Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Ian Testa ha appena salutato un vecchio amico. Lo spia, con la scusa di sistemare le buste della spesa nel portabagagli. Davide si allontana veloce, incerto sulle gambe corte, malamente appeso alle spalle cadenti, mentre insegue la figlia che corre verso una macchina grigio metallizzata nuova di zecca. Erano anni che non si vedevano, ma Davide era più o meno simile al ragazzo impacciato dei tempi del liceo. Il volto rossastro sempre lievemente gonfio, non grasso, lucido e sorridente del sorriso di chi accetta le cose come stanno. Da un po’ di tempo era ritornato a vivere dai genitori e, nel dirlo, aveva accarezzato i capelli della figlia, pure lei con i capelli rossi, lisci e lunghi. La bambina aveva tenuto lo sguardo a terra, concentrata con la punta delle scarpe da ginnastica su di una gomma da masticare che cercava di scollare dalla pavimentazione segnata dai copertoni delle automobili. Ian aveva fatto di sì con la testa, senza parlare. In tanti, buttati fuori di casa, finivano dai genitori. Davide non era il primo, né sarebbe stato l’ultimo. Non è che si fossero detti granché. Avevano entrambi dichiarato una fretta, un dover far cose che, forse, non corrispondeva pienamente alla realtà. Non per Ian, almeno. Si erano ripromessi di vedersi, con più calma. Per parlare. Di cosa? Si erano però allontanati senza capire come avrebbero potuto mettersi d’accordo, contattarsi, dare carne alle vuote parole che si erano scambiati. Ci avrebbe pensato il caso. Ci avrebbero pensato la forza attrattiva dell’ipermercato, il grande parcheggio sotterraneo al centro commerciale in decadenza, con gallerie semivuote e serrande abbassate su negozi falliti dopo mesi di inattività.
Ian si chiude in macchina e infila le chiavi nel cruscotto senza mettere in moto. Un libro è buttato sul sedile del passeggero. Le luci di posizione della macchina di Davide si accendono. Dopo qualche secondo la station wagon grigio metallizzata esce dal parcheggio e, lenta, gli sfila davanti. Davide sta fingendo di fare qualcosa con la figlia legata al seggiolone, Ian si piega in avanti per prendere, o cercare, qualcosa che in realtà non c’è. Quando si tira su dritto, la macchina di Davide è appena sparita dietro una fila di macchine addormentate. Non è ancora tempo di mettere in moto, per Ian.
Erano anni che non pensava a Davide. Non c’era motivo per farlo, in effetti. Però. Per anni, da ragazzi, si erano visti praticamente ogni giorno, che fosse pomeriggio o sera. C’era stata una lite a separarli? No, non nessuna lite, semplicemente le giornate li avevano allontanati. Semplicemente, ad un certo punto, non avevano avuto più nulla dirsi o voluto spendere insieme il loro tempo. Cose che accadono. Eppure incontrarlo ha turbato Ian in un modo che sembra non avere alcuna ragion d’essere.
Al liceo si trovavano spesso a studiare insieme, il pomeriggio. Sempre a casa di lui, che viveva in una bellissima villetta per cui il padre, rappresentante di calze o qualcosa del genere, aveva fatto il pazzo, pur di farsi concedere un mutuo – ma quelli erano anni in cui più o meno tutti spendevano e si indebitavano. Davide aveva una splendida sala hobby, stranamente priva di muffe, cattivi odori e ben soleggiata, al cui centro troneggiava un tavolo da ping-pong che gli permetteva di ricevere un numero di visite altrimenti impensabile per uno come lui.
Un grande tavolo di legno scuro era sistemato in un angolo, recintato da una panca con soffici cuscini, dall’altro lato del grande spazio il camino sempre acceso, in inverno. Prima di sedersi, Davide sistemava sul tavolo le sigarette, il portacenere, le penne, il temperino e quando tutto sembrava finalmente pronto per poter aprire i libri, si ricordava che ci voleva qualcosa da bere, un latte e menta, in estate, o una bevanda calda, in inverno – andava pazzo per il tè al limone, in cui scioglieva così tanto zucchero da renderlo nauseante.
Davide era pronto a fare di tutto pur di non far nulla. Preparava l’ambiente in modo maniacale, ritoccandolo, dettaglio dopo dettaglio, per creare le migliori condizioni possibili per non fare quanto non si decideva a fare. Sorrideva di lui, Ian, e dentro di sé lo prendeva in giro. Allo stesso modo perdeva con lui a scacchi e rimaneva, poi, indietro con gli esami all’università e non riusciva a trovarsi una donna. Inciampo dopo inciampo, rimanendo indietro si perdeva nella nebbia del mondo, fino a staccarsi da lui una volta e per tutte.
Senza pensarci; Ian si ritrova con il libro aperto poggiato sul volante – Sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Sembra tuttavia che qualcosa sia accaduto, nella vita di Davide. Che in qualche modo abbia vissuto. Ad Ian questo sentimento manca. Non è ancora certo di aver vissuto, dopo quasi nove lustri di vita. Quanto tempo aveva passato a prepararsi per la vita, piuttosto che viverla? Che significa vivere? Non è chiaro. Perché di chiaro, spesso, ha avuto solo il sentimento di un agire che faceva acqua da tutte le parti, di un malessere che è un esser-male, un vivere che aveva le sembianze di quei terribili sogni in cui si tenta di correre ma le gambe sono piantate a terra, quei sogni in cui si sente, con angoscia, che da qualche parte c’è un intoppo, che l’energia s’è ingolfata e non si riesce a farla fluire…
Mette in moto la macchina. Cosa c’è di peggio di una vita passata in continui preparativi e che non si sa vivere? Una vita passata a creare le condizioni per una felicità che non c’è e per cui, in fondo, non si è fatto e tentato e rischiato nulla?
Lento avanza fra le file di macchine addormentate, puntando verso la rampa che piega sulla destra e verso l’alto in una ripida salita che dalla caverna lo porta al mondo.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Leggo sempre volentieri le storie, i momenti di vita, di Ian Testa. Attendo che il tutto si coaguli. 😉
Che dici?
Con Ian credo di non essere proprio capace o, ancora, che Ian non si presti. È per natura erratico, fatto di brevi risvegli e torpori. Piccole cose di ogni giorno che lui si ostina ad ingigantire. A presto
Non ne sarei così sicura. La sua mi pare molto coerente; forse, ma non lo so, evolutiva, non frazionata
Ma certo avrà i propri tempi; o almeno cercherò di prenderseli. Fanno sempre così.
“Fanno sempre così”. Divertente, nonché vero.