Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Mentre cammina, una donna, non troppo giovane, lo afferra per un braccio. Non è una cosa che immagina, questa. È reale. Accade. Ian Testa viene intercettato mentre scende i gradini delle scale mobili che portano alla banchina della metropolitana.
Brutti occhi, ragazzo. Brutti occhi. Non correre. Rallenta. Ascolta.
Dormire per il gusto di dormire o per giusto riposo pare esser diventato impossibile per il povero Ian. Ha il volto stanco. A modo suo, conosce questa donna, sì. Abita nel palazzo? O fa la spesa nel suo stesso supermercato o cosa? Però è la prima volta che si parlano. Crede.
Lo tiene per il braccio, Cosa non ti ha fatto dormire?
Un brutto sogno.
Come sempre.
Fa cenno di sì, Ian che, capisce, ha bisogno di raccontare, Ho sognato di essere in un edificio grigio e basso, costruito sul mare, come una palafitta, ma di cemento spesso e con grandi finestre che davano sul mare in tempesta.
Sorride, la donna, Non esiste al mondo una tana che sia veramente buona, possibile che tu non lo capisca? Continua.
Distratto per un attimo dal silenzio della gente che si lascia portare venti e più metri sotto il pavimento di cemento della città, Ian riprende, Vedevo ma non sentivo nulla, nulla sentivo, ma vedevo il mare gonfiarsi, violento. E, lontano, perfettamente distinguibili, quattro trombe d’aria. Allineate, una accanto all’altra, immobili sul posto nel loro vortice. Enormi trottole d’acqua.
Chi sono, eh? Chi sono?
Nessuno, rispondeva Ian, solo trombe d’aria.
Voglio quattro nomi, sputa fuori i primi quattro che ti passano per la mente.
Li aveva fatti. E non potrebbe ripeterli per una seconda volta, se non a suo rischio e pericolo. Teme di incorrere in chissà quale furia.
Sono loro. Minacciosi, all’orizzonte. E che hanno fatto, eh? Cosa ti hanno fatto queste persone, cosa?
Nulla mi hanno fatto.
Le trombe d’aria, poi che hanno fatto?
Sono rimaste lì, vorticando sul posto, erano quasi belle. Mentre dice queste parole, inciampa sul pavimento, immobile contro la scala mobile che si piega e ritorna su se stessa, nel suo movimento continuo. La vecchia lo tiene e lo scorta sulla banchina, direzione centro. Ha paura che scappi via. Che si perda fra le persone.
Continua, dice.
Poi, dal mare, si è levata un’onda altissima, alta un palazzo di quattro piani.
Ancora quattro? Quattro? Viene interrotto dalla donna. E che faceva l’onda, che faceva?
Si alzava e avanzava, veniva verso l’edificio e più si avvicinava, più diventava alta e minacciosa. Era scura, quasi nera. C’era poca luce, il cielo coperto di nubi.
E tu, che hai fatto tu?
Mi sono nascosto dietro una colonna.
Davvero? E cosa credevi di ottenere, tu che da dietro una vetrata credevi di poter tranquillamente osservare il mare in tempesta senza rischiare nulla?
Ero convinto, nel sogno, che se l’onda avesse sfondato le vetrate invadendo l’edificio, lì dietro, almeno in parte, avrei potuto essere al riparo dalla sua forza d’urto. Almeno da quella. Sbaglio?
Hai paura, giovanotto, una paura maledetta e scusami se parlo così. Ma ti ha aiutato quella colonna? Ti ha veramente messo in salvo?
Un pannello elettronico si illumina. Treno in arrivo. Subito dopo il treno viene annunciato da un vento che si alza improvviso. È lo stesso vento di un altro sogno di Ian Testa, di quando era ragazzo. In quel sogno antico Ian era minacciato di esser travolto, mentre camminava per strada, da un treno che correva senza freni. Questo pensiero lo tiene per sé, anche se per un attimo il colore degli occhi della donna cambia, virando sul giallino. Un gatto. È un gatto, pensa Ian.
