Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
La rete spande luce, offre luce. Offre, dunque, la possibilità di essere visibili. La rete dà la possibilità di venire-fuori ed essere conosciuti, potenzialmente da tutti, per quel che si fa e che si ha da proporre. Questa è cosa buona, indipendentemente dal fatto che in giro vi siano cose molto buone ed altre decisamente brutte. Ognuno, in cuor suo, sceglie dove andare. Questa opportunità, mai esistita prima nella storia della cultura, questa possibilità di poter-dire apre tuttavia ad altre considerazioni. Sono ovviamente smisurate e tutte fondamentali, poiché non si può far finta di non vedere come il fatto che tutti parlino non permetta di sentire nulla se non un incredibile rumore in cui tutto ribolle in modo indistinto (a parte le voci già riconosciute). Qui mi interessa un solo aspetto della questione: la rete è specchio dall’attuale curvatura (o distorsione) che sta assumendo l’idea della vocazione per l’arte, vocazione che non significa, qui, niente altro che fedeltà ad un desiderio.
Per certi motivi del tutto irrilevanti rispetto al discorso, qualche giorno fa mi sono trovato a fare un giro sul web alla ricerca di alcune informazioni. Mi capita di rado, lo ammetto, e dunque è stata grande la mia sorpresa nell’imbattermi in qualcosa che mi subito parso un enorme cimitero. Passando da link a link mi sono perduto in un labirinto fatto di pagine abbandonate, di siti scheletro, blog marcescenti, in un arcipelago di silenzi ed enormi lande desolate intorno alle quali vengono edificate, in ogni momento nuove case che, a questo punto verranno preso abbandonate. Una sorta di grande bolla culturale che non è altro se non un silenzioso crack della vocazione per l’arte.
Tutte queste macerie, come le strade che portano all’inferno, sono fatte di buoni propositi, anzi, di propositi altissimi, di vere e proprie dichiarazioni di appartenenza e fedeltà senza (apparenti) limiti. Ripeto, sono qui a scrivere di e in un posto che mi rendo conto di non conoscere quasi per nulla. Si parla della rete, del suo essere in perenne movimento, del proliferare di iniziative e di inesauribili energie, ma meno spesso si parla di chi, in questo enorme spazio, si lancia e presto muore, abbandona. Perché? Quale nutrimento viene tanto precocemente a mancare? Dipende dall’obiettivo che si insegue, certo, ma anche della molla, del cominciamento delle cose, poiché è la combinazione di questi elementi a determinare di cosa necessita chi dichiara la propria vocazione per l’arte – nei molteplici modi in cui può essere testimoniata – racconti, recensioni, disegni, bozzetti, poesie, fotografie e via dicendo.
Probabilmente sono i cattivi obiettivi e, dunque, delle motivazioni malsane a produrre tanto le clamorose dichiarazioni, quanto le più o meno patetiche marce indietro. Poiché i cattivi propositi che non trovano la giusta attenzione vengono presto schiantati, soffocati, sbugiardati. Mentre, al contrario, la vera vocazione, quella dichiarata, è autentica solo se ha sufficiente energia per affrontare e superare i momenti di magra, di invisibilità, di siccità di sguardi e d’occhi. Perché come il cammello o il cactus, che gelosamente custodiscono il nutrimento per affrontare i periodi di siccità, così il sacro fuoco della vocazione permette di attraversare il silenzio e la mancanza di sguardi attenti. A tal proposito mi penso al troppo malamente citato Raymond Carver, di cui spesso non si ricordano i periodi di dolorosa inattività, delle fatiche legate alla paternità, al lavoro, alle difficoltà economiche, preferendo guardare al sintomo (l’alcool), piuttosto che alla causa ultima, e cioè a quella cosa granitica che è comunemente chiamata vita e che spesso gli impediva di coltivare la scrittura. Spesso si parla (malamente) del suo stile, senza guardare alla rabbiosa determinazione che lo spingeva a scrivere anche poche righe, con l’intento di non far spegnere il sacro fuoco del desiderio…
Questa storia della vocazione ritorna su, nelle letture, come questione da approfondire, come cosa non detta in tutte le sue molteplici sfaccettature. Vocazione come produzione incessante, come per Boccioni e i suoi Taccuini (qui), ma anche vocazione come ferma volontà di non arretrare di un passo che spazza via tutte le dichiarazioni di intenti che si spengono nell’arco di una stagione o di un anno. Vocazione come risposta ad una chiamata che suona come ordine, pretesa e solo in ultima battuta come gioco e festosità, perché nel mezzo c’è una richiesta incondizionata di tempo, una pretesa di dedizione, di fede senza certezze, di cammino senza tragitto, di sforzo senza possibile sosta. Altrimenti? Beh, ci sono riviste alla ricerca di nuove voci e poi, per tutta risposta, nuove voci alla ricerca di un orecchio attento; ci sono spazi proiettati nel futuro, scrittori del futuro, luoghi di incontro e sperimentazione dove nessuno, dopo un po’, vuole più incontrarsi, dove nessuno, forse, ha mai avuto nulla da sperimentare.
Ecco il proliferare di intenti dal fiato corto; di risoluzioni che in fondo sono solo capricci; di lavoro che non si concede tempo perché manca la capacità di saper aspettare; di attese impossibili perché indisponibili ad accettare il rischio del fallimento, del poter essere spazzati via per sfortuna o per giusta causa.
