Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
In queste settimane di forzata cattività, fra le altre cose, ho ripreso il mio buon Rovesci (qui) che, a due anni dalla sua uscita, non perde – almeno ai miei occhi – il suo valore. Uno dei racconti che lo compongono si intitola Wendy, a suo tempo inconsapevolmente nato dall’aneddoto che mi era stato raccontato da un vecchio amico. Questo vecchio amico non è però un amico in generale, ma un compagno di viaggio in senso proprio. Da principio compagno di banco per tutto il liceo, poi di università e poi collega di lavoro, anche se in scuole diverse. Con il lavoro e la famiglia, questa sorta di cammino da tempo prosegue con un passo diverso, nuovo – fatto anche di distanze.
Dopo aver letto Rovesci, lui era la prima persona a cui ne avevo fatto dono, la prima cosa che mi aveva detto era che ne era stato ferito. Lui, che mi conosce bene e “da una vita” era riuscito a rintracciare – con antenne sensibilissime e memoria di ferro – tutti gli spunti che venivano dalla vita reale, dalla vita vissuta e, dunque, dalle esperienze offerte dalle nostre biografie. La ferita veniva dal suo considerare molte di quelle pagine come l’effetto di distorsioni e della mia tendenza a rendere tutto così grottesco. Non è l’unico a dirmi una cosa del genere, fra i pochissimi che sono a conoscenza di quel che tento di fare. Hanno tutti ragione. Il raccontare e offrire la cronaca di fatti sono due cose diverse. Vado avanti.
Fra le diverse considerazioni di questo vecchio amico – e fra una birra e l’altra, ormai più di un anno fa – mi tornano adesso in mente quelle su Wendy. Non ricordavo che fosse stato lui a raccontarmi l’aneddoto da cui ho preso spunto per questo racconto – in una scuola, degli studenti avevano portato una bambola gonfiabile, facendo un gran casino. L’ho riletto, il racconto, e mi è tornato in mente quello che mi ha detto, prima di bere l’ennesimo sorso di birra: “Ma come ti è venuta in mente tutta quella roba?”. La domanda, ovviamente, era di quelle che non prevedono risposta – sono domande-affermazioni, così come ce ne sono tante. Non è prevista risposta neppure adesso, a parte il fatto che era una scusa – la bambola gonfiabile, Wendy – per parlare di un certo senso di isolamento, di un distanziamento e di una lontananza da se stessi e dagli altri che, benché da un’altra prospettiva, non è poi così diversa dal presente…ne riporto le prime pagine. Buona lettura.
WENDY
Deve aver stretto troppo il nodo della cravatta, oppure ha bevuto già di primo mattino o, forse, è semplicemente così incazzato che il collo e le guance gli si sono fatte paonazze. Sta collassando, pensa Ivan Sperduto, quando il suo dirigente scolastico, imbalsamato oltre la scrivania, va per qualche secondo in apnea, improvvisamente incapace di portare avanti il suo lungo monologo su quel famigerato vuoto educativo che pare essere pietra angolare di ogni suo argomento.
L’ufficio di presidenza è grande. Ivan, anche se per ben altri motivi, era già stato lì dentro, e non era mai riuscito a capacitarsi di tutto quello spazio. Ci sono mensole cariche di trofei, scaffali pieni di libri, vecchie fotografie, lo stemma della scuola, un paio di bandiere flosce e, su tutto, una luce accecante che entra dal finestrone e che esalta il movimento continuo delle polvere di cui tutte le cose sono fatte. Polvere di cui è fatto il dirigente con tutti i suoi magnifici discorsi, di cui è composto il grande tappeto stile persiano su cui poggiano la grande scrivania e le pesanti e scomode sedie, e loro stessi. È una luce insopportabile che, insieme ad un improvviso ronzio alle orecchie, stanno facendo uscire Ivan Sperduto fuori di testa. Ma nessuno capisce, né si sforza veramente di farlo. Il preside gli intima di guardarlo negli occhi, mentre gli parla. Lo chiama per nome e cognome, gli dà del lei. Ivan cerca di collaborare, ma non è mica semplice. Vorrebbe tanto capire cosa c’era in quella cazzo di boccetta che gli avevano dato da sniffare. Quanto tempo sarà passato? Due, tre ore? E lui è ancora in quello stato? Gli arriva una gomitata al fianco sinistro e così tira su la testa e si volta verso la madre, che ha il volto tirato e si vede che sta facendo del suo meglio per essere all’altezza della situazione, del tailleur che indossa, della professione che quella mattina ha momentaneamente smesso di esercitare a causa del figlio, del cognome assai noto del dirigente scolastico, così come di quello del marito che non è lì solo perché è a dieci ore di aereo per rappresentare gli interessi di chissà chi presso chissà chi altro, chissà dove e in compagnia di chissà quale segretaria. Ivan fa di tutto per concentrarsi sul discorso, ma lo sguardo cade di continuo oltre la madre, per raggiungere Wendy. Sì, c’è anche lei. È provata da quanto le è accaduto nelle ultime ore. Ha la testa lievemente inclinata sulla destra e la guancia lucida di cipria poggiata sulla spalla nuda. È tutta rosea. Il sole violento di maggio le disegna una debole aura tutto intorno, esaltandone la bocca tutto rossetto aperta in muto stupore e gli occhi grandi grandi puntati sul dirigente che continua a straparlare. Anche lui sta facendo di tutto per impedirsi di guardarla, conciata com’è, mezza nuda. E a dire che non molto tempo prima proprio lui, il dirigente, se l’era vista oscillare fuori dalla finestra dell’ufficio, le enormi tette all’aria, calata giù con una corda dal piano di sopra. Solo a pensarci ad Ivan viene da ridere. Non può, cazzo, proprio non può. Sarebbe sconveniente, soprattutto adesso che il dirigente, nel vano tentativo di rendere più acuto un senso di colpa che lui non sente, sta passando in rassegna la sua carriera scolastica fatta di ogni tipo di riconoscimenti e successi. Ivan, però, non riesce a capire quale contraddizione dovrebbe esserci fra le sue formidabili doti nella traduzione dal greco e dal latino e lo sbattersi Wendy nei cessi di scuola. Ma insomma, non è proprio il momento di perdersi in queste cazzate, anche perché gli sta risalendo la botta, e questa volta c’è di mezzo pure un accenno di tachicardia. Respira lentamente, cercando di mantenere la calma. È un esercizio che fa spesso, ultimamente. Un attimo prima era nel petto, subito dopo se lo ritrova in gola e adesso gli batte direttamente nelle orecchie. Ma come cazzo fa? Riesce a soffocare il discorso del dirigente, che gli sta dicendo che potrebbe non essere ammesso agli esami di stato per motivi disciplinari. Anche le parole della madre, che solo adesso trova il coraggio per parlare, gli arrivano ovattate, lontanissime. Ivan sente che le cose non tornano, gli pare di essere bucato, di avere una perdita, di stare perdendo qualcosa di necessario per restare vigile, sveglio. Si volta verso la madre per cercare di capire cosa gli sta chiedendo, ma il suo sguardo va subito oltre la nuca di lei, per fermarsi sui capelli biondo platino di Wendy. Oh, Wendy.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)