Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Dalla scorsa estate una serie di circostanze mi stanno spingendo a portare indietro la mia attenzione. Alcune di queste circostanze sono di natura personale, altre di ordine più generale, e dunque dettate dall’atmosfera che mi circonda, dal discorso pubblico, dalla luce che brilla negli occhi e dal tono di voce delle persone. Dalla scorsa estate dunque, mi trovo a risalire a ritroso nel tempo, alla ricerca delle direttrici lungo cui si sono avvicendate, negli anni, tanto le mie letture, quanto le mie (umilissime) produzioni – nel senso dei post di questo blog e delle operelle che ho avuto modo di pubblicare. Per questo motivo, da buon gambero, ho tentato, nelle ultime settimane, di seguire i lineamenti del mio personalissimo ruscello fatto di inchiostro e appunti per andare, con l’intenzione di rintracciare gli snodi fondamentali di questo percorso. In quest’ottica I due fratelli assurge inevitabilmente a mio personalissimo archè. La sua umile origine sta nell’impressione suscitata in me molti anni fa dal racconto di un amico antico, perso e mai più ritrovato. Principio e cuore pulsante di tutto ciò che mi ha sempre interessato e messo in agitazione, quel racconto dava una forma possibile ad una questione per me fondamentale che nel tempo si è, e mi si è, presentata in modi sempre diversi – come variazione sul tema. Ripetizione di una medesima questione nelle differenti risposte allo stesso interrogativo. Senza esplicitare la problematica di fondo, nella speranza che emerga dai racconti stessi, di seguito le prime pagine…
Credo di essermi guadagnato il diritto di lamentarmi, il diritto ad uno sfogo, ad un orecchio attento. Sono convinto di essermelo guadagnato, questo diritto, giorno dopo giorno, anzi, notte dopo notte, compresa questa, l’ennesima che passo sveglio, vigile e con l’orecchio teso, in agitazione. Non sto dicendo che non continuerò a fare quello che devo fare, non ho molta scelta, del resto. Sto semplicemente per esercitare quello che credo essere il mio sacrosanto diritto di lamentarmi, di sbottare e parlar male, almeno per una volta. Fino a pochi mesi fa ero uno di quelli che non doveva e non poteva lamentarsi, un ventunenne con le idee abbastanza chiare, qualche amico e molte ore passate sui libri, a studiare. Non avevo mai dato fastidio a nessuno e nessuno aveva mai dato veramente fastidio a me. Me ne stavo tranquillo e, di buona lena, perseguivo i miei obiettivi con ordine, una cosa per volta; poi, però, un semplice episodio è riuscito ad imprimere un brusco cambio di rotta alle mie giornate, nei miei obiettivi e priorità. Senza averlo scelto mi ritrovo a non essere più quello che ero e ormai dubito di poterlo tornare ad essere. Una semplice combinazione, una coincidenza ed eccomi qua a lamentarmi.
Questi i fatti.
Era stato assente per tutta un’estate, e va bene; stravagante in autunno, e va bene; insopportabile con l’arrivo dell’inverno, e va bene. Per mesi e mesi non ho fatto una piega, ma come dovevo reagire quando me lo sono ritrovato seduto sul davanzale del terrazzo? Sto parlando di Matteo, mio fratello.
Io, come sempre tranquillo e in pace con me stesso e il mondo, uscivo in balcone per fumare una sigaretta e lì, inaspettatamente, invece del solito panorama fatto di tetti e parabole cui sono tanto abituato, mi sono imbattuto nel suo profilo. Era comodamente seduto sul davanzale, le piante dei piedi a prendere aria. È alto dove abito io, alto tutto un palazzo di sei piani, non questione di centimetri; c’è tutto il tempo per ripetersi nome cognome e data di nascita prima di toccare il suolo, e dimenticare tutto e tutti. A vederlo a quel modo, in silenzio e con lo sguardo spento neanche fosse davanti alla televisione, c’era proprio da pensare che avesse perso ogni interesse per le cose. Quella scena, nella sua apparente mancanza di sviluppo, nella sua stridente staticità, era straziante.
Era stato più taciturno del solito, non stava quasi mai a casa e per qualsiasi questione andava in bestia, ma non me ne ero fatto un problema, non mi era sembrata una faccenda particolarmente preoccupante. Di trovarmelo lì davanti, accomodato a quel modo, proprio non me lo aspettavo.
È una bella responsabilità prendersi la briga di salvare la vita di qualcuno ed io fino a quel giorno non avevo idea di cosa potesse significare; così da inesperto che ero, non mi sono fatto pregare. Gli ho parlato, l’ho rassicurato, mi sono messo a sua completa disposizione e lui, alla fine, senza fare troppa attenzione, magari non proprio persuaso dai miei argomenti, s’era deciso a fare un mezzo giro su se stesso e a tornare con i piedi ben piantati a terra, al sicuro, almeno per quella sera. Persi in un lungo abbraccio abbiamo pianto senza risparmiarci, poi io sono stato male per una buona settimana, con una febbre da cavallo come da anni non mi accadeva.
