Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Non tutto può essere previsto, questo lo sanno davvero tutti. Come poteva dunque immaginare Carl che d’un tratto, dall’angolo della strada sarebbero sbucati due bambini tenuti per mano dal padre? No, non se l’aspettava proprio. Sono le nove di sera e fa freddo. Ha appena smesso di piovere e le foglie marce, incollate a terra, rendono il mondo, quel frammento di mondo, decisamente scivoloso. Tutti i negozi sono chiusi e in giro, di questi tempi, non si vede praticamente nessuno. E se è vero come è vero che per Carl è letteralmente impossibile condividere il marciapiedi senza un senso di profondo disagio, allora, senza nemmeno pensare, eccolo che balza alla sua destra, atterrando sul mano stradale. Potrebbe cadere, ma non cade perché tiene una borsetta con dentro dei flaconcini per le punture che deve fare lui all’anziana madre, dopo che Alina da un giorno all’altro si è resa indisponibile.
L’altro uomo, che poi altri non è se non David, stringe a sé i bambini. E non ha tutti i torti, perché un balzo del genere, così improvviso, a quell’ora di sera e in quella precisa atmosfera che ultimamente si respira, beh, metterebbe in allarme chiunque, figurarsi lui, un quarantenne chiuso da più di un mese in casa con i figli, solo e impaurito da quando la moglie, due settimane prima, era stata ricoverata in ospedale. E poi non si dovrebbe dimenticare che anche per quel padre di famiglia, Carl è sbucato dal nulla all’improvviso. David vorrebbe guardarlo bene in volto, mappare i suoi lineamenti, anche se confusamente, anche solo affidandosi alla luce giallognola del lampione che illumina quell’incrocio di periferia. Fallisce nell’intento, perché la luce di due fari abbaglianti lo acceca. I bambini vengono strattonati ancora, come potesse fare chissà cosa, tipo inglobarli nel proprio corpo e sottrarli al mondo.
C’è una cosa da sapere se si vuole avere la benché minima cognizione di quanto sta accadendo, e cioè che Greta, fisicamente lontanissima dalla scena, ma presente in modo quasi dilaniante, ha ventotto anni compiuti da tre giorni, capelli neri, lunghi e ricci. Bisogna sapere che Greta è una giovane donna determinata, dotata di grande forza di volontà e semplicemente splendida, uscita fuori chissà come, miracolosamente, da una famiglia fatta di analfabeti e sciroccati patentati. Ha studiato diritto internazionale e da quasi due mesi è bloccata lontana dalla sua città, dagli affetti, dai parenti. Adesso, proprio adesso, è seduta alla sua scrivania che occupa metà della stanza singola al secondo piano dell’ala B dell’edificio n. 2 che svetta proprio al centro del Campus dove ha vinto una borsa di studio per seguire un master prestigioso. Sospira, lasciando cadere la matita sul piano coperto di carte. Non vuole rispondere per l’ennesima volta al cellulare che squilla. Non può sopportare l’ennesima video chiamata e alzarsi e inquadrare ogni singolo angolo del buco in cui sta reclusa a studiare e a scrivere relazioni, quando non è a lezione. Tu che avresti fatto, eh? Avresti fatto la stessa cosa, ti saresti infuriata o forse avresti pianto, così come sta piangendo lei, che proprio non capisce perché sia andata a cacciarsi in una situazione del genere, lei che studia giorno e notte e non esce praticamente mai, anche se tutti la invitano a cena e per andare a bere o in spiaggia. Non risponde al cellulare scosso da profondissimi brividi, che vibra sul piano della scrivania carica di manuali pieni di leggi, commi, commenti e glosse e studi di casi specifici.