Prenderemo la prossima. Questa è piena, lo assicura la donna mostrandogli il grande quadrante dell’orologio assicurato al polso. Non è tardi. Continua.
Non ha rotto le vetrate. Non le ha rotte. Tutto l’edificio ha tremato per qualche momento, all’impatto, mentre l’onda violenta lo avvolgeva. Ian stringe la sua borsa da lavoro piena di lavoro arretrato. Gli era parso che qualcuno la tirasse, ma sulla banchina ormai vuota c’era solo lui. E la donna.
Oh, ragazzo, tu credi di poter controllar tutto, con l’occhio tuo, ma è l’onda a dominare tutto. Non sei tu a raccogliere con lo sguardo il mare, chi ti credi di essere, ma è l’onda a travolgere te, ad avvolgere te. Ma continua, ragazzo. Vorrebbe riprendere il racconto, ma la donna continua a parlare, fra sé e sé, Hai problemi ragazzo, dice strofinandosi le dita, tutta in orgasmo. Continua, lo prega, quando si accorge di essere osservata.
Ian stacca gli occhi dallo schermo appeso al soffitto della galleria. Tre minuti, alla prossima corsa. Cerco di uscire da quel brutto edificio, ma fuori piove e piove. Piove come non avevo mai visto piovere.
Hai pianto? Piangi? Piangi abbastanza? Ma continua, ragazzo.
Non sono un ragazzo.
Certo che lo sei, cosa credi di essere?
Un uomo. Ho più di quaranta anni, io.
Ride, ride tanto. Batte sulle anche rinsecchite. Ma continua, ti prego, continua, Ragazzo.
Trovo un vecchio motorino. Di quelli di quando ero ragazzino.
E scappi? Eh? Dove vai?
Non si mette in moto. Candele bagnate, credo.
E poi, poi?
Lascio il motorino a terra e inizio a camminare.
E per andare dove?
Ho perso i miei documenti. Un uomo mi ha detto che ho dimenticato le mie cose in una vecchia casa abbandonata.
Oh mamma. Stai dicendo la verità o te lo stai inventando questo sogno, eh? Perché pare proprio inventato.
È vero, vero.
Oh, bene. Continua. Il tuo passato, ragazzo mio – e non dire più di essere un uomo, va bene? Sarebbe un grave errore confondere il tuo aspetto con la tua condizione, la tua età con quello che sei. Vai avanti.
Provo a camminare. Non riesco a camminare.
Questo è un sogno da bambino. E tu lo sai.
Sì. Da ragazzo sognavo di non riuscire a camminare, che qualcosa frenava i miei movimenti. Un motore ingolfato. Non senza energie, ma pieno di energie che non riesco ad incanalare. Stanotte mi aggrappavo con le braccia ai muri e ai cancelli, per strada, per poter avanzare nel mio cammino.
E la pioggia?
Finita. Era sera. Il sole tramontava. Dovevo prendere le mie cose prima che facesse notte. La casa abbandonata era…
Infestata! Vero?
Ian testa fa di sì con la testa. Due minuti all’arrivo della metropolitana.
La donna saltella, come avesse vinto in un gioco a premi, E ci arrivi, eh? Dimmi, ci arrivi? Scommetto di no.
No. Mi sono svegliato.
Tu non sai più chi sei, ragazzo. Forse non lo hai mai saputo.
Il vento di alza nuovamente. La donna gli lascia il braccio e Ian, che posa lo sguardo sulla giacca stropicciata, solo adesso si rende conto di esser stato per tutto il tempo bloccato in quella morsa.
Si allontana dopo un cenno e si ferma subito prima della linea gialla. Il treno arriva a tutta velocità e sfreccia senza fermarsi. Ian volta verso la donna, che intanto gli si era fatta sotto. Fa un passo indietro, spaventato.
Evidentemente non era la tua corsa.
Ian guarda lo schermo elettronico. Il servizio è momentaneamente sospeso.
Tu non lo sai dove devi andare, ragazzo. Non lo sai.
Si sveglia.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Bello!
Grazie.