Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Perché poi in via generale i popoli e le nazioni – e questo invero anche in tempo di pace – si disprezzino, si odino, si detestino l’un l’altro, è un vero mistero. A questo proposito io non so proprio cosa dire. È veramente come se, per il solo fatto che una moltitudine, o milioni di uomini, si riuniscono, tutte le acquisizioni morali dei singoli si annullassero, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi.
Quelli della guerra, della violenza e, in generale, dell’aggressività sono temi che qui spesso ricorrono. Ho tentato di dire qualcosa di queste tematiche a partire da come si presentano in letteratura con (ma sono solo le prime cose che mi vengono in mente) La forma delle cose di Truman Capote (qui), passando per James Ballard (qui) e Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut (qui). Di recente ho scritto cose che hanno a che fare non direttamente con la guerra, ma con quanto in essa è presupposto, e cioè la disponibilità alla violenza e all’aggressione. Tali elementi sono emersi, fra le altre cose, come analisi della violenza ideologica a proposito della scorsa edizione del Salone del libro (qui), come violenza verbale di una madre (qui) e poi, ancora, come provocazione in vista di una consapevole rinuncia alla violenza per sposare una buona aggressività, di tipo assertivo (qui). Insomma, è un tema che inevitabilmente ritorna, rispondendo a una esigenza che matura a partire dal livello di scontro proprio della “fase” in cui siamo immersi, ma, anche, perché parte integrante dell’umano in quanto tale. Tempo fa (in tempi davvero non-sospetti, mi verrebbe da aggiungere) queste considerazioni avevano preso forma di una scaletta tracciata di fretta su di uno dei miei tanti fogli volanti – l’intenzione di fondo era di poter fare ordine sul tema e magari vedere in quali e quanti modi se ne poteva fare letteratura. La cosa è però rimasta allo stadio di intenzione. Poi, qualche settimana, fa mi sono ritrovato a leggere su Asterismi letterari uno splendido post in cui, fra le molte altre suggestioni, venivano messe insieme le considerazioni che emergono da Un terribile amore per la guerra di James Hillman e il successo planetario di Trono di spade (il post lo potete leggere da QUI). Di norma è assai difficile che io mi lasci influenzare – atteggiamento bizzarro, il mio, poiché solitamente le persone che non hanno idee chiare e vera autonomia di pensiero tendono, senza troppi scrupoli, a far proprie idee e sollecitazioni altrui, mentre io, al contrario, sono irresistibilmente portato a ridurre al minimo le influenze esterne. Questa volta, pero, non ho resistito e non solo mi sono immediatamente procurato il saggio di Hillman, ma, in più, mi sono deciso di riprendere quel foglietto pieno di appunti e titoli e fare qualcosa di quell’idea, vedendo come si potesse arrivare, per mezzo di una serie di post, a una riflessione di ordine generale sul tema guerra-violenza-aggressività. Per far questo ho deciso di prendere le mosse non da Hillman, ma da Freud e dalle sue Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. Questa scelta non deriva semplicemente dal fatto che le Considerazioni siano un riferimento imprescindibile, ma anche perché Freud è la prospettiva, l’occhio attraverso cui avevo dato lettura del racconto di Capote, in parte passato al setaccio grazie al Promemoria sul trattamento elettrico dei nevrotici di guerra del padre della psicoanalisi. Fra le altre cose, proprio lo scorso 23 settembre ricorrevano gli 80 anni dalla morte del padre della psicoanalisi, di cui ho intenzione, prestissimo, di offrire una ricognizione sulla vita attraverso alcune biografie a lui dedicate. Torno al tema: verranno proposte analisi “rubate” dai campi più diversi nella speranza di poterne cavare fuori, alla fine, qualcosa di non troppo banale, né di campato in aria, sulla natura del conflitto e vedere come la letteratura possa renderne conto senza ridursi a mera cronaca di fatti messi insieme con lo sputo di una storiella di contorno. Sia chiaro, le cronache sono fondamentali, ma la letteratura è sogno e la guerra è uno dei suoi incubi ricorrenti – e come tale andrebbe narrata. Si pensi a Louis-Ferdinand Céline, giusto per offrire un nome facile. Tutto decisamente ambizioso, certo, ma è dichiarato in premessa che qui tutto questo verrà trattato secondo i (pochi) mezzi che si hanno a disposizione. E chi, in fondo, si arrischierebbe a millantare una presa sicura su ciò che è al tempo stesso originario e attuale e, dunque, necessario? Ma visto che il conflitto è, forse, il tema dominante del presente, allora sarà un bene puntare le antenne su questo tema e riconoscerne le molteplici forme e trasformazioni in ambito economico, religioso, civile. Bisogna riconoscerlo anche lì dove sembra assente. Viene in mente un passo di Thomas Hobbes, nel Leviatano, dove sta scritto che lo stato di guerra non è necessariamente la guerra aperta, dichiarata e intrapresa…
