Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
“Questi ultimi mesi di forzata clausura hanno fatto da cassa di risonanza a dubbi corrosivi che da mesi mi perseguitano”, così mi ha confidato un conoscente, uno che non ho mai incontrato in carne e ossa, ma sempre e solo attraverso mail e, da ultimo, grazie allo schermo del mio computer.
Non sono bravo in queste cose, io. Quindi, come spesso accade quando qualcuno tenta di forzare i confini e accorciare le distanze, mi limito ad aggrottare le sopracciglia. Lascio sempre l’interlocutore libero di parlare, ma non lo invoglio, non lo sollecito, non lo stuzzico. Lui, di cui non posso riportare il nome secondo sua esplicita richiesta, non si è perso d’animo. Evidentemente aveva bisogno di parlare.
“Stamattina per la prima volta da dieci anni a questa parte mi sono detto che forse potrebbe essere arrivato il momento di farla finita con questa roba da ragazzini”. Il suo sguardo, dallo schermo, non voleva incontrare il mio. Il che andava bene, dato che io desideravo la stessa cosa. “Ci pensavo mentre facevo colazione, a tratti distratto dalla rassegna stampa in sottofondo, a basso volume per non svegliare i bambini”. Sapevo dove voleva andare a parare. Sapevo benissimo cosa avesse in testa. L’unica cosa che mi sorprendeva era il fatto che volesse parlarne, che uno come lui, con i suoi spaventosi limiti, volesse parlare apertamente di una cosa del genere.
“Corrosivi, ho usato questa parola, giusto?”. L’aveva usata.
“Vedi, in questi ultimi dieci anni, sempre in silenzio e con una determinazione che ormai mi pare più testardaggine e ostinazione, non ho passato una sola giornata senza scrivere almeno una riga o buttare giù una qualche idea per un nuovo progetto. Dopo anni, e per la prima volta, faccio fatica a considerare l’idea, a prender sul serio il proposito di scrivere, di mettermi a scrivere. Sono mesi, ormai, che spendo parte delle mie giornate non a scrivere, ma a sgomitare fra una gran quantità di dubbi che nascono dalla difficoltà di avere uno sguardo nitido su quello che sto facendo. Per la prima volta mi chiedo se ha senso”.
Non mi piacciono questi discorsi. Puzzano di ragazzino che non ha la più pallida idea di cosa significhi mettersi a scrivere qualcosa seriamente, davvero. Sono dubbi per amleti del fine settimana, per terremoti esistenziali così deboli da non esser rilevabili neppure dai sismografi più sensibili. Però a lui non potevo dire cose del genere. Prima di tutto perché erano cose che pensava più e meglio di me, e poi perché aveva bisogno di sfogarsi e io non potevo tirarmi indietro. Del resto non avevo niente di importante da fare.
“Non sono più così convinto che fra le cose che ho scritto fino ad oggi ci sia qualcosa di buono, e non so se vale ancora la pensa di tentare. Ne ho spese di energie, ne ho spese tante, forse inutilmente. Tutto quel tempo sprecato, mi viene da pensare. Se effettivamente ho scritto il meglio che potevo scrivere, allora tanto vale smettere, dato che la roba che ho pubblicato è nata già morte. Se invece non sono fino ad oggi riuscito a produrre qualcosa di buono, stessa storia, per quale motivo dovrebbe avvenire domani se non è accaduto fino ad oggi? Posso legittimamente trovare degli argomenti per lasciarmi alle spalle queste domande? E sia chiaro, lo so che sono cose per adolescenti, ma pare che in questo periodo io sia proprio ringiovanito, ma nel senso peggiore del termine”.
Questa volta credevo di aver qualcosa da dire, qualcosa che non avesse semplicemente a che fare con l’ingenuità con cui poneva la questione, ma lui aveva preso il via e non accennava a fermarsi, “Ho cercato di darmi una risposta, di trovare un criterio”. Solo adesso notavo che trafficava con dei fogli. Non parlava a braccio, stava consultando degli appunti. Era evidente che le gocce che gli aveva prescritto il medico non facevano effetto. O aveva smesso di prenderle? Era una domanda che proprio non potevo porgli. “Ne ho trovati due, di criteri. Il primo è, passami l’espressione, un criterio esterno, oggettivo. Più o meno funziona così. Basta quantificare i lettori, tenere il conto delle copie vendute, prendere nota dei riconoscimenti ottenuti, se ce ne sono stati. Più questo criterio esterno è soddisfatto, più, in modo direttamente proporzionale, si può dire in buona coscienza di aver fatto del proprio meglio, qualcosa di buono, qualcosa che dà diritto a continuare a spendere tempo ed energie per scrivere”.
Avevo pronto un argomento per fargli capire che aveva appena detto delle sciocchezze, ma a quel punto era chiaro che non era alla ricerca di un vero interlocutore, ma di una sorta di demone o di medium per meglio connettersi a se stesso, “Eppure i numeri, che possono dire molte cose, non necessariamente parlano della qualità dei libri e, in ogni caso, hanno poco a che fare con quello che mi sto chiedendo, e cioè se ho fatto del mio meglio, se le cose che ho scritto hanno un senso, una ragion d’essere. E poi, se dovessi fermarmi a questo criterio, la questione sarebbe per me chiusa da un pezzo” aveva sorriso o i tendini del collo avevano tirato così forte da indurlo a una smorfia?