Viene in mente l’ammonimento di Ray Bradbury. Non ricordo, lo ammetto, dove l’ho letto, né quando – di certo un po’ di tempo fa, da qualche parte. Cerco di riportarne il senso. Bisogna scrivere. Punto. Scrivere centinaia di storie/racconti tutti brutti non è fallire, fallire è smettere di scrivere. Questo il succo o, almeno, quello che si è sedimentato in me. Smettere significa ammettere la non autenticità del desiderio, smascherare la presunta vocazione o pretesa di aver qualcosa da dire. Dice molto, dunque, il panorama tutto intorno: è fatto di possenti dichiarazioni di intenti, che in fondo sono solo brandelli di volontà, ingrassate da un entusiasmo necessario per definizione, ma futile nella sostanza. Insomma, non basta la libertà di poter-dire a dimostrare che si ha o si avrà veramente qualcosa da dire; né tale libertà potrà mai garantire che si avrà la forza e la determinazione per farlo.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Condivido pienamente il tuo ragionamento. La rete ha creato opportunità per tutti, anche dal punto di vista creativo. Ma al di là del talento che uno può avere o non avere, ciò che è veramente importante è la determinazione, la volontà di andare avanti anche quando sembra che nessuno apprezzi quello che scrivi. Pochi scrittori o artisti sono arrivati subito al successo, ma hanno dovuto affrontare e superare anni e anni di fallimenti.
Emergere è comunque difficile ma la perseveranza è la chiave che può aprire la porta del successo. La vera passione è il motore di ogni attività che diventa importante.
Hai perfettamente riassunto il senso di questo mio piccolo intervento. È un vero problema, un problema di fondo per tutti quelli che in questo enorme spazio virtuale cercano di mettere le radici.
Certo. La rete ha creato la proliferazione di alberi nella foresta. Come tali invisibili ai più, pure se ogni albero chiede, di essere cercato, riconosciuto. Il più grane baobab nasce seme, piantina che, forse, ha difficltà a comprendere la propria natura – magari di cespuglio.
Anche un piccolo cespuglio, in sé, è perfetto. Non occorre essere grandi.
L’abbandono, la rinuncia forse ha a che fare con un bisogo fragile; o equivocato. Potrebbe anche essere la rinuncia ad un mezzo: la rete, appunto; Cosa diversa dal silenzio.
La risposta mancante/mancata è dolore, fatica, dove anche una risposta di squalifica risulterebbe vitale ma non estingue il bisogno – è troppo parlare di vocazione? Nel senso proprio di “chiamata a”.
Poi, le storie sono tante, diverse.
La rete sicuramente ha portato all’esplosione di possibilità, nel contempo nascondendole nella foresta.
C’era quella cosa, era Warhol, mi pare, a parlarne, dell’essere famosi tutti per quindici minuti ciascuno. Posto che il problema consista nel raggiungere il successo..
Il problema sta qui: il bisogno di riconoscimento è altro dalla chiamata a esprimersi creativamente. Che non rinuncia, credo.
Scrivo, parlo, a vanvera; ma tu hai aperto un tema infinito.
Tema enorme. Il bisogno di riconoscimento è ciò che contraddistingue l’umanità dell’uomo. Tale bisogno insaziabile è abilmente usato e distorto. Da ciò nasce l’erronea equitazione fra successo e riconoscimento. Equazione che porta, a mio avviso, un carico di sofferenza senza precedenti. La pervasività fi tale fenomeno va bel oltre le cose “profane”, ma tocca anche il processo creativo per eccellenza (escludo ovviamente la generazione di figli), e cioè la produzione artistica, generando fenomeni che vanno dal patetico all’incredibile, passando per il ridicolo…ma senza risparmiare sorprese disseminate ovunque, lì dove l’incontro è frutto del caso.
Si scrive per mille motivi, testimonianze attendibili di secoli stanno lì a comprovarlo. Internet ha evidenziato questa molteplicità, l’ha resa palpabile. Internet dà la misura della quantità e varietà di voci. A corredo delle varie infinite motivazioni di base, sta – ma non unica!!!! – l’attesa di una condivisione e quindi una risposta. Dove, anche sulla misura della quale, sono certo vari l’aspettativa a secondo del soggetto.
Per concludere, è un discorso molto personale, da caso a caso. Poi, se il persistere nonostante l’assenza di qualsiasi riscontro sia auspicabile se si voglia aspirare al successo… innanzitutto che prove si hanno che si vero? Basta l’esempio noto di qualche caso? Lo sappiamo perchè noto ma gli altri che mai emergeranno? Inoltre, come sopradetto, uno scrive solo per avere successo?
Non abbiamo appena detto che i motivi sono tanti?
Hai ragione, non si scrive per il successo, per fortuna, ma è altrettanto vero, mi pare, che l’esplosione di dichiarazioni di intenti e di nette smentite, abbandoni e passi indietro, metta in luce proprio questo fenomeno. Come tutti quelli che invecchiano procedo lentamente e diffido di tutto quello che corre e i paroloni, in generale, non mi sono mai piaciuti. Io sono per il piccolo artigianato, da sempre.
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