A ripensarci non so se lo rifarei… in quel modo, si intende. Ho straparlato senza curarmi di condividere con qualcuno una responsabilità che invece andavo caricando tutta sulle mie povere spalle; perché un conto è salvare la vita a qualcuno che in pericolo ci si è trovato senza volerlo, tutt’altra cosa è dissuadere una persona che vuole intenzionalmente farsi da parte. Insomma, a cose fatte, salvare la vita di mio fratello si è rivelato il peggiore degli affari in cui potessi cacciarmi. Per me, di quel che ero, non è che sia rimasto poi granché e da quel giorno è come se dovessi vivere due vite contemporaneamente, una vita elevata alla seconda, una vita al quadrato. A mia discolpa: ma che potevo fare? Mi ci sono trovato in quella situazione, c’ero solo io in casa, quella sera; solo io potevo salvarlo, farlo rinunciare alla dipartita o, almeno, convincerlo a rimandarla dopo un più attento esame dei pro e dei contro, a pensarci un poco su, insomma. Da quella sera non potevo più tirarmi indietro, non potevo fare altro che impegnarmi e convincerlo, giorno dopo giorno, che aveva fatto la cosa giusta. Ad essere sincero non ho avuto molto da fare dopo quella sera, però quell’immagine aveva messo le tende nella mia testa, proprio dietro al piano spiovente della mia fronte stretta e bassa, non abbastanza spaziosa, non per natura ad ogni modo, per un tale compito. In poche parole, l’idea che in mio fratello non fosse ben radicata quella normale fede, quel comune attaccamento alla vita, questo, non altro, non riuscivo proprio a sopportarlo. Io, a mio fratello, gli ho sempre voluto bene, sempre, ma da quel giorno mi trovo a tribolare.
Continuerò a lamentarmi. È lui, di là, nella sua stanza a tenermi sveglio. Tutti devono saperlo.
Il discorso non è mai più stato ripreso e quel che era accaduto, ce lo siamo giurati, l’avremmo tenuto per noi soli. Dirlo a nostro padre o, ancora peggio, a nostra madre, avrebbe solo procurato spiacevoli questioni per nulla necessarie alla felice soluzione del fattaccio, sventato. A dire il vero non solo non se ne è mai più parlato ma, nel modo più inaspettato, Matteo sembrava aver superato quella brutta serata con grande agilità, forse pari a quella manifestata al momento di scendere dal davanzale. Fatto di colpo più espansivo, aveva addirittura ripreso a mangiare a tavola con il resto della famiglia, come non faceva più da tempo. Di questo, come di tante altre piccole cose, i miei genitori erano felicemente sorpresi. Proprio non se lo aspettavano, e quel benedetto e repentino cambiamento aveva portato un periodo di tranquillità nella nostra casa, anche se non per me.
E certo, mica lo sapevano loro che bel pasticcio era stato sul punto di combinare il loro adorato. Il figliol prodigo, aveva iniziato a chiamarlo mio padre, ignorando che io l’avevo preso per i capelli, anche se in senso lato, si intende; ignorando che io avevo risparmiato il viaggio dell’ambulanza, urlante e sfrecciante fra le vie; che io avevo tenute lontane le forze dell’ordine, le prediche in chiesa, le indagini, i giornalisti e gli addetti ai lavori chiamati d’urgenza per pulire l’asfalto sotto casa. Stavano tutti tranquilli, dormivano beati, tutti tranne me, che mi svegliavo in piena notte per andare a controllare se per caso non lo ritrovavo, Matteo, a guardare le stelle, comodamente seduto sul davanzale.
I primi due mesi dopo il fattaccio sono stati per me un vero incubo. La notte mi svegliavo ogni mezz’ora e la sera non avevo più il coraggio di uscire di casa. Passavo intere giornate appostato alla finestra, prendendomi tutto il freddo dell’inverno, cercando di studiare e, allo stesso tempo, tenere il balcone sotto controllo. Lo facevo, il turno di guardia, anche se mio fratello era uscito. Facevo gli straordinari perché avevo paura che rincasasse di soppiatto per potersi buttare giù senza che nessuno fosse lì a disturbarlo. Era ovvio che se proprio voleva farla finita, poteva trovare mille altre occasioni anche fuori casa, questo lo sapevo e lo capivo benissimo, ma per me era come se da quel maledetto davanzale non si fosse mai deciso a scendere. Insomma, quei primi due mesi, giorno più giorno meno, li ho passati senza respirare un solo attimo per me solo. Il pericolo sembrava essere alle nostre spalle, ma così non era, e non è. Le cose avevano iniziato ad andare male per me. L’unico ad essersi fatto veramente male, in tutta questa storia, ero io.
Per chi lo volesse, I due fratelli può essere letto nella sua interezza (QUI). Vi compare come estratto da Il posto di ciascuno (QUI).
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Tema duro. Come lo sono le cose vere.
Un giorno, non ora, lo leggerò.