Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
È stato appena colto da dubbio e illuminazione, il povero Ian, mentre sta riportando a casa il più piccolo dei suoi figli – quello ancora ipercinetico e iperattivo. Gran corridore, tutto urla e capelli perennemente umidi di sudore per il gran movimento. Grandi occhi castani, deliziosamente scapigliato, raffinato nei lineamenti e, a modo suo, selvaggio e nobile di spirito al tempo stesso. Da buon animaletto metropolitano fatica a concepire impedimenti e limitazioni d’ogni sorta, mentre Ian, che lo insegue lungo i marciapiedi della città – conformemente a quanto prescrive natura – ha il compito di proteggerlo dai mille pericoli che ovunque si annidano.
A differenza della consorte tutta ansia, che blocca e soffoca, urla e scalpita, ordina e minaccia; ecco, Ian, a differenza di lei, in quanto figlio di genitori ansiosi e soffocanti1 a loro volta, ben ricorda tutte le reprimende, i no, i divieti e quel senso di soffocamento che aveva reso opprimente la sua infanzia. Tali sensazioni, a dirla tutta, lo attanagliano ancora adesso che è adulto – o uomo – e (almeno all’apparenza) libero e sicuro di sé. Ecco, a partire da tale disagio, non può fare a meno di veder se stesso nel figlio – e del resto non potrebbe essere diversamente – e, di conseguenza, non può proprio sopportare né che il figlio senta adesso quanto lui aveva sentito nella propria infanzia, e tanto meno che il figlio, un giorno, da adulto, possa provare quanto lui ancora a distanza d’anni sente proprio adesso, ancora oggi. Insomma, sente di dover piantare dei paletti e, al tempo stesso, di dover dar spazio alla legittima frenesia del figlio.
Nel lungo viale alberato che lo porta a casa, Viale del lavoro per esser precisi, il bambino è libero di correre e, con la scusa di precise istruzioni, di esercitarsi con i numeri, che già a tre anni apprezza oltremodo. Quattro alberi, spara Ian e via, il suo rampollo parte come una scheggia per fermarsi esattamente all’altezza del quarto albero. Altri quattro e poi tre, fino al semaforo, dove si prendono per mano e insieme attraversano la strada. Tutto normale. Tutto collaudato.
Ma attraversato l’incrocio il marmocchio inizia a correre. Nessun permesso, nessun via libera, nessun accordo. Niente uno due tre via, nessuna numerazione d’alberi, nessun riferimento a lampione o segnale stradale che sia. Semplicemente lascia la mano del padre e parte. Veloce. Ian non ha il tempo di parlare che il figlio, dopo qualche metro, si blocca da sé. Il corpo rigido, la schiena dritta, la testa leggermente incassata fra le spalle. Un istante o giù di lì e il bambino si volta. I loro occhi si incontrano. Si guardano, certo, l’un l’altro. Ma l’occhio che veramente guarda, nell’asimmetria del rapporto padre-figlio, è il suo. L’occhio che indaga è il suo, mentre quello del figlio si preoccupa di indagare il proprio essere oggetto di indagine, o controllo. È il suo corpo a bloccarsi, sotto lo sguardo. Occhio che congela, irretisce. Perché l’occhio che guarda ti riguarda. Ti riguarda perché ha evidentemente a che fare con te e, con prepotenza, è occhio che non si accontenta di guardare una sola volta, ma che è sempre lì a scrutare e che a furia di guardare e riguardare non si sa più se sta guardando o meno, ossia, se sta guardando proprio in questo momento. Nel dubbio, ci si comporta come se guardasse, così ha sempre fatto Ian, così, lo dicono i fenomeni, sembra stia iniziando a fare il figlio2. Ci si controlla ed ecco, boom, l’occhio, una volta esterno, ti riguarda per mezzo della tua stessa coscienza, che si rivolge verso l’interno: non c’è più bisogno dell’urlo dal di fuori e nemmeno dell’occhio che ti vuol cogliere in fallo. Ci pensi tu.
