Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
La radiosveglia sul comodino segna le undici di sera e Barbara se ne sta sdraiata sotto le coperte, ancora sveglia. La madre l’ha appena baciata sulla fronte, ha spento la luce e sta chiudendo la porta. Gli occhi sgranati di Barbara puntano le macchie di luce sulle pareti e il soffitto, ignara dei fasci sottili che si insinuano dalle fessure nella serranda, spie del lavoro incessante dei lampioni. A tratti sorride. È tornata, dopo quasi tre anni dall’ultima volta. Sono due anni, undici mesi, e ventiquattro giorni, aveva sussurrato alla madre, poco prima, mentre lei le sistemava le coperte. Sono due giorni che non dorme. È la sua terribile insonnia. Cerca di dormire, le aveva ripetuto più volte la madre.
Come una mummia, avvolta nelle coperte, liberi solo il viso e il braccio destro, le dita della mano tamburellano incessantemente sul piumone soffice e caldo, rimandando ad un pensiero incessante. Sul viso paffuto sta incollata una maschera sorridente, mobile solo all’altezza delle labbra, perse in un frenetico movimento che libera un sibilo confuso e quasi impercettibile. A tratti, con la punta dell’indice, stuzzica i radi pelucchi, nerissimi e ispidi, cresciuti sotto il naso o agli angoli della bocca o, ancora, sotto al mento. La fanno ridere. Aveva urlato contro la madre che voleva portarli via con le pinzette. Non sono belli, la supplicava la madre. Ma Barbara non se ne cura.
Solimene, dopo aver chiuso la porta della stanza di Barbara, va in salone e come fosse un sospiro concesso al corpo ancora giovane e desiderabile, si lascia cadere sul divano, davanti alla televisione accesa a basso volume. Ingoia un sorso di saliva e cerca di distendere i muscoli della bocca, aprendola lentamente. Un bruciore che conosce da anni insiste sui suoi zigomi affilati. Vaga la mano stanca verso le pagine dell’ennesimo libro in cui cerca la formula, gli ingredienti, la chiave per accedere nuovamente all’adorata figlia, ai suoi occhi, ai suoi pensieri, al suo corpo che non si lascia abbracciare. Ma nessuna storia, fra tutte quelle che ha letto negli ultimi anni, è la storia della figlia. Nessuna madre, fra tutte le madri di cui ha letto, è madre in cui può identificarsi. Nessun marito, fra quelli raccontati, è fuggito di casa come il suo, con gli stessi tempi e modi e assenza di una parola vera. Nessuna moglie è stata abbandonata come lo è stata lei, nessuna figlia matta da legare è stata mollata nel mondo, che è grande, freddo e pericoloso, come lo era stata Barbara. Questo, almeno, è quello che pensa. Solimene fa andare lo sguardo per il soggiorno, sulle mensole di legno scuro. Lui è ancora lì. David è ancora presente e sorridente nelle foto incorniciate. Le aveva prima tolte tutte, poi le dovute tirare fuori dal sacco nero già chiuso e pronto per il cassone dell’immondizia, dopo la violenta ribellione di Barbara, che le aveva volute tutte nuovamente al loro posto; lei che non aveva chiesto al padre di tornare, lei che non aveva chiesto spiegazioni per quella fuga, lei che voleva solo che le foto ritornassero lì dove erano sempre state. David sorridente, con gli occhiali da sole, il corpo muscoloso e asciutto, sdraiato sulla sabbia con Barbara, a due anni, che lo ricopriva di sabbia. David in montagna, i denti bianchissimi, splendenti sulla carnagione scura, la barba incolta, gli occhi socchiusi per difendersi dal sole, e Barbara, cinque anni, in equilibrio sulle sue spalle. Sera dopo sera, Solimene passa in rassegna quella dolorosa cronologia, incapace di archiviare una storia interrotta bruscamente – era stata veramente così brusca l’interruzione? – dal crollo della loro adorata bambina, dalla povertà di David. Da una povertà, da una incapacità, da un limite che non aveva sospettato.
Il libro scivola dalla mano priva di coscienza, di rovescio, le pagine piegate a terra, sul tappeto. Un tempo che nessuno si cura di misurare, a suo modo passa. Il cellulare trema sul tavolino, sotto la debole luce giallognola di una vecchia lampada col paralume di tela e le frange frementi. Gli occhi di Solimene si aprono al mondo senza aprirsi veramente. Stanchi persino delle parole che gli scrive Carlo, il nuovo compagno che si ostina a tempestarla di parole grondanti di un desiderio mai veramente desiderato. Accompagnandosi con un sordo lamento porta lentamente le gambe al petto, le guance alle ginocchia, e nella flessuosità dei suoi cinquant’anni porta l’indice della mano alle labbra, in una chiusura potenzialmente infinita, mentre nella sua mente David torna a casa, svegliandola da quel torpore. Fa rotolare fuori di casa la testa di Carlo e poi le riconsegna la sua Barbara, che rinasce alla sola vista, sotto l’influsso di una carezza, ad una mano grande e forte, alla potenza della fede tornata al suo posto, lì dove era stata per venticinque anni e di dove era da un giorno all’altro scomparsa. Serra le palpebre, che vorrebbero scattare per verificare la realtà del delirio. Non vuole perderlo. Non subito. Ancora un po’, come i bambini che al mattino rifiutano di alzarsi dal letto per andare a scuola. E invece scatta su a sedere. La testa le gira per qualche secondo. Ha sentito qualcosa. O non era nulla? Si alza e scalza per non far rumore, riprende la via per la stanza di Barbara. Si lascia alle spalle il grande tavolo sotto cui, tre giorni prima, Barbara si era trincerata urlandole di non avvicinarsi, lei che era una maledetta sgualdrina. Perché le aveva detto una cosa del genere? Si infila nel corridoio, lì dove Barbara l’aveva graffiata in volto, sulla guance, dicendole che era un demone. Aveva attraversato la cucina, lì dove Barbara si era ustionata una coscia premendole contro il fondo della caffettiera bollente. Aveva svoltato, lì dove il corridoio finiva nel bagno dove non più di un mese prima l’aveva sorpresa accovacciata mentre succhiava la punta di un dito che aveva intinto nel sangue che gocciolava a terra colandole fra le cosce.
Preme l’orecchio contro la porta accostata. Nessun rumore. Apre lo stesso e sente bisbigliare qualcosa. Si avvicina al letto e tende l’orecchio per afferrare qualcosa, ma non capisce. Punta gli occhi sul viso gonfio della figlia, svuotato forse per sempre della bellezza d’un tempo. La bellezza della bambina, dell’adolescente, perduto incredibilmente. Lei è lì. Anche Barbara è lì. Ma sono altrove, l’una per l’altra. Barbara. Che c’è?
Ma lei non le risponde. Lo sguardo fisso al soffitto. Continua a bisbigliare.
Barbara. Perché non dormi? Barbara. Solimene ne ripete un nome, come se fosse depositario di un potere, come fosse un amo per pescarla dal fondo del mare in cui è andata a cacciarsi.
Si siede e prova a carezzarla, la mano imbrigliata nella matassa dei capelli, ripete il nome della figlia, anche la sua voce ridotta a un soffio. Si piega sulla figlia, accostandole l’orecchio alle labbra, incagliate in una antica formula magica.
Se capisci guarisci, se capisci guarisci, se capisci guarisci…
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