fortezza irraggiungibile e cangiante che suggerisce e riporta alla memoria il castello di Kafka.
Ma se è vero che il labirinto è il luogo, il campo in cui è andato perduto e può essere trovato il senso, allora il sentimento di una vita votata all’inconsistenza illumina il vero significato da attribuire alla parola morte: la morte è innanzitutto scivolamento nell’ordine del senso, di un senso che sfugge dalle mani e per cui non vi è presa possibile.
Il suo tono era forte e robusto, molto sincero. “Viviamo in un mondo creato e modellato sui risultati del lavoro di milioni di uomini, quasi tutti morti, e praticamente nessuno di loro ha avuto la fama o i riconoscimenti che meritava. Non me ne importa se sarò ricordato per ciò che ho fatto; quello che m’importa è inventare qualcosa di prezioso, di utile, che la gente possa considerare un elemento indispensabile alla vita di ogni giorno…”
L’immaginazione di Dick è troppo prorompente per star qui a tentare di renderne conto. Si tratta di leggere Labirinto di morte, punto. Però, sotto il velo di viaggi interplanetari, sofisticate tecnologie, divinità create a tavolino, si annidano gli eterni problemi dell’essere umano: vite fallimentari su di un pianeta che sempre più pare estraneo, ostile, consegnato o perduto in uno spazio infinito; la volontà di fuga e l’illusione di poter darsi una vita nuova; una volontà di agguantare la verità, di trovare la chiave per una autentica consapevolezza nella speranza che si possa metter fine al dolore. Dick, che aveva studiato filosofia, fra le altre cose, cita Spinoza. Lo riprendo, nel tentativo di smussare o, meglio, ricollocare questo sentimento del non-senso entro un orizzonte più ampio. Il grande filosofo del panteismo e della coincidenza fra Dio e Natura, nella sua disincantata – aggiungerei sontuosa – visione della realtà, ammoniva con fare sereno, nel suo Trattato politico:
Avendo applicato l’animo mio alla politica, non ho inteso narrare alcunché di nuovo e di mirabile, ma soltanto di dimostrare con un ragionamento preciso e sicuro e di dedurre dalla stessa condizione della natura umana quello che meglio si conviene alla pratica: e per trattare di questa scienza con la stessa libertà d’animo, con cui ci accostiamo alle ricerche matematiche, mi occupai con diligenza di non deridere, di non piangere, di non condannare, ma solo di comprendere (non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere) le azioni umane: e così considerai le passioni umane come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, l’orgoglio, la pietà e le altre commozioni dell’animo, non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono, come alla natura dell’aria il freddo, il caldo, il temporale, il tuono e simili; che sebbene molesti, sono tuttavia cose necessarie ed hanno cause determinate per cui cerchiamo di comprenderne la natura; e la mente gode della loro contemplazione vera allo stesso modo che della conoscenza dì quelle cose che sono grate ai sensi
Chissà che non possa essere una traccia da seguire per uscire dal labirinto che sa di morte e “passioni tristi” (per citare l’espressione di Miguel Benasayag, che proprio Spinoza richiama). Alle volte potrebbe essere sufficiente essere più indulgenti, provare un poco di compassione per questo essere sofferente che in fondo siamo. Essere spaesato, apparentemente privo di un posto tutto suo, d’una chiara posizione nel cosmo e nella natura. Forse una delle più grandi illusioni dell’essere umano è quella di considerarsi un essere estraneo a quella stessa Natura di cui è, al contrario, prodotto ed espressione:
La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero (Spinoza, Etica, Parte terza – Prefazione).
Ecco che l’idea di uno sguardo più mite e moderato, ossia attento e scrupoloso, può forse scongiurare questo senso di separazione e scissione da se stessi e dal tutto di cui siamo parte. Potrebbe essere la via per recuperare quel nutrimento inevitabilmente negato a colui che, schiavo di una confusa e spesso inconscia superbia, si sente “impero nell’impero“. La mente (quella astratta ed esangue), procede di separazione in separazione verso la formazione del singolo monadico o atomisticamente inteso, spinge ad una perenne lotta per il potere e la sopravvivenza, illudendosi che qualcosa possa esser veramente guadagnato, mentre, in realtà, è destinata a produrre individui soli, infreddoliti, abbandonati che vivono, pensano, agiscono e pensano a partire dal timore della morte e dell’annientamento. Staccato come è da una natura rispetto alla quale non sa riconoscere la propria dipendenza, come potrà trovare un senso? Forse affidandosi alla fede (e infatti Dick ha bisogno di dotarsi di una vera e propria teologia: “Avevano tutti bisogno di essere rassicurati […]. La fede era una semplice necessità, tanto nelle questioni secolari che nelle questioni teologiche. Senza fede era impossibile vivere”)? Altrimenti, privi di ancoraggio, si è consegnati al nulla, al non-senso e, in ultima analisi, alla morte. Ma il Saggio, ricorda ancora Spinoza, non si perde nel labirinto della morte, poiché la accetta (la morte) come contro-parte necessaria della vita: il saggio non agisce a partire dal timore della morte – avendone accettata la realtà – si concepisce come parte del Tutto e non come reietto o caduto nel mondo. Il senso della sua esistenza poggia, riposa nella Natura. Anzi, il saggio non ha la pretesa di essere speciale, del tutto superiore o altro rispetto a quanto lo circonda – è consapevole di essere espressione di questo Tutto che è la Natura – nel suo essere limitato, finito, imperfetto, l’essere umano è pur sempre espressione o manifestazione di questo tutto. Non ha bisogno di andare a cercare il senso chissà dove nello spazio. Il senso è qui.
L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte: e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte (Spinoza, Etica – Parte quarta, proposizione LXVII).
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)