“C’è un altro criterio, un criterio interno. Qui il terreno si fa più scivoloso, perché si va alla ricerca di una risposta per mezzo del sentimento di sé, dell’intuizione. Molto romantico, per non dire patetico, lo so benissimo e quindi non mi interrompere. So bene che la letteratura non è come scrivere un diario e lo scrittore, quando scrive, si rivolge sempre a qualcun altro – e chi lo nega pecca di ingenuità”.
Avevo rinunciato a parlare e poi stava facendo tutto da sé. Prima diceva cose in cui non credeva, che sapeva senza senso e poi le smantellava. Ma aveva bisogno di parlare e io lo lasciavo fare. “Dunque, più che guardare fuori, a ciò che il lettore si aspetta, vuole ed è in grado di recepire, o rivolgere lo sguardo al proprio interno, rischiando di impantanarsi in un vuoto intimismo tutto sentimento – bisogna cercare qualcosa come la risonanza dell’opera nel lettore. Cerco di spiegarmi. Non mi riferisco alla risonanza del chiacchiericcio, perché quella ci riporterebbe immediatamente alla questione della quantità, dei numeri e cose del genere. Quello di cui parlo è un risuonare e cioè il suonare nuovamente, nel lettore, di ciò che in prima battuta era emerso dallo sforzo dello scrittore. È forse in questo modo del tutto peculiare, credo, che si può arrivare alla consapevolezza di aver scritto le cose che ci appartengono e l’aver raggiunto il meglio e poter continuare a scrivere. Capisci?”
Capivo per metà e lui lo aveva intuito, “Arrivare a scrivere qualcosa di veramente nostro, che ci è più proprio, implica un salto di qualità e di prospettiva – e cioè il passaggio dalla particolare esperienza, da tutte le cose che appartengono allo scrittore, a quanto di quella particolare esperienza ha un valore più generale, universale e che è dunque degno di esser letto perché può essere, per il lettore, tanto importante quanto lo era stato per lo scrittore. Questo è il meglio di cui ti parlavo all’inizio. Per farla breve: nella scrittura lo scrittore si rivolge a se stesso scrivendo per gli altri, quindi non può mai decidere del valore del proprio lavoro solo a partire da se stesso, così come la chiave di questo valore non può essere solo ed esclusivamente nelle mani, e cioè nella disponibilità a spendere, dei lettori, ma emerge dalla capacità dell’opera di risuonare nel lettore e nel suo ritornare allo scrittore…magari per mezzo delle discussioni e delle scritture che proliferano tutte intorno a un libro o, se forse ancora capita, dai lettori che cercano il contatto con lo scrittore stesso. Potrebbe sembrare che io sia ricaduto nella prima opzione, ma non è così – quella poggiava sulla mera quantità, mentre questa implica una qualità che può, forse, prescindere dai grandi numeri. Quanto c’è di autenticamente personale in quello che produce uno scrittore ha, al tempo stesso, un non so che di generale, di universale e per questo può far presa su quanto di urgente e personale per il lettore”.
A questo punto aveva detto tutto quello che aveva da dire, anche se non ricordavo più da dove fosse partito, che percorso avesse seguito e dove fosse andato a parare. Se fosse stato un film o un libro, entrambi di pessima qualità, ci sarebbe stato un silenzio riempito da una sigaretta o da un bicchiere pieno fino all’orlo, ma lui è astemio e io non fumo, quindi ci siamo limitati a guardarci, poi lui ha ripreso, “Ieri hanno rifiutato il mio secondo romanzo, per la quinta volta. Ho perso il conto degli editori che nemmeno mi hanno risposto”.
Finalmente vomitava la verità. Beh, a quel punto un diversivo sarebbe stato la cosa migliore. Magari lo avrebbe portato a non parlare ancora, a fare finalmente silenzio, a non impiccarsi a punti interrogativi disonestamente consegnati agli altri, a me, “Che devo fare?” mi aveva infine chiesto a bruciapelo, cercando il mio sguardo. Mi lasciava la parola nel momento sbagliato, nell’unico momento in cui non avevo scelta, in cui c’era un’unica risposta possibile, “Mi dispiace, ma questo puoi saperlo solo tu”.
Mi ha dato ragione sorridendo e, tornando finalmente in sé, si è scusato per avermi rubato tutto quel tempo. Lo ha definito prezioso, dato che per lui il tempo che passa è una vera ossessione. Non il tempo mancato, sprecato o cose del genere. Il suo stesso scorrere, la natura stessa del tempo era ed è, per lui, insostenibile. Poi ha messo fine alla video-chiamata. E questo è quanto.
p.s. Questo post nasce dallo stravolgimento di una comunicazione a perdere…l’unica comunicazione in fondo possibile, nonché autentica.
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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