Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Questa mattina sono stato al mare. C’erano le solite cose che tutti conoscono. Le onde, la brezza, gli ombrelloni, i chioschi, i bambini che giocano, le persone che chiacchierano, passeggiano, corrono, nuotano. Sono cose che tutti sanno. Tutti tranne me, che un tempo sapevo, prima di aver dimenticato.
Come ho fatto a dimenticare tutto questo? Per colpa di una idea. Chi, al giorno d’oggi, non ne ha una? Ne esistono una infinità, di idee. Alcuni le chiamano obiettivi, altri scopi, fini o, addirittura, passioni. Non importa quale sia il contenuto specifico, o individuale, della mia idea, l’unica cosa che conta è che, a differenza di quanto solitamente accade, a me ha messo i bastoni fra le ruote e, nel tempo, ha rattrappito il mio spirito e la mia ragione, piuttosto che dar loro slancio. Se solo l’avessi presa, vista e reputata fin dal principio per quello che era, beh, le cose sarebbero andate diversamente.
A dire il vero, tanto tempo fa era fiorita dal sottobosco di sensazioni e intuizioni per quello che era e nulla più. E ricordo anche che per mesi ed anni, questa idea l’ho curata, custodita – ma senza accanimento, con gentilezza, senza farle terra bruciata intorno, senza sacrificarle tutto, o quasi. Quello che non ricordo, però, è il momento in cui è cresciuta ai danni di tutto il resto, prendendo per sé tutti i nutrienti, facendo appassire quanto fino a quel momento le era cresciuto intorno. Tirannica e mostruosa. In fondo stupida. Non ricordo il momento in cui quell’idea ha smesso di essere un semplice proposito, per diventare un imperativo, una vera e propria fissazione.
Se avessi fatto veramente attenzione, ne sono certo, non si sarebbe caricata di tutto il ridicolo pathos che l’ha poi caratterizzata. Le cose, ne sono certo, sarebbero andate in ben altro modo. Ma insomma, nulla è perduto. Ho letto, da qualche parte, che in certi casi bisogna ringraziare, se quello che è andato perduto è parte del tempo e non la vita in quanto tale. Certo, so bene che il tempo è tutto quello che abbiamo e che ogni istante perso è perduto per sempre, perché mica lo si recupera o lo si può prendere in prestito o comprare. Eppure, di tempo ce n’è ancora, per fortuna.
Questa mattina, mentre ero seduto sul lettino, sotto l’ombrellone, senza togliermi la maglietta, comodo nel mio vecchio costume blu, tre paia di occhi mi scrutavano. Prendevano le misure. Non capivano perché li avessi fatti svegliare presto, caricati in macchina e portati in spiaggia. Ossia, non capivano come potesse essere possibile che l’avessi fatto proprio io. Per natura siamo soliti abituarci anche a quello che non ci piace, tanto più se si ha a che fare con le persone che amiamo. E le persone che amiamo, se cambiano, o se danno l’impressione di cambiare in meglio, beh, mettono in ogni caso a disagio e disorientano. Le tre paia di occhi piene di stupore e del timore che quella mia iniziativa fosse solo un attimo, un lampo di vita prima di essere inesorabilmente risucchiato e annichilito nel vortice della mia idea; beh, le tre paia di occhi, con le rispettive fronti e bocche e tutto il complesso dei lineamenti del volto, beh, erano in attesa di un qualche evento e, questo era certo, non si stavano godendo la spiaggia semi-deserta, il mare calmo e gelido, la sabbia pulita e finissima. Credo di aver parlato, di aver detto, beh, andate, siete liberi, c’è una giornata davanti a voi, a noi, a me. Ho detto qualcosa del genere, anche se non ricordo le parole.
Ho fatto delle ricerche, a causa della mia idea, ho studiato ed elaborato grafici e tabelle nell’ingenuo tentativo di misurare quanto non è, di fatto misurabile, e di istituire connessioni, paragoni, lì dove non esiste unità di misura. Per mesi e anni, a causa di quell’idea, nel mio sprofondare in essa dimenticando progressivamente la sua natura di idea, mi sono trovato immancabilmente a schiantarmi contro ostacoli sempre più opprimenti. Ogni volta ne uscivo con le ossa rotte. Ne avevo fatta una questione di vita e di morte. Con la e. Di vita e di morte. Orami, senza saperlo, ero disposto a rovinarle entrambe. La vita in quanto vita e la morte per quello che è morte. Perché una cattiva vita porta sempre a cattiva morte.
Questa idea-gabbia non mi ha portato nulla di buono. Ho lasciato andar via molte giornate di sole e spesso, la sera, mi sono rifugiato sotto le coperte nella certezza di aver perso l’ennesima giornata, condannandomi ad iniziarne una nuova più sfinito e desolato di prima. Avevo dimenticato tutto quanto vi è di semplice e normale. La mia mente distratta, gli occhi rivoltati verso una vuota interiorità, la mente avvinta da una idea vuota – sono stato a lungo perso in un’assenza senza limiti, disorientato fra trame di pensieri privi di vita, mentre la vita vera, fuori, andava avanti senza di me.
Ho impiegato molto tempo a riconoscere la mia situazione per quello che era. Non è avvenuto in un momento preciso. Le conversioni non esistono, neppure le illuminazioni. Non per me, ad ogni modo. Ho conosciuto movimenti lenti e incerti, qualche attimo di lucidità, per poi ritirarmi – senza rendermene conto – nella gabbia cui tanto ero abituato. Realizzavo di esser stato nella gabbia dell’idea, quando, a tratti, ne uscivo fuori. Ho dovuto imparare come e per quale motivo iniziavo a ritrovarmene fuori, a tratti. Ho iniziato a prendere nota. Nulla di speciale. Era sufficiente, a tratti, non far proprio nulla. Trattenere il corpo, la lingua, le mani. Chiudere gli occhi. Sì, chiudere gli occhi, in alcune occasioni, è stato fondamentale. Mi ha aiutato un quadernino blu, vecchio una vita, abbandonato dopo che la mia mano adolescente vi aveva tracciato, fallendo il proposito, due pagine di un breve diario giovanile. Ci sono volute settimane e mesi. E ancora non sono certo della cosa. Non è un risultato, il mio – ma la certezza che una via d’uscita esiste. Se questa via esiste, allora può essere percorsa.
Questa mattina sono stato al mare e adesso, che è sera, ho le braccia bruciate dal sole. I capelli delle persone che mi amano sanno di mare, così come i teli stesi nella terrazza. Mi sono svegliato prestissimo, questa mattina, e ho preparato tutto. Nel muovermi per la casa silenziosa, una leggerezza tutta nuova si era impossessata di me. Era nell’aria, la mia intenzione che si tramutava in azione. Il mare lo avevo visto un paio di giorni fa, come in un sogno.
Questa mattina, seduto sul telo con le gambe incrociate, fingevo di ascoltare chi mi stava parlando. Assorto in quella gentile finzione, seguivo la linea dell’orizzonte che divide il cielo dal mare. Da un estremo all’altro del mondo che a me si manifestava, seguivo il la linea sottile dell’orizzonte, l’arco perfetto che separa la terra dal cielo, il basso dall’alto, l’umano dal divino, ciò che è soggetto al tempo da quanto ne è al di là. Era una vera delizia ed era reale. O no? Lo era.
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne