Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

I sogni che mi fa fare Suttree di Cormac McCarthy

Market Street di lunedì mattina, a Knoxville, Tennessee. In quest’anno millenovecentocinquantuno. Suttree con il suo involto di pesci che passa davanti a carretti sgangherati carichi di fiori e derrate, un clima fecondo di commercio rurale, nell’aria un puzzo di prodotti agricoli che rinvia vagamente a un’idea di marcio e putrefazione. La strada costellata di paria, e un viavai di cantanti ciechi e organisti e salmisti con le loro armoniche a bocca. Suttree supera negozi di ferramenta e macellerie e piccoli spacci di tabacco. Un forte odore di cibo nel caldo del mezzogiorno come mosto di malto in fermentazione. Ambulanti taciturni che stanno a guardare appollaiati sul pianale dei loro carri e fioraie con cuffietta come gnomi incappucciati, le mani legnose compostamente adagiate sul grembiule e il labbro inferiore rigonfio di tabacco.

Erano anni che non leggevo Cormac McCarthy. Mi ero imposto una pausa, dopo la lettura febbrile della splendida Trilogia della frontiera e poi di Non è un paese per vecchi e de La strada (di cui tempo fa ho scritto qualcosa qui). Ho fatto bene. Purificato dalle potenti impressioni che quei romanzi mi avevano lasciato, mi sono lasciato investire da Suttree, quasi vergine. La sua azione è stata così potente da seguirmi persino la notte, nei sogni, d’un tratto popolati di risse, bocche senza denti, città allagate dopo piogge torrenziali, distese di rifiuti, baracche, teste sfondate e grondanti sangue, bottiglie brandite come clave – persino da me. Risvegli pieni di stupore

Suttree non è nessuno in senso proprio. E in questo pare anticipare La strada, dove il “protagonista” viene addirittura spogliato del nome, quasi non ne sia degno o, ancora, che il nome stesso sia una potente limitazione. Ma insomma, Suttree non è qualcuno in senso proprio. Sì, ha delle idee, agisce, vive in una baracca, finisce in prigione, ha una barchetta che non affonda per miracolo e con cui pesca quel che può nel fiume su cui sorge la sua baracca. In alcuni momenti, prende addirittura delle decisioni. Ma in fondo non è nessuno. Ha più funzione di specchio, catalizzatore della variegata umanità. È una guida che ci conduce nella desolazione, che ci fa attraversare e conoscere una umanità sofferente e, apparentemente, senza speranze.

Tutto ciò che è, in questo romanzo, sembra spinto dalla mera volontà di sopravvivenza. Cade il velo del senso, frana l’illusione che a fondamento delle cose e della nostra stessa vita, vi sia un significato, qualcosa che sia e vada oltre la lotta contro forze che ci vogliono annientare. Anzi, io non credo che qui, in questo grande romanzo, la vera questione riposi nello svelamento del reale nella sua dolorosa verità. Una verità su cui poi, questo è innegabile, l’avventura dell’uomo si manifesta come incessante sforzo di trovare un significato a questa spietata lotta. Un senso che vada oltre la vita fine a se stessa. La vita che dura solo perché non vuole finire, solo perché terrorizzata dal limite che intrinsecamente la segna.

Camminò sulle mattonelle fresche, il rumore dei suoi tacchi soffocato da segatura e trucioli. Un busto d’uomo su una tavola a rotelle gli passò accanto remando con delle zeppe di cuoio. Enormi ventilatori giravano lenti nell’oscurità sovrastante e i venditori si facevano largo a spallate coi loro cesti, gli occhi sgranati di fronte a tanta abbondanza. Donne schive in vesti di percallina stampata consunte sotto le ascelle, seguite da bimbetti sudici in scarpe da tennis. Si aggiravano in disordine e sciamavano via strascicando i piedi. Suttree gironzolava tra i banchi dove nonnine offrivano fiori, bacche o uova. Schiere di contadini vizzi curvi sui banconi delle tavole calde. Un lazzaretto di generi alimentari e flora e umanità menomata. Una faccia su due era gozzuta, storta, deformata da qualche escrescenza. Denti anneriti dalle carie, occhi catarrosi e vuoti. Una plebe ostinata in una cornice di mazzi di fiori incartati, venditori ambulanti di articoli esoterici…

Questo romanzo è una lastra fotografica in grado di cogliere anche le più impercettibili sfumature della realtà, che si presenta sempre e comunque nella sua brutale materialità. Il mondo incombe, si impone ai sensi, tutti chiamati in gioco, imbrigliati nella passività della vista costretta all’abominevole, dell’udito aggredito dall’urlo, dell’olfatto gonfio di sentori di putrefazione, del gusto invischiato nel disgustoso e del tatto testimone dello scabroso. Così come spesso vengono chiamati in rassegna i quattro elementi. Aria, acqua, terra, fuoco. L’uno dopo l’altro, spesso nello spazio di una sola pagina, interpellati per restituire una visione del mondo nel suo disordinato sfasciume. L’acqua del fiume, al tatto, “era calda e di una cremosità granulosa come di grafite”. La terra esala “l’odore stantio di una cripta”. Il fuoco compare in “fiamme esili”. L’aria è “brezza che portava con sé un vago odore di olio e pesce”. Inutile andare avanti. Ogni pagina di Suttree presenta il mondo attraverso la lente della disperazione. Perché, in fondo, c’è una saggezza antica che soffia da queste pagine. Una saggezza che richiama Sileno, perché “i morti non hanno memoria e il nulla non è una maledizione. Tutt’altro” e perché “la sofferenza umana non conosce limiti e le cose possono sempre peggiorare”.

