Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Che poi, per te, non cambierà proprio nulla, capisci? Puoi pure startene qui a parlare da solo, ma no, questa chiamata mica cambierà molto della tua situazione. È quasi un’ora che parli da solo, nella tua testa, fissando il telefono che hai a malapena il coraggio di toccare. Hai le mani sudate e i dolori allo stomaco. Roba di poco conto visto quello che solitamente ti affligge, no? Ma che la chiami a fare, quella, dopo la figura da stronzo di stamattina, prima di scappare terrorizzato dai bagni delle femmine, a scuola? Non aver paura di ripensarci, però. Lascia perdere il telefono e chiudi gli occhi, respira e guarda, anzi, guardati. Eccole, le senti? Sono esattamente le parole che stamattina letteralmente si frantumavano non appena si affacciavano alle tue labbra, sull’estremo limite del tuo corpo, prese dalla vertigine del mondo. Tremavi tutto e non riuscivi a tenere a bada le palpebre e gli zigomi. E tu eri lì e dentro di te ti dicevi, Stai buono, cazzo, che sembri un pazzo. Ma è durato giusto un attimo, questo tuo tentativo di non naufragare, perché poi più nulla, luce spenta, fine di ogni mediazione e il tuo volto, che già non controllavi più, potevi ormai vederlo solo di traverso, perché già non era più tuo. Ti guardavi con la coda dell’occhio, spaventato dal tuo stesso volto vagamente riflesso dalla parete di mattonelle azzurrine. Ed era come il piano di un flipper, tutto scomposto e tempestato di tic. Eri letteralmente in tilt e lei era lì e ti guardava con gli occhi sgranati, come a dire, Ma questo è un vero coglione e, poi, Ma perché mi sono cacciata in una situazione del genere? E tu lì, bizzarro e consapevole, uno strano animale ferito, caduto rovinosamente dalle altezze siderali su cui sono soliti collocarti tutti quelli che non ti conoscono veramente, che non ti hanno mai guardato negli occhi. Cadevi stamattina, precipitavi a terra, lì dove meriti di stare, e perire.
Lascia perdere il telefono e non aprire gli occhi, non ancora, almeno. Rimani ancorato a questa mattina, al tuo tornare in classe barcollando e, sempre in testa, perché solo in testa puoi ancora fingere di saper fare o dire o pensare qualcosa perché poi, qui fuori, nel mondo – sempre che per te esista veramente – tu non è che te la cavi poi così bene…e insomma, per il corridoio, ti prendevi – ero io a farlo, a dirla tutta – insomma…ti prendevi per il culo da solo e mamma mia come eri severo, con te stesso, quasi feroce. Faccia da cazzo, ti dicevi, ti dicevo stamattina. Le fai scappare le donne, tu, se permetti loro di andare oltre i tuoi bei lineamenti fini; la fai scappare e ridere di te, una donna, tu, se ti azzardi ad abortire un discorso, che pari un mentecatto, uno spostato, un matto fallito di merda, tu che grondi un-nessuno-sa-bene-cosa, che emani un-non-si-sa-bene-che e che però, nei fatti, sei solo un povero stronzo. Contano i fatti, amico mio, solo i fatti contano.
E adesso vuoi chiamarla per cosa? Dittelo, stronzetto, tu hai paura persino di un telefono. Hai paura di rispondere presente all’appello, in classe, perché nemmeno tu sai veramente come cazzo ti chiami e perché non sei veramente sicuro di essere degno di avere anche solo un nome proprio, come tutti gli altri. Perché tu parli solo se ci sei tu stesso e tu solo ad ascoltare, poiché sei, in realtà, sordo e muto, oltre che mezzo uomo e niente più.
Scappa coniglio, scappa. Che c’è? Brucia il telefono? Ti hanno forse mangiato la lingua? Hai qualcosa fra le cosce? No, ma sulle mutande sì, dato che sei un cacasotto. E poi la paura, grondi paura. Puzzi. Ti fa male il pancino all’idea di parlare con una donna in carne e ossa, eh? Fai lo stronzetto solo finché cammini da solo, lo sguardo a terra, perché sai che fino a lì rischi poco, vero? E fai pure la tua bella figura, eh? Lo sai quello che dicono le donne, vero? Quelle reali. Ti piace che se ne stanno lì a guardare e a pensare tutte quelle cose di te, vero? E quando te ne trovi una vera davanti? Nemmeno riesci a guardarla, figurati parlare. Quanti anni sono che hai disimparato a parlare? Nemmeno tu lo ricordi, tanto sei vigliacco, tu che pretendi di avere una mente brillante, ma non sai mettere una parola davanti l’altra e la tua testa è un colabrodo. Tu che sai tutto solo fra le quattro mura della tua stanza, tu che, appena sei costretto ad uscirne, fai la figura di quel coglione che in fondo sei. E non conta un cazzo se sei andato a leggerti come funziona il sistema simpatico, se hai racimolato qualche nozione sull’attività elettrodermica, le ghiandole sudoripare e puoi addirittura scriverci sopra un trattatello da quattro soldi, magari mettendoci dentro quei dolori allo stomaco forieri d’angoscia che repentini salgono su fino alla gola e ti serrano i denti e bloccano ogni vero agire – non serve a nulla perché nel mondo non ci sono manuali dietro cui puoi andare a nasconderti, ma solo un mucchio di gente pronta a sputarti in faccia, gente che non vede l’ora di romperti il culo, teste di cazzo che hanno fiuto, che sentono l’odore del sangue e della paura che fa fremere la tua parola incerta, che rende vorticoso il tuo discorso, ottusa la tua mente.