Maledizione, ringhia Martin, gli occhi fissi sullo schermo del cellulare che squilla senza sosta e senza risposta, il display verde e luminosissimo nella penombra dell’abitacolo che corre veloce su viale del Lavoro. Scatta la segreteria e Martin pesta il piede. Non a terra, ma sull’acceleratore. Il Suv, nero nel nero della sera, fa due balzi in avanti e con la ruota anteriore sinistra per un attimo si incaglia in una delle innumerevoli buche dell’asfalto scoppiato dopo giorni di pioggia, quindi riprende il suo movimento furioso. Martin invia un messaggio, Rispondi cazzo, rispondi. Lo sa che Greta non è a lezione. Conosce tutti i suoi orari. Sa che non ha esami, colloqui, che non deve vedere il tutor. Sa che è sveglia. Perché deve vederla? Perché gli toglie il sonno e la capacità di lavorare? Non la chiamerebbe per vederla dallo schermo del cellulare se potesse scegliere di smettere di vederla nella sua mente. Greta nuda, Greta senza mutande, Greta lontana dai libri, dal computer, Greta tutta corpo senza intelletto, Greta spettinata, Greta bestia da soma, Greta lontana nel mondo, irraggiungibile. Non tornerà mai più, mai più, mormora, prima di esplodere, Ha trovato la scusa per non tornare, l’ha trovata, trovata, e spinge il piede sull’acceleratore, mentre chiama ancora. Piange. Deve farla rispondere e farsi vedere mentre piange. Così mi hai ridotto, così, maledetta. Deve farsi vedere mentre piange, deve urlare e correre con la macchina. Deve farsi vedere in macchina, uscito senza giustificazione, lui solo nel mondo, lui solo in tutta quella porzione grigia e senza senso di mondo. Se lo è portato via lei, salendo su quel maledetto aereo tre mesi prima. Deve farsi arrestare. Vedi, le avrebbe detto, solo io, pazzo nel mondo mentre tutti sono in casa. Si vede. Solo lui e le forze dell’ordine che lo fermano e lo ammanettano, prima di internarlo, mentre la chiamata è ancora in corso e Greta lì a gustarsi la scena. Martin nemmeno la guarda più, la strada, e non solo perché, come tutti, è convinto che nessuno sia fuori di casa, ma anche perché non è interessato a farlo.
Beh, cosa deve pensare adesso? Proprio in questo istante, mentre prima si trova davanti e poi subito sotto le ruote il povero Carl che urla per un solo istante? Tutto dà mostra della pochezza della vita umana e di certi suoi insidiosi meccanismi. E per fortuna che David ha i volti dei figli contro di sé. Tocca a lui solo il compito di reggere la vista di qualcosa che dalla vista non può esser trattenuto. Ai bambini tocca d’udire lo schianto, il boato. C’è sempre un albero pronto per fermare la corsa impazzita di un veicolo senza controllo. Viale del Lavoro è pieno di alberi e senza negozi. David scuote i bambini, li prende entrambi in braccio e riprende a camminare, girando subito l’angolo. Un centinaio di metri e sono a casa. Chiude la porta a chiave, libera il volto proprio e quello dei bambini, scoprendo le loro bocche. Il suono di un’ambulanza gonfia il silenzio della sera. Non lo dovete dire a nessuno, dice loro. No, continua, nemmeno a lei. Sono ormai otto giorni che non parlano con la madre e vogliono sapere quando tornerà, quando potranno vederla, sentirla parlare. Presto, risponde, senza sapere se dice il vero. Il telefono di casa squilla, perché la vita può esser strana, ma strana davvero.
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
scrittore in Milano, Mondo
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Rivista culturale on line
Sempre suggestivi, Tommaso, questi tuoi racconti, brevi e perfetti, sugli incroci del caso, sulle tragedie accidentali che capitano per un soffio. Tre vite chiuse nei loro drammi si incontrano e il gioco della Natura colpisce. Se ognuno di loro non avesse fatto quello “scarto”… Se, questa parola che ci accompagna, sempre. Ciao!
Grazie. Hai ben espresso quello che ho tentato di far emergere. Un gesto, anche minimo, un riflesso condizionato, una valutazione imprecisa e tutto può franare. Un saluto.