Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
L’opera non è mai compiuta. Essa ci lascia nell’incompiuto, nel cui spazio muoriamo. Quel che ci rimane è solo la sua parte bianca, e non si tratta di utilizzarla, ma solo di tollerarla. Lì dobbiamo installarci. Accettare il vuoto, il nulla, il bianco. Tutto quel che creiamo è dietro do noi. Oggi io sono, di nuovo, in quel bianco: senza lingua, senza gesti, senza parole. Quel che ancora è da compiere si presenta volentieri come compiuto: il deserto, dove l’impotenza ci risospinge.
Riallacciandomi alla serie di post dedicati alla letteratura (qui), propongo una scelta di passi tratti da Il libro della sovversione non sospetta di Edmond Jabès. Consapevolmente lascio sullo sfondo tutta la trama di rimandi alla sfera religiosa, il continuo richiamo al sacro e alla dimensione del testo come testo rivelato. Ne faccio uso privatissimo e personale, di questi testi – quindi un uso distorto, tale da far inorridire il lettore attento.
Sovversivo è il foglio su cui la parola crede d’accamparsi; sovversiva è la parola attorno alla quale il foglio dispiega il suo bianco.
Con presa rozza e poca delicatezza si può dire che la letteratura è, fra le altre cose, il tentativo di mettere insieme segno e tabula, parola e silenzio; il tentativo di non rimanere schiacciati da tale conflitto, il cui esito è spesso – fortunatamente – cancellatura o balbettio. È dialettica della parola che si stende sul foglio, mirando all’essere, lei che è pura contingenza; e del foglio che rigetta la parola tutte le volte che si vuole e si crede autentica, pura, mentre spesso di troppo o fuori posto, condannata all’imprecisione.
Scrivi. E ignori tutti i conflitti che la penna solleva al suo passaggio: il libro è la posta in gioco di quei conflitti.
Il libro non è mai (solo) il precipitato di una idea, ma (principalmente) ciò che vive di conflitti, scelte, percorsi narrativi e stilistici che, di fatto, ne escludono altri – poiché ogni affermazione è una negazione, e viceversa. Dei molti libri in potenza, solo uno raggiunge l’attualità. Mentre gli altri sono andati definitivamente perduti, quello che resta, nato dal travaglio della scrittura, si presenta al mondo privo di ogni attestato di garanzia – l’unica cosa che può offrire è il suo essere stesso.
Credi di sognare un libro. Sei sognato da lui.
In un contesto in cui la scrittura è spesso ridotta a mera cronaca, a raccolta (ingenua) di presunti fatti in vista dell’ennesima denuncia, la letteratura deve rivendicare il proprio statuto: non più sottomessa a quanto viene reputato reale, essa deve – per quanto possa essere difficile affermarlo – rivendicare la propria autonomia rispetto al dato di fatto. Di conseguenza, lo scrittore non è più colui che sa quel che fa, ma colui che deve lavorare per comprendere quello che sta facendo. Una sorta di amor fati o, ancora, di libera necessità – tutto il resto è ingenuo realismo, niente più.
La disperazione dello scrittore non consiste nel non poter scrivere il libro, ma nell’esser costretto a proseguire indefinitivamente un libro che non è lui a scrivere…Cercare di scrivere vuol dire rifare daccapo, sul margine dello scritto, ma in senso inverso, il percorso seguito dal pensiero…Lo scrittore non abbandona il libro. Cresce e sprofonda ai suoi lati. Il primo tempo dello scrivere consiste nel raccogliere le pietre del libro crollato per edificare con esse un’opera nuova: la stessa di prima, non c’è dubbio. Di questo edificio lo scrittore è l’instancabile capomastro, e insieme l’architetto e il muratore.
La scrittura è, dunque, desiderio o sogno ricorrente, da rincorrere, da ripercorrere e da raccontare sempre e nuovamente. La letteratura è il tentativo di scrivere sempre e comunque il medesimo libro impossibile da scrivere; di avvicinarsi al Libro-modello di cui tutti i libri “reali” saranno sempre copie imperfette. Ogni libro in atto pretende di superare gli argini dell’accidentalità, ignorando (in cattiva coscienza) che ogni opera sarà necessariamente travolta dal tempo, dall’intima natura della parola scritta, che si aggrappa al foglio perché sa del suo effimero destino. Dalla visione del crollo di ogni libro scritto riprenderà il lavoro “instancabile” che inevitabilmente porterà ad un libro che, contemporaneamente, sarà diverso e identico.
