Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Leggendo e scartabellando qua e là, mi sono per caso imbattuto in uno stralcio tratto dal Manuale del perfetto scrittore di racconti dello scrittore uruguaiano Horacio Quiroga. Non tanto un saggio, quanto un manifesto, a dire il vero, risalente al 1925 e pubblicato sulla rivista “El Hogar”. Sono poche righe, densissime, da cui emerge una idea di cosa sia letteratura e di come debba esser scritto un buon racconto, forma di espressione che non sempre ha goduto di grande fortuna nel nostro paese, ma che ultimamente – per motivi molteplici e, credo, legati alle nuove forme di comunicazione, nonché ad una inesorabile contrazione della disponibilità, da parte dei lettori forti, di dare vera e incondizionata disponibilità a testi che richiedono molto tempo – ma insomma, come dicevo, la forma racconto sta godendo di buona salute e io – ma questo conta decisamente meno – non posso che partecipare con entusiasmo a questo fenomeno, dato che da sempre sono un cultore e appassionato di racconti.
Si parla, nelle pagine di Horacio Quiroga, della relazione che uno scrittore deve intrattenere con i grandi maestri e dunque della lettura, dello studio e della disponibilità a lasciarsi influenzare. Per come la intendo io, questa influenza deve essere intesa come un ammalarsi di un/a causa di uno scrittore, di un maestro. Fenomeno che avviene, punto e basta, senza che lo scrittore possa scegliere, così come chi si prende l’influenza non sceglie dove, come e da chi prenderla. Accade. Ma si richiama anche la capacità di trovare una propria voce, sostenendo che tale arte deve essere, al tempo stesso, pensata come inaccessibile e raggiunta per mezzo dello sforzo. Mi permetto di forzare il testo: il libro, il vero libro, quello che si vorrebbe scrivere (e che il lettore vorrebbe leggere) è sempre il prossimo, mentre quello effettivamente scritto (o letto) è sempre e solo un libro, necessariamente mancato, poiché l’idea di libro – sulla scorta dell’idealismo platonico – è sempre un ideale, sempre irraggiungibile (illeggibile, nel senso di impossibile da leggere), sempre metro di giudizio del singolo libro, che sarà copia imperfetta. È per questo che ogni vero scrittore deve scrivere un nuovo libro e il vero lettore apprestarsi a leggere un libro ancora. È per questo che lo scrittore deve guarire dall’influenza di cui si diceva più sopra e che ogni buon libro è come un viso o una personalità – e dunque unico, irripetibile, inimitabile e perfettamente riconoscibile – è quanto io definisco stile. Non trovo termine migliore, seppure abusato. E c’è poi il classico dei classici e cioè l’invito a non mollare, così come non perdere tempo coltivando passioni moderate – in questi casi il fallimento sarà immediato o al più rimandabile, ma inevitabile – è la sorte che tocca a chi cerca visibilità, a chi prende le mosse da sé e non dall’opera, dal voler essere conosciuto, piuttosto che letto, la sorte di chi non è mosso da quel particolarissimo desiderio che non si consuma bruciando (ne ho scritto in un post intitolato La vocazione per l’arte ai tempi di internet). Un racconto deve avere una sua logica interna, una logica che sia ferrea e ben presente fin dal principio; deve essere presente, in potenza, come legge del suo svolgimento capace di portare coerentemente al suo esito, o atto, come giusto compimento. Ogni buon lavoro di letteratura denota un profondo rispetto per la lingua. È consapevolezza della difficoltà del fine, è il trattar con rispetto la lingua. E insomma, nello scrivere sarà necessario mettere fra parentesi il mondo, poiché il mondo, nella scrittura, è la scrittura stessa – perché si sa, il linguaggio non rimanda alle cose, ma al linguaggio stesso – questa è la suprema, sempre ideale, autonomia dell’arte, il suo non esser al servizio della giustizia, della verità o di cose del genere, ma solo del mondo che sulla pagina prende forma e nasce e, forse, resiste alla morte che invece coglie e devasta tutte le cose di questo mondo che si usa definire reale, ma che forse tanto reale non è…ma adesso è meglio lasciare spazio alle parole di Horacio Quiroga.