…la guerra non consiste soltanto in una battaglia o in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere. Infatti come la natura di una burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nell’inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico…
Le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte di Sigmund Freud risalgono al 1915, ossia al secondo anno dall’inizio del primo conflitto mondiale. È un testo imprescindibile per comprendere non solo il vero e proprio trauma che questo evento ha prodotto nella coscienza europea dall’epoca, ma soprattutto perché offre una prospettiva – a dire il vero per nulla rassicurante – sulla natura dell’aggressività umana. La prima e più evidente conseguenza che la guerra può produrre è un’ondata di ipocrisia e violenza che investe non solo l’uomo comune, ma anche gli uomini di scienza, oltre che, ovviamente, gli uomini di Stato. Questa guerra, la guerra in generale, ha il potere di distorcere il normale funzionamento di tutti gli ambiti della vita culturale, che vengono piegati alle esigenze del conflitto. Esempio lampante ne è la ricerca scientifica, che perde la propria autonomia e che quasi senza remore si pone al servizio della tecnica per la creazione di nuove e sempre più evolute armi per distruggere il nemico. Ma non sono da meno le scienze rivolte all’uomo, basti pensare agli studi di antropologia, in questo periodo tutti tesi a formulare bizzarre teorie – che avranno quella funesta fortuna che si materializzerà con l’ascesa dei totalitarismi del Novecento – per screditare e disumanizzare il nemico, giustificando la volontà di distruggerlo. L’uomo comune, da parte sua, è smarrito, incapace di leggere il suo tempo, la vita e, di conseguenza, la morte che da tutte le parti lo assedia. Molte delle acquisizioni della civiltà paiono smarrite: “Gli stessi grandi popoli, si pensava, dovevano aver acquisita tanta comprensione per ciò che fra loro vi è di comune…da non dover più…confondere in un unico concetto lo “straniero” e il “nemico”. Senza rispondere ai vecchi criteri e regole che avevano sostenuto le vecchie guerre, dove si cercava di limitare il dolore, fiorisce una nuova forma di guerra, che ha un sapore diverso, “abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca e come se dopo non dovesse più esservi un avvenire e una pace fra gli uomini“.
La guerra, insomma, appare come un ceffone, qualcosa che obbliga a svegliarsi da uno stato di illusione. La più grande illusione che viene a cadere è l’auto-comprensione che l’uomo ha di sé. Non più essere civile, superiore, custode di una legge morale inviolabile e della sacralità della vita, l’uomo si scopre essere profondamente ambivalente, costituito, alle fondamenta, di moti pulsionali elementari che mirano al soddisfacimento di bisogni che di sacro hanno ben poco. Tali pulsioni, sottratte al regime della ragione, non sono né buone, né cattive, ma tali diventano solo in un secondo momento, a partire dalle esigenze del vivere in comune, della civiltà.
L’uomo viene dunque trasformato dalla civiltà, ma cosa ne è delle sue pulsioni più distruttive? Dato che non potranno mai essere neutralizzate, coveranno sotto le ceneri delle buone maniere oppure saranno convertite in attività elevate, funzionali allo sviluppo e al mantenimento della civiltà stessa. Freud ci spiega come, per la maggior parte degli uomini, l’adesione alla civiltà sia fondamentalmente un’ipocrisia e non una reale trasformazione. È proprio per queste ragioni che l’eventuale allentamento di queste particolari briglie (che sono le norme e le regole imposte dal programma della civiltà da parte di Stati e governanti) così facilmente si riverbera e trova immediata risposta nella popolazione. Freud si riferisce alla guerra, alle sue atrocità e al generale imbarbarimento che comporta, ma come non pensare al presente, alla distruttività dei discorsi, alla violenza di determinate pratiche, alla chirurgica ricerca del diverso, come nemico, per sostenere l’esistenza di una vuota identità?
