Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Le storie di Natale sono sempre storie di fantasmi e spiriti e spettri. Devono esserlo, è nella natura delle cose che a Natale debba accadere qualcosa di insolito e se non accade vuol dire che c’è qualcosa che non va. Per questo motivo non mi piace chi vuole storpiare questa parola. Va di moda, ultimamente, dire “solstizio d’inverno” o cose del genere. Mi pare una grande ingenuità, questa, come se si potesse padroneggiare qualcosa di incredibilmente più grande di noi cambiando due paroline; come se i fumi di quanto bolle in pentola possano essere assorbiti da uno pseudo-sapere tutto raziocinante. Come se si potesse controllare qualcosa di più grande di noi e di cui siano parte, cui siamo soggetti. Nessuno è padrone dei simboli, ricorrenze che fanno parte dei rituali collettivi. Anzi, direi che quelli che fanno così e che non chiamano le cose col loro nome – con il nome che adesso, di fatto, hanno tali cose – più degli altri ne sono schiavi, soggetti o assoggettati – è proprio per queste persone che il Natale è infestato di spettri e nasconde qualcosa di inquietante.
Non siamo noi a parlare del Natale, è il Natale a parlare di noi. E non è questione che ha a che fare con la religione. Va molto oltre, sconfina nel campo del simbolico. A questa parola, Natale, si agganciano un gran numero di significati, raccoglie gli opposti, è luogo di conversione o perdizione. Nessuno affronta questo periodo con indifferenza. C’è amore o repulsione e, in entrambi i casi, questa reazione dice qualcosa di noi, delle nostre parti più primitive, arcaiche, infantili o della ricchezza che dentro si porta. Non si può fingere, a Natale. Al contrario, salta il tappo e per mezzo del simbolo qualcosa che covava finalmente monta ed esce fuori da quel bricco che in fondo siamo…
Ne avevo pronta una, di storia di fantasmi – natalizi, ovviamente. Era in linea con molte di quelle che ho pubblicato fino a oggi, come per Dickens (qui) o Jerome (qui), poiché tradizione è tradizione, ma questa volta presenterò una storia diversa. Ho cambiato idea a partire dall’atmosfera in cui ci troviamo a vivere, dalle limitazioni nei movimenti, dalle tavole che probabilmente saranno meno imbandite e rumorose e affollate rispetto agli scorsi anni.
Nulla di meglio, credo, di questo breve racconto di Alphonse Daudet, intitolato Tre messe basse.
“Due tacchini tartufati, Garrogou?”
“Si, reverendo, due tacchini magnifici, ripieni di tartufi. Lo so bene io, ho dato una mano a riempirli…”
“Oddio, mi sembra di vedere. Hai messo il vino nelle ampolle?”
“Si, reverendo, ho messo il vino nelle ampolle. Ma diamine, non vale niente a confronto di quello che berrete tra poco, dopo la messa di mezzanotte…Mai visto un cenone del genere. Il signor marchese ha invitato tutti i nobili del vicinato. Sarete minimo quaranta a tavola, senza contare il balivo e il notaio. Reverendo, fortunato voi che potrete partecipare”.
Siamo stati catapultati nella notte di Natale del “milleseicento e qualcosa” e don Balaguére, cappellano alle dipendenze dei signori di Trinquelage, si prepara alla messa, anche se non riesce a pensare a nulla di meglio che alla cena imbandita che inizierà dopo la mezzanotte. Nella sua mente, al posto di una pia e sincera devozione, si agitano una scorribanda di tacchini arrosto, carpe dorate, trote, vini pregiati e spezie. Ah, peccato di gola pensare a simili cose in una serata del genere, quella santa, quella della Natività. Don Balaguére silenzia Garrigou, il suo giovane sacrestano. Deve assolutamente smetterla, il ragazzo, di parlargli del cenone e descrivergli i febbrili preparativi.
Fuori è già notte e tira un gran vento. Il suono delle campane si distende nella distanza richiamando i mezzadri che dalle campagne circostanti si recano per gruppi famigliari verso il castello per partecipare alla Santa messa. Illuminano il cammino con il fuoco delle fiaccole, si stringono per difendersi dal freddo. Intonano canti. Tutti, dal signore del castello al più povero dei mezzadri, hanno però in mente un solo pensiero.
Faremo un gran cenone dopo la messa!
Nella cappella le mura sono fasciate di arazzi, le candele accese, lo splendido il soffitto di assi di legno lascia tutti a bocca aperta. I nobili del luogo sono splendidamente vestiti e occupano i primi banchi, mentre al fondo del grande spazio, umili, stanno accalcati servi e cuochi, domestiche e sguatteri che vogliono togliere qualche macchiolina alla loro anima.