Non chiamare. Lascia stare. Perché devi renderti ancor più ridicolo? Lascia di lato il telefono e riprendi i tuoi esercizi per cercare di sembrare, in futuro, un po’ meno uno sciroccato. Non sei ancora stanco delle persone che fingono di ascoltarti come se nulla di sbagliato procedesse da te e fosse in te? Perché tu lo sai, vero, che i tuoi discorsi sono come il gesso che stride sulla lavagna, eh? Mica farai finta di dimenticartene? Sei insopportabile, fastidioso, grottesco, metti in difficoltà chi ti si avvicina. Mica pretenderai che il mondo possa fermarsi solo per te, no? Sono anni che tua madre ti si rivolge come tu fossi un ritardato, cazzo, eppure ti hanno fatto fare certi test di intelligenza che hanno messo in difficoltà gli esaminatori, tanto i tuoi risultati erano esorbitanti. Possibile che con questa montagna di merda su cui sei seduto, tu te ne stia ancora qui a fissare il cordless, come se ci fosse ancora qualcosa da salvare o da dimostrare?
Hai il discorso pronto e il numero di quella ragazza già digitato lampeggia sul display verdognolo, ma hai pure le mutande sporche perché, in fondo, non sei altro che un cacasotto. Ti hanno fatto fare di tutto in passato. Hai collezionato figure da coglione in tutti i municipi della città, fingendo di chiedere informazioni alle poste o a qualche passante, andando a fare la spesa senza la lista scritta su di un foglio, citofonando nelle case sbagliate. Pochi risultati. Oh, oh, adesso chiami veramente. Fingi di essere un uomo? Ascoltami, ora sì che ne combinerai un’altra delle tue, ragazzo. Ecco, squilla. Stai sudando, eh? Squilla ancora. Hai già male al pancino, a quanto vedo. Oh, il quarto squillo si blocca sul più bello. Hanno risposto proprio ora e tu non ricordi già più nulla del discorso che avevi preparato ed infiocchettato. Hai le labbra umide. Pronto? Va bene, adesso non fare così, ragazzo. Torna ragazzo, torna in te, su, lo sai come sono fatto, non pensavo veramente tutte quelle cose. Su rispondi, cioè sì, le penso, ma anche non le penso, non veramente, non con tutto me stesso. Se così fosse tu non ci saresti. Chi è? Su, adesso basta, parla – la forza l’ha chi non può permettersi di non averla…
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Bellissimo pezzo, Tommaso. Hai reso molto bene, direi in modo convincente, lo stato d’animo di questo ragazzo, che con queste sue insicurezze, del tutto legittime e naturali, vista e considerata l’età, fa pure tenerezza. È invece più triste quando si incontrano maschi adulti in queste condizioni, incapaci di instaurare (e coltivare nel tempo) un rapporto empatico con l’altro sesso. Uomini che magari hanno già superato lo scoglio degli anta, e che se non fanno uno sforzo in più per sbrigliarsi, per superare quell’orgoglio che genera impaccio e viceversa, con l’avanzare dell’età rischiano di diventare acidi, intrattabili, condannati a una solitudine forse non voluta ma in fondo cercata. Mi riferisco in particolare ai casi in cui manca, alla base, una sana e fondamentale autocritica (la colpa è sempre dell’altro, delle circostanze, del destino o di dio). Ben diversa la situazione del tuo giovane personaggio, che oltre a rendersi conto dei propri limiti (già un bel traguardo, che ce lo rende senz’altro simpatico) innesca una lotta con se stesso nel tentativo di superarli, e comunque di tempo ne ha ancora parecchio davanti a sé per acquistare ulteriore coraggio e per correggere, all’occorrenza, il tiro.
Grazie per il tuo apprezzamento, Alessandra. Mi piace, su tutto, lì dove contrapponi il giovane e l’adulto, chi deve ancora tentare e chi ha rinunciato al cambiamento. Ti riporto un passo che proprio adesso rileggo da L’essere e il nulla di Sartre, mentre cerco di rilassarmi nella stanzetta di un piccolo hotel di Firenze in cui sono venuto a cacciarmi proprio per rilanciare la mia silenziosa e alquanto bizzarra, ma determinata fuga dalla trappola che ognuno di noi sempre rischia di essere per se stesso: “…potevo io fare diversamente senza modificare sensibilmente la totalità organica dei progetti che io sono? In altre parole: avrei potuto fare diversamente, senz’altro, ma a quale prezzo? Al prezzo di una trasformazione radicale del mio essere-nel-mondo”. Un saluto.
È vero, la trappola ce la creiamo noi stessi. Anche perché non sempre è un vantaggio quello di cambiare idea, fare una svolta drastica, tentare un salto nel buio, a volte può rivelarsi controproducente. E quindi spesso esitiamo, rimandiamo, anche se non siamo soddisfatti della condizione attuale. Il cambiamento, come dici, impone quasi sempre una radicale trasformazione del proprio modo di essere nel mondo (idee, progetti, stile di vita), e questo fa paura. Molta paura. Tuttavia, per quanto ci sforziamo di fare bene i conti, non ci sarà mai concesso di sapere in anticipo gli eventuali sviluppi di certe nostre azioni, e quindi per conoscerli dobbiamo per forza esporci, metterci in gioco. Anche con l’eventualità di sbagliare, di farci male. Altrimenti si rischia di sopravvivere, ma non di vivere. Ciao Tommaso, un abbraccio.