Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Le cose stupide accadono, ed è strano pensare o convincersi che non debbano accadere. Non bisogna sorprendersi tanto, quando accadono, dato che tutte le cose, in quanto sono, sono fatte proprio per accadere. Se ne possono sentire ogni giorno di nuove, volendo. Basterebbe rendersi disponibili all’ascolto, trattenersi in piazza, al supermercato, alla fermata di un autobus. Ce ne sono un’infinità, di cose assurde – e accadono tutte, accadono davvero. Questa, ad esempio, è successa proprio in piazza del Mercato, sul pianerottolo, al terzo piano di un bel palazzo in cortina che ospita un negozio di arredamenti di pregio con le sue cinque grandi vetrine che affacciano su cucine, soggiorni, camerette e strani oggetti ermeticamente chiusi in loro stessi, incuranti degli sguardi indagatori delle persone che ogni giorno avanzano una nuova ipotesi sul loro possibile uso.
In quel palazzo, costruito alla fine degli anni settanta e fatto di appartamenti di centoventi metri quadrati netti e balconi terrazzati, lo scorso sabato mattina, Nicolò sedeva beatamente sul suo divano. Aveva appena finito di sparecchiare la tavola, in soggiorno, e se ne stava vestito con i pantaloni della tuta e un vecchio maglione bianco ancora morbido in cui si sentiva decisamente a proprio agio. Dopo giorni di pioggia, il sole era tornato a splendere e filtrava dai vetri della porta-finestra. I suoi tre figli, rispettivamente di tre, cinque e nove anni, erano a casa dei nonni, mentre Ambra, la moglie, poltriva sull’altro divano, quasi invisibile sotto una grande coperta di pile, lottando contro il congelamento che come sempre la assaliva dopo pranzo, nel bel mezzo della digestione di due porzioni di risotto con radicchio e gorgonzola e un grande carciofo. Nicolò, a dispetto dei suoi quarantaquattro anni se ne stava a gambe incrociate sul divano. Leggeva, mentre il telegiornale andava avanti, senza soluzione di continuità, a basso volume. Se lo stava godendo, quel primo pomeriggio, mentre il sole filtrava dai vetri, scaldandolo. A tratti alzava lo sguardo dalla pagine e indugiava su Ambra, pensando che verso le tre e mezza, si sarebbe alzato dal divano per andare da lei e infilarsi anche lui sotto la coperta a scacchi ormai intrisa del suo odore. Avrebbero avuto tutto il tempo per stare insieme, fare una chiacchierata e poi accogliere i bambini, che sarebbero tornati a casa verso le sei.
La gente del quartiere non sa nulla di tutto questo, ovviamente, e mentre parla insiste sui fatti. Verso le due e mezza del pomeriggio, dal terzo piano, nell’appartamento subito sopra a quello di Nicolò, una vecchietta di cui nessuno ricorda il nome, aveva iniziato a sbattere qualcosa contro la ringhiera, probabilmente un tappeto. La polvere, dall’alto, aveva iniziato a calare sui panni stesi subito sotto. Per un istante, certo che sì, Nicolò era rimasto incantato dal vorticoso luccichio della sporcizia illuminata dal sole. Era uno spettacolo mica male, ma era stato giusto un attimo, perché subito Nicolò era scattato in piedi ed era uscito fuori, nell’aria fredda del rigido inverno, e con gli occhi investiti da polvere mista a briciole e chissà che altro, aveva urlato alla signora del piano di sopra di smetterla. Non aveva avuto il tempo di addolcire il tono della voce, che la vecchia era scomparsa, portandosi via il tappetino che stava pulendo sui panni freschi di lavatrice stesi sui fili. Nicolò aveva tolto qualcosa di grosso e nero che era rimasto appiccicato sulle mutande di Davide, il più piccolo dei suoi figli.
Siediti, gli aveva detto Ambra, senza neppure aprire gli occhi, muovendo appena le labbra. Tranquilla, aveva risposto lui, infilandosi le scarpe. Che ne sapeva, la gente, della carezza sui capelli della moglie. Nessuno sa, né dice nulla del sorriso di Nicolò, mentre percorre il lungo a ampio corridoio a L dalle pareti foderate di librerie tutte scaffali carichi di carta. Nessuno lo aveva visto mentre saliva, lento e silenzioso, le scale che lo portavano al piano di sopra. Nessuno, dio santo, nessuno, lo aveva visto mentre con l’indice suonava il campanello dell’interno 11. Suonava e suonava. Suonava e chiamava, lieve, Signora. Sono l’inquilino del piano di sotto. Vorrei dirle una cosa. Solo dopo un po’ una lucetta aveva illuminato lo spioncino della vecchia porta blindata e lui l’aveva vista, So che è lì dietro, signora Verde, aveva detto, dopo aver letto il cognome sulla targhetta opaca e in più punti, ai bordi, mangiata dal tempo. Il debole punto luminoso era subito svanito. Nicolò aveva suonato ancora un paio di volte e aspettato ancora un minuto, forse due, quindi si era aperta la porta dell’interno 13, proprio alle sue spalle, e ne era venuta fuori un’altra donna, anche questa anziana, che gli aveva sorriso, Non apre a nessuno. Da qui in poi, invece, tutti sanno tutto. Tutti sanno che Nicolò, sereno e cordiale, si era voltato verso la donna per spiegarle cosa stesse accadendo. Voleva dirle che aveva intenzione di chiedere alla signora dell’interno 11 di fare un poco di attenzione e cose del genere, ma né lui, né la vecchietta dell’interno 13, che evidentemente non aveva buoni occhi, si erano accorti che la signora Verde aveva aperto la porta senza fare il minimo rumore e, praticamente invisibile alla vecchietta dell’interno 13, nascosta dalla figura di Nicolò, gli aveva affondato un coltello da cucina nel fianco, o, più propriamente, a metà strada tra il fianco e il gluteo sinistro, dato che la vecchietta era mancina. Fra le altre cose, la signora Verde aveva definitivamente compromesso l’integrità di quel vecchio maglione cui Nicolò era tanto affezionato.
Stupido finale per una storia senza senso, talmente stupida da prevedere un paio di urla per le scale. Per il resto, un po’ di curiosità, certo, ma niente a che vedere con veri colpi di scena; nessun mondo era andato in frantumi; non c’erano stati bambini che rimanevano traumatizzati o una vedova senza paracadute. Giusto un’ambulanza e un vago stupore condominiale nel vedere un po’ di trambusto fatto di barelle e uomini in divisa. Sì, le persone ne parlano; proprio adesso ne stanno parlando in piazza del Mercato. Ma chi? Il professore? Accoltellato? E cose del genere, No, macché morto. È già a casa. E cose del genere. Solo questo dicono e sanno, niente di più. E così come non sapevano nulla di quanto era accaduto prima, allo stesso modo non sanno nulla di quanto sta accadendo adesso, a cose fatte. Non sanno nulla di Nicolò, steso al centro del suo letto matrimoniale, con i bambini che gli giocano intorno. E non sanno nulla di Ambra che vorrebbe farli uscire dalla camera da letto, mentre lui dice di no, perché in realtà li vuole vicini dato che lo agita la paura nuova, di cui non aveva mai avuto sentore prima. Questo timore è nuovo, per lui, perché è lo stupido risultato di una storia che manca di vero inizio, di credibile svolgimento e dunque indegno di vera fine; è il prodotto di una vicenda priva di razionalità, in cui l’inizio e la fine praticamente coincidono. Forse è per questo che oggi molti nel quartiere ne parlano, perché questa storia è pura casualità che si fa vita vera.
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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
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