…vi è dunque un numero infinitamente maggiore di uomini i quali accettano ipocritamente la civiltà, che non di individui veramente civili…effettivamente questi nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponiamo, e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginate. L’abbandono delle limitazioni morali da parte dei grandi individui dell’umanità, popoli e Stati, nei loro reciproci rapporti, li ha semplicemente, e molto comprensibilmente, spinti a sottrarsi anch’essi per un po’ alla pressione della civiltà e a fornire un momentaneo soddisfacimento alle pulsioni che tenevano imbrigliate.
Non bisogna mai dimenticare, dunque, che quanto in noi vi è di egoistico, violento, primitivo, è di fatto indistruttibile e governabile sempre e solo entro certi limiti. È un fatto di natura politica, dunque, anche la considerazione psicologica che tali forme di imbarbarimento, di fuoriuscita dal perimetro tracciato dalla civiltà, non siano al tempo stesso una fuoriuscita dall’umano verso il disumano, bensì una involuzione verso stadi emotivi e reazioni proprie di fasi più primitive della nostra evoluzione. Una considerazione ancora: il primitivo che è in noi deve essere accolto e compreso, riportato, con le sue rivendicazioni, entro un discorso razionale. In caso contrario si avranno esiti disastrosi. Guerre civili, mondiali, scontri feroci fra opposti interessi, a livello generale, oppure crolli psichici, disagio e disperazione, se si guarda all’individuo.
Tornando al saggio di Freud. È per questo complesso di motivi che la guerra può assumere, per l’uomo, un fascino tanto irresistibile. Ed è sempre per queste ragioni che molti uomini riescono così facilmente ad adattarsi alle condizioni, anche durissime, che la guerra pone e, ancora, il motivo per cui l’altro, il diverso, diventa nemico. Tali stati emotivi, come fumi velenosi, annebbiano le facoltà intellettuali, distorcono la capacità di giudizio, e con facilità ci inducono a far nostre e a lottare a favore di idee chiaramente irrazionali.
Guerra, si diceva. Se il risvolto della guerra è certamente la pace, in questa tensione non si può tuttavia evitare di prendere in considerazione la presa che il fenomeno, anzi, l’evento della guerra, ha sulla morte, risvegliando il terrore che questa inevitabilmente produce in noi. La morte, durante la guerra, appare diversamente all’uomo. Se da una parte è vero che tutti i nostri sforzi sono volti a conservare la vita, al tempo stesso non si può non riconoscere come una vita tutta tesa al proprio mantenimento sia inevitabilmente destinata all’impoverimento: “La vita s’impoverisce, perde d’interesse se non è lecito rischiare quella che, nel suo giuoco, è la massima posta, e cioè la vita stessa”. La morte, in guerra, rende legittimo il piacere ancestrale verso la fine, la distruzione dall’altro. Spinge a mettere a rischio la nostra stessa esistenza, coltivando un sentimento-convinzione tanto strisciante, quanto universale, proprio di ogni essere umano: “la mia morte è impossibile“. Insomma, in modo del tutto paradossale, la guerra, apportatrice di morte e sventura e sofferenza atroce, aumenta, esalta, rinvigorisce e, forse, dà senso alla vita stessa che così potentemente minaccia.
Viene in mente il celebre scambio epistolare fra Einstein e Freud, risalente al 1932, e al tentativo di Freud di rispondere alla secca domanda di Einstein circa i mezzi e la possibilità di scongiurare la guerra. In questa risposta emerge tutto il pessimismo di Freud, che ritiene non ci sia speranza “nel voler sopprimere le tendenze aggressive degli uomini“. Neppure il soddisfacimento di tutti i bisogni materiali e la garanzia dell’uguaglianza potrebbero garantire la pace. Richiamando la possibilità di educare una “categoria superiore di persone indipendenti di pensiero”, Freud (che indirettamente rievoca la figura del filosofo-re de La repubblica platonica) si affida alla possibilità, tragicamente smentita dal processo storico, di scongiurare la guerra per mezzo di una comunità assoggettata al dominio della ragione. L’unico lume (esposto alle intemperie delle pulsioni) sta nella speranza di un progressivo cammino verso la civiltà, ma, in fondo, il male sembra davvero ineliminabile e con esso necessaria sembra la guerra e il suo potere purtroppo ipnotico. In fondo, da tutto questo pare emergere un’unica consapevolezza, e cioè che il cammino dell’umanità sembra reggersi sulle gambe di una inestinguibile e paradossale sete di vita, sulla volontà mai doma di affrontare e superare quella sequela di sofferenze che, per comodità, chiamiamo Storia.