Dimostra, quest’opera, come per fare un grande romanzo non serve una storia in senso proprio, bensì un’idea del mondo, della natura e di uno stile. Poi deve accadere qualcosa, certo. Ma i fatti sono ben poca cosa se manca un’idea di letteratura e di cosa sia il linguaggio. McCarthy è un grande scrittore poiché ha una poetica e una visione dell’uomo nella sua sconfinata povertà, nella sua disponibilità a sottomettersi al dato di fatto, pur di sopravvivere. L’uomo è pronto a sopportare il tacco della scarpa del destino che preme alla nuca – e mi viene in mente Il processo di Kafka e il suo duro insegnamento. Bisogna esser consapevoli e farsi carico della propria causa se non si vuole morire come cani (sempre Kafka), perché, e qui è McCarthy che parla, “il mondo è guidato da coloro che sono disposti ad assumersi la responsabilità della sua guida”. Suttree è uno di quelli che fugge l’abisso. Suttree affronta l’abisso, perché è l’unico modo per non esserne fagocitato.

 

9 commenti su “I sogni che mi fa fare Suttree di Cormac McCarthy

  1. Guido Sperandio
    agosto 11, 2020

    Rilevo questo passo: «Dimostra, quest’opera, come per fare un grande romanzo non serve una storia in senso proprio, bensì un’idea del mondo, della natura e di uno stile. Poi deve accadere qualcosa, certo. »
    È quello che proprio penso. Quel qualcosa che deve accadere arriva dopo come importanza.

    • tommasoaramaico
      agosto 11, 2020

      Chiaro che non esistono formule o ricettari – anche se molti credono di possedere i segreti e conoscere le giuste dosi per fare di una “prova di scrittura” un romanzo. Però alcune caratteristiche dei grandi romanzi tornano. E fra queste non c’è necessariamente una storia avvincente. Certo, ribadisco, una buona storia non basta. Fa piacere, ma non basta.

  2. Ivana Daccò
    agosto 11, 2020

    So, che devo tornare, anch’io dopo tanto tempo, a reincontrare McCarthy. Lo desidero, ma rinvio.
    Forse questo sarà il libro giusto.

    • tommasoaramaico
      agosto 12, 2020

      È un libro splendido, eccessivo e disperato. Io credo che i romanzi della trilogia della frontiera siano davvero insuperabili, ma Sutree mi ha davvero colpito.

  3. Anifares
    agosto 12, 2020

    Questo libro non l’ho mai terminato, evento raro per me, eppure ho sempre amato McCarthy- Non è un paese per vecchi mi ha travolto ed è quello che apprezzo di più… ma sai qualche volta succede

    • tommasoaramaico
      agosto 12, 2020

      La forza respingente di questo romanzo effettivamente può portare alla mente altre opere, penso all’Ulisse di Joyce, al Beckett di Molloy o Malone muore e molto altro ancora. Hanno le loro stagioni. Anni fa abbandonai per ben 3 volte la lettura dell’Ulisse, ma dato che non potevo (così come non posso) tollerare una cosa del genere, lo ripresi all’università. Ricordo come fosse ieri quella primavera segnata da Joyce (di cui finalmente trovavo la chiave) e Proust. Certo, non diedi l’esame di Filosofia medievale araba ed ebraica, ma insomma, che primavera.
      P.s. Cavalli selvaggi è uno dei più bei romanzi che io abbia mai letto.

  4. marcello comitini
    agosto 19, 2020

    Anch’io come Guido Sperandio condivido la frase su ciò che hai perfettamente individuato per trasformare una storia in romanzo. Nel mio caso specifico e già altre volte l’ho scritto sul mio blog, sostituisco romanzo a poesia e adatto il tuo pensiero così: “per fare una grande poesia non serve una storia interiore o meno, bensì un’idea del mondo, della natura e di uno stile. Poi deve far immaginare qualcosa, certo. Ma le parole sono ben poca cosa se manca un’idea di letteratura e di cosa sia il linguaggio.”
    Non a caso ho scritto questo commento!!

    • tommasoaramaico
      agosto 19, 2020

      Grazie per la tua suggestione. Credo ci sia molta confusione su cosa sia “letteratura” (poesia). L’unico modo per tentare di ritrovare un orientamento è, credo, leggere/studiare le opere dei maestri. Recuperare una certa serietà che pare perduta a fronte della generale convinzione che tutto sua a portata di mano. Senza sforzi. Senza alcun vero travaglio.

      • marcello comitini
        agosto 19, 2020

        Non puoi immaginarti quanto io sia dolorosamente d’accordo con questa tua risposta.

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Questa voce è stata pubblicata il agosto 11, 2020 da con tag , , .

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