Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Me lo ero ripromesso, dopo la lettura di On Writing (qui), che sarei tornato sugli scritti di Stephen King. Essendo ogni promessa, soprattutto quella fatta a se stessi, un debito, eccomi qui a saldarlo. Quella che propongo non è ovviamente una recensione, anche perché qui non se ne scrivono affatto. Sono cose per addetti ai lavori, cose complicate, mentre io mi limito a giocare con le cose che hanno catturato la mia attenzione. Ecco, mi sono detto, dopo aver letto Carrie durante un week-end che in realtà avrei dovuto passare smaltendo del lavoro arretrato; “Ecco” – mi sono detto “e che ci faccio adesso con questa storia?“. Potevo tenermela per me e invece no.
Inutile stare qui a ripercorrere i fatti, dato che tutti o per mezzo della carta o del grande schermo, sanno della storia di Carrie White, adolescente bullizzata dotata di incredibili poteri in parte sopiti che a un certo punto, dopo un barlume di speranza nato dalla partecipazione al ballo studentesco, cade nel baratro della disperazione e viene presa da una furia portentosa che trasforma la bella cittadina di Chamberlain in un vero e proprio inferno…
Allo stesso modo credo sia inutile riproporre le ormai note e acquisite letture che mettono l’accento sulle distorsioni della società americana (cose vere), sull’intrinseca aggressività della natura umana (condivisibile), sulla provincia in cui il sogno americano si tramuta in incubo (vero, senza dubbio). E voglio pure tralasciare ogni considerazione a proposito del sapiente lavoro di montaggio dell’autore. Sapienza che dice molto della totale mancanza di consapevolezza di molti scrittori (lo sono?) rispetto all’idea che un romanzo non sia prima di tutto una storia, bensì una struttura (o mondo) in cui anche una storia come questa finisce per diventare credibile, durante la lettura. Il giovane Stephen King, e lui lo sapeva, con questa storia aveva fatto centro. E non solo perché finalmente aveva un vero contratto di edizione, e quindi soldi, e non solo perché iniziava a vendere, e quindi faceva soldi, e non solo perché vendeva e otteneva il successo, e quindi faceva ancora più soldi. Perché dico soldi? Perché il King del 1974 ne aveva un disperato bisogno e temeva di non farcela, temeva di dover rinunciare al suo sogno. Ma insomma, aveva fatto centro perché aveva compreso cosa significasse (scrivendolo) scrivere un romanzo, dar vita ad un sistema-mondo, fondando leggi valide entro quel preciso contesto. Della genesi dell’idea lo stesso autore ci dice qualcosa.
Mi immaginai la scena d’apertura d’un racconto: ragazze sotto la doccia in uno spogliatoio senza tende…a una di loro viene il ciclo…. solo che è la prima volta, non sa che cosa sia, e le compagne cominciano a bersagliarla di assorbenti…Qualche anno addietro avevo letto un articolo su Life, secondo il quale almeno alcune manifestazioni attribuite ai poltergeist erano in realtà fenomeni di telecinesi…certe prove confermavano che tali poteri erano più marcati nei giovani, soprattutto belle adolescenti, in coincidenza del loro primo…[ciclo mestruale]. Bang!
Sono tutte cose note, perché tornarci sopra una volta di più? Ecco, l’idea che mi ha interessato era di capire quale sistema di leggi naturali vigesse in quegli anni nella cittadina di Chamberlain (Maine). Beh, suppongo che fossero le stesse leggi vigenti in ogni luogo e in ogni tempo. Mi riferisco alle leggi naturali, quelle della fisica (anche se in modo dozzinale). Se lascio la presa il bicchiere che ho in mano proprio in questo momento, mentre scrivo, beh, questo cadrà a terra. E, di certo, non mi aspetto che la lampada che illumina il piano della scrivania inizierà a levitare. Insomma, sono immerso in un sistema di leggi e, pertanto, in una rete di fenomeni comprensibili, spiegabili, anzi: prevedibili. Sono certo che queste leggi vigevano anche nella cittadina che l’autore ha pensato per Carrie White, che valessero per lei, così come per tutto quello che le stava intorno, a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta.
La nostra visione del mondo implica l’idea (alle volte ingenua) che la realtà sia un enorme meccanismo del tutto prevedibile e i cui fenomeni e le necessarie conseguenze non possano essere evitati. Insomma, se adesso lasciassi la presa sul bicchiere (sempre lui), sono certo che andrebbe a terra, che seguirà delle leggi necessarie, inderogabili, assolutamente universali. E al contrario? Beh, se fluttuasse andrei a battere la testa contro un evento fuori dal normale. Un tempo (e a dire il vero anche oggi benché con minore convinzione) un fenomeno che derogasse alle massicce leggi della natura, sarebbe stato definito come miracolo, poiché si riteneva che le ferree leggi di natura potessero essere piegate solo dall’onnipotenza divina (che ne era anche l’origine e il fondamento). Tutto intorno a tale credenza, nasceva (nel corso del tempo) una complessa rete di arti e pratiche. La magia e la stregoneria, che oggi vanno tanto di moda in letteratura, col passare dei secoli si sono evolute e hanno assunto molte forme, fino a dar vita a delle vere e proprie teorie, benché pseudo-scientifiche. Penso al “magnetismo animale”, il famoso “mesmerismo” e stramberie varie. Ma insomma, nel profondo, lì dove l’essere umano desidera o crede di riuscire a forzare le leggi della natura, allora si invoca la stregoneria, e la magia, sempre che non lo sia già, subisce il fascino di farsi nera, di cercare l’alleanza col maligno, col diavolo in senso proprio. Ed eccomi arrivato a Carrie White, i cui poteri credo possano essere colti e compresi all’interno di questa visione dicotomica, secondo cui le sue doti la renderebbero, mi si permetta l’espressione, non “pulzella di Dio” (non a caso, per sostenere quanto dico, la giovane e casta Giovanna alla fine finisce al rogo – tentata dal demonio), bensì “puttana del diavolo”.