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Prima di tutto grazie, Tommaso, per questa tua ricognizione, anche con altri tuoi scritti (che mi sono riletta)e con il posto di Dragoval, degli elementi di un tema che ci sovrasta e che incombe assai vicino alle nostre attuali vite. Certo, Freud e Hillman non ci rassicurano, le considerazioni del primo sembrano rappresentare la
nostra contemporaneità, sembrano parlare all’ oggi. E dunque, quando ci si domanda come sia potuto succedere che valori acquisiti siano stati così rapidamente capovolti e sostituiti da istanze crudeli, la risposta sembra essere in quesi testi : il cammino non è lineare, occorre abituarsi ai corsi e ai ricorsi delle istanze profonde, senza smettere- come dici- di affrontare e superare quella sequela di sofferenze che, per comodità, chiamiamo Storia.. Certo ci sono momenti in cui prevale un grande sconforto, quella dell’ attesa di un buio, e la scelta è solo tra chiudere gli occhi o guardare la catastrofe che avanza.
Grazie a te per il tuo bel commento. È un tema enorme, quello della guerra o, più in generale, del conflitto. Si tratta di decidere, quasi come una dichiarazione di fede, se le atrocità di cui il processo storico è lastricato, sono dei cedimenti dell’uomo al mostruoso o, più pessimisticamente, una delle forme che dentro di sé l’uomo riesce a tenere a freno, ma che sono tuttavia presenti in potenza. Cercherò di rendere conto, nel mio piccolo, del modo in cui alcuni grandi rendono conto del rapporto cultura-natura, ragione-follia e, dunque, del senso da dare al conflitto.
Caro Tommaso,
che altro dire, oltre a chiederti di perdonare il ritardo con cui solo ora ti rispondo….grazie, grazie di cuore. Non solo per l’attenzione e l’apprezzamento che hai voluto riservarmi, ma soprattutto per aver letto Hillman e per l’annunciazione di questo tuo generoso progetto, che mi sembra una scelta importante nonché una manifesto etico , nel senso più nobile e più pregnante del termine. Com’è noto il termine ethos , nella sua prima valenza, designa infatti il comportamento delle specie animali e ciò che lo definisce; nel caso dell’essere umano, la perenne, insopprimibile tensione tra socialità e aggressività, che ha bisogno di essere indagata perpetuamente, e con occhio vigile, se si vuole evitare che la prima sia defintivamente distrutta dalla seconda. E nessuna inchiesta sul tema potrebbe essere più che sterile esercizio accademico se non rivolta all’analisi della sofferenza e della morte,dello stravolgimento ultimo dell’ umanità che la guerra in definitiva rappresenta, e di cui non a caso tu stesso assicuri infatti la centralità nel tuo progetto.
Leggerò, nullo ostante , spero, l’opera di Freud, ed altre che hai suggerito e vorrai suggerire, felice di lasciarmi influenzare, contagiare dalle nuove idee sorgenti dai testi, dalla loro analisi e dal dibattito che ne segue. Non solo: nei modi e nei contesti giusti ed opportuni vorrei anche proporle a quei ragazzi che abbiamo entrambi, vero?, il privilegio di accompagnare alle soglie dell’età adulta, perché acquisiscano consapevolezza e coraggio nel confrontarsi con l’orrore del nostro tempo, che sempre più strettamente ci assedia affinché smettiamo, una buona volta, di fingere di ignorarlo.
Un saluto carissimo
Valeria
Non parliamo dei tempi del web. Io fatico anche solo a pensali – a parte questo spazio ben delimitato, il mio giardino. Parto dalla fine, da quello che è un lavoro che ha continue ricadute sul piano pedagogico, sempre da intendere come rottura di schemi e umanizzazione di biografie alla ricerca di una via di fuga dalla massificazione massiccia di cui siamo preda. Spero di esser ligio al dovere, al netto dei sempre maggiori impegni. Spero ci si possa presto confrontare. E, ovviamente, grazie a te per le molte suggestioni che offri.
Davvero molto interessante, grazie per avere condiviso!
Grazie a te per l’apprezzamento.
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