Ian si fissa sul corpo snello del figlio. L’occhio già se lo porta dentro, nella testa, galleggiante nella preziosa ampolla dello spirito. Ian, come ogni bambino, correva, saltava, urlava e il corpo, quel corpo che si ritrovava, non sapeva proprio come scaricarlo, perché un’intera giornata spesso non bastava. Questo enorme e gioioso dispendio di energie, quel godimento nello sperperare forza lo ricorda come qualcosa di enorme e indistinto. Pura vita, magmatica e ribollente. Un macigno, però, si erge sulla superficie. Un ricordo materiale fino allo sfinimento, fatto di una sostanza inattaccabile, dura fino all’impossibile, sulla cui rugosa superficie c’è una storia fatta di poche immagini. Lui, piccolo, che prende a calci un sasso. Con le scarpe nuove. Ricorda i mocassini d’un tempo. Lucidi e brutti e scomodi, con due finestrelle a forma di petalo che mostravano il calzino bianchissimo. Ricorda uno sguardo rabbioso, furioso. Ricorda solo occhi senza volto. Niente naso o fronte o guance o labbra – solo occhi. Ricorda il proprio blocco, sotto quello sguardo. Ricorda il suo stesso esser stato infilzato da parte a parte. Sente il suo corpo, adesso come allora, nella morsa del terrore che congela3.
E adesso eccolo, il figlio. La schiena dritta, il collo rigido, le braccia muscolose lungo i fianchi, le gambe lievemente frementi nella contraddizione fra il timore e la volontà. Voltato fino a portare il mento sulla spalla destra. Sulle labbra una indecisione che solo lui, Ian, può sciogliere. A metà strada fra la delusione e il sorriso, trattenuto sulla soglia del volto. Ed Ian, alla vista, viene preso da un’altra considerazione. Distruggere quegli occhi che un tempo l’avevano congelato, quegli stessi occhi che, adesso comprende, brillano nel suo volto che crede così diverso da quello del padre, del nonno e via ancora all’indietro fino al primitivo. Mettere fine a questa brutta eredità – non consegnarla al figlio, non metterlo nelle condizioni di perpetrare l’errore. Perché, in fondo, lo sguardo che riluce nel nostro occhio è quasi sempre ereditato dagli occhi che ci hanno guardato e di cui siamo stati oggetto4. Mettere un dito nell’occhio che indaga, sempre presente e che mai batte ciglio, che non abbisogna di umidità.
Vai, veloce fino al cancello, dice Ian.
Il bambino prima sgrana gli occhi, poi li stringe in uno sforzo ermeneutico esilarante e degno di grande rispetto per un bambino di soli tre anni. Per arrivare a destinazione deve superare un grande cancello che dà su di un parcheggio condominiale, correre per una cinquantina di metri – più o meno sette alberi – e infine svoltare a destra per immettersi nella viuzza privata, e rigorosamente pedonale, che porta al loro cancello di casa, un’altra ventina di metri. Per farlo deve uscire fuori dalla portata dello sguardo del padre.
Tre – il bambino saltella sul posto; Due – si volta e si mette in posizione; Uno – per un attimo sembra pietrificato, Via.
Parte come un razzo. I piedi divorano lo spazio, il primo albero è superato. Coordinato, bello, perfetto in ogni movimento, evita una busta di plastica. Secondo albero, salta una buca nel marciapiede, segno della pessima amministrazione. Il terzo albero alle spalle, corre veloce senza voltarsi, la magliettina gialla, con al centro il faccione di Iron man, sventola. In successione, salta la radice d’un albero, schiva due escrementi di cane non raccolti e un vecchietto con bastone a braccetto di una signora rumena che parla al cellulare con chissà chi. Quindi arriva alla svolta e vira, sempre a tutta velocità, senza andare a sbattere contro il muretto in cui sono allineati gli sportelli arrugginiti che custodiscono i contatori del gas…e scompare alla vista.