I. Credi nel maestro – Poe, Maupassant, Kipling, Cechov – come in Dio stesso; II. Pensa alla tua arte come a una vetta inaccessibile. Non sognare di dominarla. Quando potrai farlo, ci riuscirai, senza neanche accorgertene; III. Resisti quanto puoi all’imitazione, ma imita, se l’influsso è troppo forte. Più di qualsiasi altra cosa, lo sviluppo della personalità è una scienza; IV. Abbi cieca fede non nella tua capacità di trionfo, ma nell’ardore con cui lo desideri. Ama la tua arte come la tua ragazza, con tutto il cuore; V. Non iniziare a scrivere senza sapere fin dalla prima parola dove andrai a finire. In un racconto ben fatto, le prime tre righe hanno quasi la stessa importanza delle tre ultime; VI. Se vuoi esprimere con esattezza questa circostanza: “dal fiume soffiava un vero freddo”, non esistono in nessuna lingua al mondo, per esprimerla, più parole di quelle annotate. Una volta padrone delle parole, non ti preoccupare se siano consonanti o assonanti; VII. Non aggettivare senza necessità. Inutili saranno tutti gli strascichi che tu aggiunga a un sostantivo debole. Se troverai quello preciso, esso, da solo, avrà un calore incomparabile. Ma bisogna trovarlo; VIII. Prendi i personaggi per mano e conducili con fermezza fino alla fine, senza badare ad altro che al cammino che gli hai tracciato. Non ti distrarre vedendo ciò che essi non possono o non sono interessati a vedere. Non abusare del lettore. Un racconto è un romanzo depurato di pleonasmi. Abbi questa verità per assoluta, quantunque non lo sia; XI. Non scrivere sotto il dominio dell’emozione. Lasciala morire, e quindi evocala. Sa sarai capace, allora, di riviverla come fu, sarai a metà strada del cammino dell’arte; X. Non pensare agli amici quando scrivi, né all’impressione che farà la tua storia. Racconta come se la narrazione non avesse interesse che per il circoscritto ambiente dei tuoi personaggi, uno dei quali avresti potuto essere tu. Non altrimenti si ottiene la vita nel racconto.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
È vero che la forma del racconto era disdegnata dagli editori mentre in realtà emergeva un’aspettativa da buona parte dei lettori. Io stesso lo notavo, stupito, commentando con gli amici, che con me condividevano l’interesse.
Quanto alle regole di Quiroga, sono tutte valide e vere, suppongo che non ci sia scrittore che non le abbia vissute, punto per punto. Ma sono utili a consuntivo, perchè se uno pensa di adottarle a priori, hai voglia! Ci sarebbe una contraddizione in termini.
La riprova sono i numerosi lavori analoghi – Heminway, Carver, Vonnegut … – e tutti nati dopo una vita di esperienze sul campo.
In ogni caso – è una materia tanto fluida, sfuggente proprio perchè personale, e sopratutto – soggetta a momenti storici e anche a mode. Difficile da catturare in punti fermi inamovibili.
Come tutto ciò che connesso all’umano.
Facciamo parte di un Universo, e l’Universo è in eterno movimento. Unica certezza. Questa sì indiscutibile.
E infatti, più che regole da seguire per scrivere, sono il condensato, a posteriori, dello scrivere stesso – non è la scrittura a fondarsi su regole, ma il contrario: è per mezzo della scrittura che vengono istituite delle regole. Altrimenti vi sarebbe un metodo precostituito semplicemente da adottare, ma l’arte non è la scienza. Di conseguenza, questi punti o precetti non possono che essere fluidi e soggetti al tempo, ossia allo “spirito” del tempo – però se ne può godere e beneficiare – con la giusta moderazione.