Dolorante prodotto di una madre in preda al fanatismo religioso, Carrie vive la realtà e con questa se stessa e il proprio corpo come sede del male, scivolamento verso il peccato e la perdizione. Carrie è ottusa, impacciata e isolata tanto dal mondo esterno, quanto dalla propria realtà corporea. Carrie è letteralmente scissa. Non pazza, non folle (non lo è ancora, mentre la madre già lo è), ma separata e relegata in un mondo altro. Carrie non ha mai avuto modo di entrare in relazione col proprio corpo, né con il complesso di emozioni che lo animano, a parte le umiliazioni che approfondiscono tale separazione. Carrie non ha avuto modo di spiritualizzare il proprio corpo e tantomeno il mondo. Per spiritualizzare non intendo render santo o casto (Carrie non dispone del proprio corpo, dunque non può neppure santificarlo), ma “saperlo”, conoscerlo, renderlo chiaro a se stesso. Carrie è opaca a se stessa. Se scagliassi questo bicchiere (ibidem) contro il muro, mandandolo in frantumi, il bicchiere, pur perdendo la propria integrità, perdendo se stesso e la propria unità, non proverebbe dolore: non può subire una ferita. È opaco a se stesso. Non sa nulla della propria storia. Carrie è esattamente così. Non sa. In quanto giovane donna (e non vetro), intuisce, pre-sente (dunque non sente veramente) che qualcosa non funziona e che qualcosa si agita, ma nulla più di questo.
Carrie è un impulso cieco, a lungo domato e misconosciuto. Carrie non è dotata di poteri sovraumani e la sua presenza non è miracolosa. Carrie non rappresenta la sospensione delle leggi naturali, bensì la natura stessa nella piena manifestazione della sua energia. Energia lo intenderei nel senso più proprio del termine, come “enérgeia”, come forza in azione nel suo essere irrefrenabile e presente/operante in tutte le cose che sono.
Rompendo con l’umano, che noi incontriamo sempre in quanto civilizzato, spiritualizzato o addomesticato (dipende se si voglia o meno dare accezione negativa a tali etichette), la potenza/enegia che la natura è fa capolino nel mondo. Come può Carrie rappresentare questa rottura? Beh, Carrie è infantile: non conosce il proprio corpo, né sa cosa sia il ciclo mestruale e dalla primissima infanzia mutua il senso di onnipotenza. Ogni bambino crede di esserlo, ovviamente senza sapere di crederlo, poiché qui non c’è pensiero, bensì “azione” pura. Ogni bambino nasce nell’illusione che il desiderio, di per sé, modifichi il mondo. La prima illusione è data dal pianto e dalla conseguente comparsa del seno. Le delusioni (e cioè il pensiero, il sapere, la spiritualizzazione) vengono subito dopo, sono dietro l’angolo. Questa serie di delusioni le chiamiamo processo di crescita e apertura al mondo. Carrie è il fallimento di questo processo. Per questo è medium della natura nella sua potenza assoluta.
Questa potenza incontenibile non deve essere confusa con l’aggressività umana. L’energia che qui si libera lacera la membrana che separa le cose, gli umani – il mondo e le menti sono tutt’uno. E non è vero che questo potere è nelle disponibilità di Carrie (mi sembra quasi superfluo sottolineare che ho da un po’ abbandonato le intenzioni dell’autore e sto consapevolmente facendo violenza, o forzando, il testo), poiché Carrie non controlla se stessa, è fuori di sé, è medium delle leggi che operano – sfrenate e distruttive. Cosa devastano? Case, scuole, sistemi idraulici, pompe di benzina, ossia i prodotti della civiltà, del progresso. Tutto si muove, tutto è animato e l’inferno di cui si parla altro non sarebbe se non il mondo spogliato della maschera del progresso. Le cose si muovono, la materia è vivente, gli individui in quanto individui (e cioè separati) non esistono più, tutto è in tutto, tutti sanno di Carrie così come Carrie sa di tutto e tutti. Panpsichismo. Una sola mente, che coincide con il tutto, opera: selvaggia. Carrie? È soltanto uno strumento, anzi, un punto di vista, un taglio prospettico. Necessario, per il lettore, per ogni essere umano, che necessariamente vive dentro di sé, separato dal resto. Cosa c’è fuori della tana? Anzi, cosa si agita nell’ombra della tana che ognuno di noi definisce il proprio Io? Lo si può dire, forse, con un passaggio del testo.
…sono io sue snell…solo che non c’era bisogno di pensare al proprio nome. Il concetto di se stessa non richiedeva né parole né immagini…
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Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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