Ian cammina lento, lasciandogli godere la vita al di fuori dell’occhio dell’adulto che guarda e guarda e guarda. Ma per vedere cosa, poi? Per evitare di vedere cosa, poi?
1 Delle possibili conseguenze di una educazione improntata all’ansia si rimanda alla fantasiosa vicenda di Leo Majol, protagonista dell’omonimo racconto, parte della raccolta Il posto di ciascuno. Per chi volesse può leggerne l’incipit cliccando qui.
2 Nella mente di Ian si agita, sul momento, un ricordo. D’un libro che aveva studiato con grande attenzione, qualche anno prima, e che adesso, plasticamente, si realizza sotto al suo occhio – anche se in un contesto molto diverso. Si anticipa qui una delle piccole ricerche che di lì a mezz’ora Ian farà nella sua biblioteca domestica a proposito del Panopticon di Bentham: “…occorre che la sorveglianza possa esercitarsi in modo tale che coloro che sono sorvegliati non possano sapere se lo sono oppure no […]. In questo modo il potere potrà essere un potere completamente anonimo. Il Direttore non ha corpo, poiché il vero effetto del Panopticon è di far sì che, anche quando non c’è nessuno, l’individuo nella sua cella non solo si creda, ma si sappia osservato, che faccia l’esperienza costante di essere in una condizione di visibilità totale da parte di uno sguardo – che potrà esserci o meno, ma questo non importa”, M. Foucault, Il potere psichiatrico.
3 Questi versi Ian li conosce a memoria da molti anni. Non ne conosce molti altri, poiché la poesia, nel tempo, da grande passione giovanile sì è fatta tabù e rimpianto. Preferisce non pensarla, anche se a tratti, qualche verso spunta fuori fra i suoi pensieri, come mortaretti e petardi carichi di senso. Tutti, a suo avviso, dovrebbero però conoscere questi, di versi – che Ian vomita in una delle infinite traduzioni possibili: “Così, come potrei rischiare? / E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti – / Gli occhi che ti fissano in una frase formulata, / E quando sono formulato, appuntato a uno spillo, / Quando sono trafitto a uno spillo e mi dibatto sul muro / Come potrei allora cominciare…”, T. S. Eliot, Il canto dell’amore di J. Alfred Prufrock.
4 Nel breve lavoro di ricerca che Ian una volta a casa porterà avanti a proposito di questa banale esperienza, si anticipa, dato che qui si sa tutto e tranquillamente si fa avanti e indietro nel tempo, quanto accadrà solo a notte inoltrata. Verso le due e mezza Ian si alzerà dal letto per andare a bere un sorso d’acqua e, ripensando alla vicenda col figlio, sfoglierà, siederà a terra in corridoio a gambe incrociate. Vicino alla porta d’ingresso c’è una piccola libreria in cui nessuno deve metter mano, poiché lì, ordinati secondo criteri personalissimi, sono raccolti certi testi che lui reputa notevoli e che devono sempre essere a sua completa disposizione. In stato di dormiveglia, guidato da un infallibile intuito, tira fuori il volumetto che gli interessa e lo apre proprio alla pagina che cercava, come per magia: “Come sedimento del lungo protrarsi dell’età infantile, durante la quale l’essere umano in formazione vive in uno stato di dipendenza dai suoi genitori, si struttura nel suo Io una speciale istanza in cui tale influsso viene perpetuato. Ad essa è stato dato il nome di Super-Io […]. Nell’influsso parentale non incide naturalmente soltanto la natura personale dei genitori, ma anche la tradizione famigliare…”, S. Freud, Compendio di psicoanalisi.
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Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Sai, oggi che i miei figli sono genitori, rivedo, in loro, verso i loro figli, l’occhio severo di mio padre verso di me, e cerco inutilmente di sfuggire l’improvviso esplodere del fatto che lo avevo ereditato, lo avevo trasmesso, mentre ancora, nell’assenza, lo sento gravare su di me, a impastoiare l’affetto. Difficile. Val la pena di provarci. Ogni piccolo sucesso una goccia di miele.