L’atto dello scrivere sfida ogni distanza. Del resto, l’ambizione di ogni scrittore non è quella di elevare l’effimero, il profano, all’altezza del duraturo, del sacro? La scrittura, di opera in opera, è lo sforzo che i vocaboli compiono per estenuare il dire – l’istante – onde potersi rifugiare nell’indicibile. Il quale non è ciò che non può esser detto, ma proprio ciò che è stato detto in modo così intimo e totale che ormai dice solo questa intimità, questa totalità.
Sisifo instancabile, lo scrittore, nella scrittura, cerca di dare consistenza a ciò che vola via – la parola. Questo atto impossibile, sempre mancato, trova la sua unica possibilità nell’indicibile. Questo indicibile non riposa sul tentativo di dire quanto non può esser detto, ma è collocato, come ideale, in un dire di tale fattura da escludere la possibilità di esser ri-detto. È il carattere più proprio del verso, che per definizione non ammette alcun genere di traduzione, pena il perder il suo senso. Nel romanzo, nel racconto – questa ricerca è tutt’uno con lo stile. Lo stile è l’intraducibile del testo, la sua “sfida alla distanza”.
Non è lo scrittore che possiede la chiave del testo, e non la detiene neppure il testo così come s’offre alla lettura, ma ciò che non s’è lasciato rinchiudere nella parola. Non c’è dubbio che la chiave è questo vuoto che nel libro è denunciato da alcuni vocaboli, anch’essi portatori d’un’assenza immemoriale: mancanza nell’infinito della mancanza.
Forse è tempo di recuperare una letteratura che non pretenda di dir-qualcosa a tutti i costi; di depotenziare l’autore dalle idee chiare e granitiche che riempie pagine e pagine ergendosi a garante e custode del senso, unico possessore della chiave di lettura. Questa buona-cattiva letteratura tutta messaggi e prese di posizioni cade nella contraddizione e nel claustrofobico, nei casi migliori – altrimenti emana odore di insopportabile paternalismo. Senza falle e punti di fuga, uno scritto del genere è come una stanza senza porte, né finestre: saturo e ben curato può offrire solo storie per lettori curiosi e amanti di finali inaspettati. Eppure sono molti gli esempi utili per costruire un diverso approccio. Testi non didascalici, privi di spiegazioni e sentieri già tracciati; testi da seguire, perché qualcosa dovrà pur esser compreso, ma lungo sequenze di non-informazioni e per mezzo di molte e coerenti reticenze, grazie ai ripetuti non detti e ai balbettii e alle inevitabili interferenze che celano il senso.
S’è fatto presto, diceva, a confondere le parole ossessive con le parole-chiave. La parola-chiave non è necessariamente una parola ossessiva. Anzi, spesso è una parola inosservata, insospettata…Non c’è ossessione per la chiave, ma per la sua perdita…Non la si può riconoscere, di colpo, poiché in genere opera in segreto; ma il suo gesto è fatto di luce.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Mah!…
Penso che siano tanti i motivi che spingano un tizio a scrivere. Motivi interni propri di un autore ma anche pressioni contingenti esterne. Non ultimi, propositi non proprio idealistici, del genere ricavarci dei guadagni. Vedi Raymond Chandler, che ha comunque prodotto degli stimabili lavori.
Mi fanno un p; paura le analisi tipo queste di EJ, perch[ non mi meraviglierei che finisse come quel millepiedi che camminava benissimo fino al giorno in cui ha incominciato domandarsi quel fosse il piede che muoveva per primo e quale il secondo eccetera e cos= fin= bloccato.
Alla prossima, Tommaso, ciao!
Chiedo scusa, ma ho la tastiera che risponde a modo suo per cui schiaccio un lettera e mi esce un segno non richiesto.
Che pazienza occorre! Ogni giorno, ne esce una nuova!
È vero. EJ fa giustamente paura e genera diffidenza. Colloca la produzione letteraria in un campo scivoloso, a tratti mistico – e il mistico, si sa, vede cose per cui non può fornire prova o spiegazione, col rischio di farsi millepiedi o, chissà cosa è peggio, parlar da solo.
Esatto, pensa che lo stavo per scrivere “mistico”, ma mi sono trattenuto, non so perchè… tu l’hai usato calzante e perfetto e anche spiegato… 🙂
A presto.