Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Diventare se stessi…

Tuttavia, Josef, voi sfuggite la mia domanda. La vostra vita l’avete vissuta? O ne siete stato vissuto? L’avete scelta? O ne siete stato scelto? L’avete amata? O vi è dispiaciuta? Ecco che cosa intendo dire quando vi chiedo se avete consumato la vostra vita. L’avete usata a fondo? Rammentate quel sogno in cui vostro padre se ne stava in piedi inerme a pregare mentre alla sua famiglia stava capitando qualcosa di disastroso? Non siete forse come lui? Non ve ne state lì in piedi inerme, a compiangere la vita che non avete mai vissuto?

Diventare se stessi, scegliere la propria vita, non cadere in preda alla disperazione in cui necessariamente versa un’esistenza inautentica, una vita che ha rinunciato a se stessa, al profondo desiderio che la anima. Questi, ridotti all’osso, sono i temi – ossia le domande – che attraversano Le lacrime di Nietzsche di Irvin D. Yalom. Come al solito non starò qui a tratteggiare la trama. Più interessante è constatare il senso dell’intreccio di tutti i personaggi del romanzo – tutti esistiti veramente e che mai si sono incontrati nelle loro reali biografie e che l’autore fa invece incontrare, andando, in qualche modo, a suggerire una storia alternativa della nascita della psicoanalisi, della parola come terapia. Non sarebbe più opera di S. Freud – in quest’opera presente come giovane medico che dalle antenne sensibilissime che già parla dell’esistenza dell’inconscio e dell’importanza dei sogni – la psicoanalisi sarebbe un parto della filosofia, del filosofo F. W. Nietzsche che, attraverso una dirompente visione dell’uomo e del mondo, conduce Josef Breuer, celebre medico viennese, a scontrarsi con la propria disperazione (o depressione o malinconia) fino a recuperare il proprio desiderio inconscio e a ristrutturare la propria comprensione di sé e del mondo che lo circonda.

Emicranie. Tormentose emicranie, anzitutto. E continui accessi di nausea. Oltre a un’incombente cecità: la sua vista va gradualmente deteriorandosi. E disturbi gastrici: a volte non riesce a mangiare per giorni e giorni…

Tutti veri, tutti realmente esistiti, i personaggi di questo romanzo non sono però reali. Sono, piuttosto, dei personaggi-idee, ognuno portatore di una visione del mondo o di un determinato conflitto psichico. Oltre a Breuer e Nietzsche – i due poli dell’intera vicenda – c’è un giovane Freud squattrinato, dalla prodigiosa memoria e acutezza intellettuale; c’è la terribile Lou Salomé, sensuale, giovane, consapevole del proprio fascino e irriducibilmente convinta di avere il diritto di soddisfare ogni propria intenzione, assetata di contatti con le menti più eminenti per accrescere se stessa. E poi c’è Anna O., al secolo Bertha Pappenheim, l’ossessione di Breuer, colei che lo aveva portato, lui all’apparenza medico integerrimo, sull’orlo del disastro matrimoniale, oltre che professionale – in parte, causa della rottura con Freud.

L’incontro tra Breuer e Nietzsche è l’incontro fra scienza e filosofia. È la perdita della propria ingenuità per la scienza di impronta positivista di fine Ottocento; è la possibilità, per la scienza medica del tempo, di lasciarsi contaminare dal dubbio, dalla volontà dissacrante che ispira il filosofare “col martello” di Nietzsche, la sua volontà d’esser “dinamite”; è apertura al gesto estremo, a livello intellettuale e scientifico, che porta a non ridurre i sintomi somatici a lesioni organiche. Ecco che i sintomi si caricano di senso e non sono più ingabbiati nella morsa di un determinismo asfissiante…

Improvvisamente Bertha si fermò. La gamba destra della giovane prese a contrarsi…la giovane si afferrò la coscia…alla panchina più vicina…stesa…come in trance…tenendo le braccia sopra il capo, inarcando la schiena e spingendo il seno verso l’alto…il cappotto si aprirà…vide la mano della giovane scivolare giù furtivamente a sbottonarlo…ecco lì! Sta piegando le ginocchia…l’abito scivola su…mutandine di seta rosa e vago profilo di un triangolo scuro…la contrattura alla gamba si è attenuata…la giovane cerca di camminare.

Josef Breuer è in un vicolo cieco, è l’immagine dell’uomo lì dove la spinta propulsiva che lo aveva tenuto in vita sembra improvvisamente essersi esaurita. È colui che non è più animato da veri obiettivi, colui che non sa godere di ciò che ha: del lavoro, della rispettabilità, della famiglia, dei figli, di una moglie ancora bella, delle ricchezze onestamente guadagnate. Breuer è un uomo straordinario nel suo esser prototipo del rischio che morde i talloni di qualsiasi uomo – vivere nel timore che tutto sia già dato una volta e per tutte, senza però trovare la forza per intraprendere qualcosa di nuovo: “Ah, essere capace di ricominciare da capo! Ma come?”.

Ma Breuer, medico eminente, si trova alle prese con un paziente diverso, sui generis, con l’ancora anonimo Nietzsche, con colui che scuoterà con le sue opere la già traballante coscienza europea annunciando il nichilismo, la morte di Dio, la necessità dell’Oltre-uomo (non si commetta l’errore di chiamarlo super-uomo). Ma come è possibile? Diventa possibile nel momento in cui i ruoli si invertono, nel momento in cui il medico smette di far domande e si siede su di una poltrona; nel momento in cui Breuer dice della propria angoscia, nel momento in cui emerge una consapevolezza: “il dovere che ha ciascuno nei confronti di se stesso di scoprire la verità”. Eccoci al cuore dell’intera vicenda – di cui qui non ho detto praticamente nulla: dissezionare a fondo i motivi del proprio agire, scorgere le ragioni del proprio tormento, osservare in filigrana i sintomi somatici e saperli-cogliere come segnali. Ecco qui che i ruoli si invertono e la scienza può far propria l’ispirazione più originaria della filosofia, che è sapere e terapia – terapia della verità e verità di ogni terapia. Non felicità a tutti i costi, ma ricerca di un’autenticità che non è inseguire ciò che si crede sia già dato, ma costruzione di sé, possibilità (contraddittoria) di divenir-se-stessi senza lasciarsi distrarre, senza indietreggiare rispetto a quanto preme per esser realizzato e coltivato. Qui psicoanalisi e filosofia si toccano: “dite qualsiasi cosa vi venga in mente” dice l’una; “vivere bene è prima di tutto volere ciò che è necessario e poi amare ciò che si è voluto”, risponde l’altra.

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Questa voce è stata pubblicata il giugno 13, 2020 da con tag , , , , , .

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