Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Nel turbinio di parole e falsi discorsi, si tenta, a tratti, di fare un poco di ordine. Per se stessi, innanzitutto, e poi per gli altri, anche se in un modo tutto particolare – come messa in comune del punto in cui si è giunti, per renderlo criticabile. Questo significa alcune cose: rinunciare alla logica del nemico (qui), fare attenzione a come si maneggiano simboli di carattere universale (qui), coltivare una giusta tolleranza, comprendendone limiti e portata (qui) e prendere le misure di chi ci sta accanto (qui). Se ne leggono di tutti i colori, si dice. Ed è vero. Questo avviene, naturalmente, perché c’è chi ne scrive di tutti i colori e perché, forse, manca una risposta netta, cioè precisa – non ideologica (leggi: violenta). La risposta violenta assicura la sopravvivenza a chi si nutre della logica del nemico, ossia a cerca di disumanizzare l’altro. Ma, è un fatto, chi lavora in vista della pura e semplice disumanizzazione dell’altro sta, di fatto, disumanizzando se stesso – essere umani significa, fra le altre cose, umanizzare la propria posizione cercando di farsi carico di quella dell’altro. Come si fa? Innanzitutto dedicandole la giusta attenzione, anche se per abbatterla, e cioè smontarla, destrutturarla, analizzarla, ridurla all’assurdo (qui). Tutta questo mi ha fatto pensare ad un racconto-gioco che ho scritto qualche anno fa. Si intitola Dr. Raus e fa parte di Infinita perturbazione. Sempre per gioco faccio seguire la prima pagina…
Il difetto del dottor Raus era di non saper scindere gli obblighi della professione dalle convinzioni personali. In lui tutto il carico di freddezza, cinismo e pregiudizi sembrava essersi sedimentato nell’ampio ventre dilatato, nei folti baffi imbiancati dal tempo e nelle grandi mani pelose e piene di macchie. Se al suo studio medico si presentava qualcuno dall’accento straniero o dal colore della pelle, per così dire, particolare o esotico, allora il dottor Raus, più che sincerarsi delle condizioni del paziente, tendeva a fare domande su lavoro, rapporti con la giustizia e cose del genere. Spesso mandava via queste persone dicendo di non avere tempo mentre, se si decideva a visitarle, tastava e strapazzava senza andare troppo per il sottile e certamente senza dare il minimo ascolto alle lamentele e alle suppliche dell’infelice di turno. Il dottor Raus, quando perdeva la pazienza, si faceva di pietra e fissava il malcapitato con i suoi occhi azzurri, severo. Quando operava – cosa che non avrebbe potuto fare – non sempre usava tutte le accortezze; e nel ricucire prestava molta meno attenzione che se stesse riattaccando un bottone alla stoffa della camicia; spesso non assegnava medicinali adatti o non li prescriveva affatto. Tutto questo era possibile in una cittadina di provincia che contava milleduecentottanta anime, senza contare gli stranieri di passaggio privi di tutto, quasi anche del nome. Non era il dottor Raus a operare a quel modo, era lo spirito del luogo a muovere le sue mani, a modulare i suoi discorsi, ad iniettare di sangue i suoi occhi. Forse qualcuno ci aveva lasciato le penne, ma così andavano le cose. Dura lex sed lex. Non scritta. Nella sua cittadina il dottor Raus era rispettato e stimato. I suoi concittadini, pazienti ben accetti, dicevano di lui che era un medico premuroso e professionale, e dicevano il vero. Per trenta lunghi anni il dottor Raus aveva esercitato la professione senza dare mai il benché minimo segno di cedimento, almeno fino ad una magnifica mattina di primavera, quando s’era svegliato in preda ad un malessere per cui non sapeva trovare una spiegazione né una definizione plausibile. Dopo un paio di giorni passati a casa s’era deciso a farsi visitare e così s’era messo in mutande e canottiera davanti agli altri due dottori del paese. Entrambi i dottori erano giovani, educati e preparati. Erano quelli che avrebbero preso il suo posto. Tutti e due avevano poggiato una mano sulla sua spalla. E mentre il volto fiero del dottor Raus si sgonfiava e gli occhi spiritati ingrigivano, le sue mani forti e grandi erano scosse da un lieve tremolio, la voce tuonante ridotta ad un sospiro. Era finita, tutto ad un tratto. Il dottor Raus, a settantadue anni, era andato a dormire la sera prima sentendosi forte come un toro per svegliarsi, il mattino dopo, fragile come un mollusco cui è stato sottratto il guscio.
Dopo un mese il dottor Raus si era rassegnato, immobilizzato da dolori e sensazioni contrastanti, da sintomi che sembravano non rimandare a nulla se non ad altri sintomi, tanto che in certi momenti non poteva fare a meno di sospettare di tutta quella storia, quasi fosse un complotto. Un pomeriggio, mentre se ne stava affondato nella sua poltrona, la moglie era rientrata a casa e gli si era piazzata davanti parlandogli di un dottore che esercitava la professione a qualche chilometro di distanza. Il dottor Raus aveva alzato la pesante mano per metterla a tacere ma lei aveva insistito. Di questo dottore si parlava come di un santone, un guaritore, un vero salvatore. Nel sentire quelle parole il dottor Raus aveva riscoperto in sé la voglia di vivere che nell’ultimo mese era stata fiaccata. Solo una cosa la donna aveva omesso, un dettaglio che il vecchio malato era riuscito a scoprire solo dopo una lunga anticamera passata in una stanzetta piena di odori, idiomi e colori. Il dottore era un negro. Il vecchio era riuscito a mettere a tacere la voce che gli diceva di andare via e di non farsi toccare da chi aveva le mani insudiciate dal continuo trafficare con quell’umanità che lui detestava. Aveva tossito a lungo e sentito le orecchie fischiare eppure aveva atteso fino a tarda sera, pur di farsi ricevere. Era pietrificato davanti al dottore, al camice bianco, agli occhi severi, alla folta barba che copriva quel viso nero. Senza guardarlo, mentre si lavava le mani in un tinello, il dottore l’aveva invitato a stendersi sul lettino. Il dottor Raus aveva eseguito l’ordine, essendo il suo attaccamento alla vita più forte di qualsiasi idea, per quanto radicata. Il dottore gli aveva chiesto dei sintomi, dello stile di vita, della professione. Scoperto che erano colleghi aveva voluto sapere dove esercitasse. Il dottor Raus si lasciava toccare, palpare. Il medico armeggiava col suo corpo malato con delicatezza. Il nero della pelle e il rosa intenso dei palmi delle mani non erano più un problema. Il dottor Raus era in estasi, fra il sonno e la veglia…
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)