La messa finalmente ha inizio, ma il reverendo è distratto. Non riesce a concentrarsi sulla funzione. La sua mente corre di continuo alla tavola imbandita, al cibo che l’aspetta. Perché? È la campanella che fa tintinnare il suo sagrestano, Garrigou. Ogni trillo della campana pare incitarlo a sbrigarsi, a mettere fine alla messa il prima possibile. Non vede croce, non vede lumi, non vede fedeli, il nostro don, ma tacchini e faraone e fagiani, frutti e pesci d’ogni tipo. Fa qualche errore, è vero, ma la funzione fila liscia fino alla fine. Questa, però, è la sera di Natale e al castello non una, ma ben tre messe debbono essere recitate, una dopo l’altra.
Ma come inizia la seconda, il demone della gola s’è impossessato di Balaguère, che ormai divora formule e gesti. Il segno della croce a mala pena viene accennato perché non c’è tempo da perdere con cose note. I fedeli faticano a seguire la funzione, le cui formule giungono loro incomprensibili. Se la seconda messa è presto celebrata, la terza viene portata avanti in modo forsennato. Omette ormai versi e Pater noster e gli astanti sono ormai in gran confusione. Alcuni si alzano mentre altri si inginocchiano. Alcuni siedono mentre altri si alzano in piedi. La terza messa, in fondo, non viene celebrata.
Ma in fondo anche quella brava gente sta pensando al cenone, nessuno si arrabbia per il ritmo indiavolato. E quando un don Balaguère raggiante si gira verso l’assemblea gridando a pieni polmoni “Ite, missa est”; solo una voce nella cappella gli risponde “Deo gratias”, ma con un tono così festoso, così entusiasta, che sembra di essere già a tavola, al primo brindisi del cenone.
E infatti è tempo di sedersi a tavola. Una tavola affollata, piena di canti, urla, risa e il don mangia e beve così tanto che quella stessa notte morì per un colpo apoplettico. Pace all’anima sua.
A questo punto mi trovo costretto ad ammettere una bugia. Anche questa è in realtà una storia di fantasmi e spiriti. Il povero don era stato indotto in tentazione dal diavolo in persona, che s’era impossessato del giovane Garrigou, rendendolo suo strumento per far capitolare il don, schiavo del peccato di Gola. E dovete sapere che l’anima di Balaguère, una volta al cospetto del Signore, si trovò messa alle strette per quel che aveva fatto: una sera di follia aveva oscurato una onorata vita piena di virtù.
“Mi hai fregato una messa bassa!” gli dice il Signore “Bene, me ne pagherai trecento al suo posto, ed entrerai in paradiso solo quando le avrai celebrate tutte di fronte alle persone che hanno peccato con te, per colpa tua”.
C’è una leggenda. E questa leggenda dice che tutte le notti di Natale, lì dove ancora si intravede il vecchio castello abbandonato dei Trinquelage, appare una cappella fantasma attraversata da una strana luce che non pare proprio di questo mondo, fatta di invisibili ceri. Un vignaiolo del luogo si dice abbia visto ombre di nobili e contadini che, con aria sciupata e terribilmente smorti – e certo, erano spiriti! – si recavano alla funzione. Si narra che sull’altare di quella cappella fantasma l’anima del reverendo, anno dopo anno e al cospetto delle anime dei presenti la notte di Natale del “milleseicento e qualcosa“, reciti ancora la terza messa bassa rubata al Signore. Ah, e tutto per pura ingordigia!
Si rida pure scuotendo il capo, nel sentire questa storia! Certo, come tutte le storie edificanti fa sorridere l’uomo contemporaneo. Ma si faccia attenzione, quest’anno su tutti, a non pensar troppo (ipnotizzati dal nuovo tentatore) alle grandi tavolate…ai canti, ai cori…qualcuno potrebbe chiederne conto, e mi riferisco al demone che sta in noi (se ha ancora voce in capitolo) e che fa i calcoli, aggiungendo e detraendo prima di presentare il conto o sentenza. Detto ciò, come ogni anno, un felice Natale…messa o non messa, religione o meno…con o senza fede…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Sì, Buon Natale con fantasmi o senza, e se fantasmi ci devono essere, a ciascuno i suoi più adatti e cari 🙂
Esatto. A ognuno i fantasmi che si merita o che ha faticosamente guadagnato.
Natale, Solstizio…a oguno il suo…fantasma, amico augure di rinascita.
Speriamo;)