Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Donna Tartt, Dio di illusioni

Perché è pericoloso ignorare l’esistenza dell’irrazionale. Più civilizzata è una persona, più è intelligente, più sarà repressa: e più necessiterà di un sistema per incanalare gli impulsi primitivi che si è studiato così tanto di uccidere. Altrimenti quelle potenti forze si accumuleranno e diverranno di tale intensità da liberarsi violentemente, con maggior violenza a causa dell’attesa, e avranno spesso tale vigore da spazzar via del tutto la volontà.

Ho già scritto di Dio di illusioni e della profonda impressione che stava producendo in me. La prima volta a partire dal caso che mi ha portato ad acquistarlo (QUI), la seconda a partire da una dedica che rimanda a Bret Easton Ellis (QUI), finalmente ne parlo direttamente.

Ambientato in un college nel Vermont, questo romanzo segue la vicenda di alcuni studenti di estrazione alto-borghese immersi nello studio della filologia classica e della cultura greca. Fra questi ragazzi emerge una coscienza, il protagonista che narra la sua storia. Il ragazzo si trova lì nel Vermont perché letteralmente scappato lontano dalla casa dei genitori, alla ricerca di un luogo che sia il più possibile distante dal vuoto emotivo, dall’umile estrazione economica, ma anche culturale, in cui era stato allevato. Così si ritrova ad entrare in questa cerchia di ragazzi, tutti molto diversi da lui. Ne rimane affascinato, impressionato, convinto com’è di essere entrato a far parte di una setta ristretta, esoterica.

Le pagine del romanzo sono disseminate di riferimenti alla cultura greca, alla riflessione di Nietzsche, alla natura del tragico, all’esaltazione dell’irrazionale, alla necessità di recuperare la capacità di agire “al di là del bene e del male” – questa storia, in fondo, è la cronaca di una fascinazione che si fa fantasia, di una fantasia che si fa pianificazione e di una pianificazione che porta all’atto estremo, alla violenza. Fin dal principio il lettore conosce il termine di una vicenda che, pertanto, procede su di un piano obbligato, secondo una necessità e una fatalità che però nulla toglie all’ansia di sapere come va a finire. Meglio, sapendo come va a finire, si vogliono conoscere i sentieri, e cioè le fatali motivazioni, i giri di pensiero che hanno condotto a tali esiti.

La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont-polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell’esercito; il college chiuso, la fabbrica di colori ad Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal Nord dello Stato di New York, addirittura da Boston. È difficile credere che il semplice piano di Henry potesse aver funzionato tanto bene, nonostante tali eventi imprevisti. Non avevamo l’intenzione di nascondere il corpo dove non potesse essere trovato: invero non l’avevamo nascosto per nulla, bensì semplicemente lasciato dov’era precipitato, nella speranza che qualche sfortunato viandante vi incespicasse, prima che si accorgessero della sua scomparsa.

Direi che è un romanzo sul problema dell’autenticità e della dialettica natura/cultura. La cultura, la morale, le convenzioni sociali sono veramente utili e necessarie o, forse, al contrario, soffocano, reprimono, impediscono la via verso il raggiungimento dell’estasi, dell’autenticità, di una esistenza piena? È così che nella mente di questi ragazzi che avevano visto troppo poco del mondo vero e che sono pertanto portati a cedere alle vuote astrazioni di teorie e racconti antichi, potevano iniziare a prendere forma fantasie di smembramento, tutte fatte di violenza, trasgressione. Tutto questo è possibile perché proprio loro, iper-civilizzati, non hanno la più pallida idea che un’azione possa avere delle conseguenze reali, e quando dico reali intendo per l’altro. Risulta loro quasi impossibile comprendere che la vita dell’altro sia refrattaria ad essere degradata ad oggetto per un esperimento, a mezzo per realizzare fantasie estetizzanti, ideali di potenza. Incoraggiati dalla retorica di un docente che, in quanto retore, utilizza una parola-vuota, questi ragazzi continuano a coltivare strane idee: “Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello, per anime come quelle dei greci o le nostre, perdere ogni controllo?”.

Allo studio dei classici, si accompagnano giornate affogate nell’alcool, annebbiate dell’uso di droghe, tutto nel tentativo di dare nuova vita a riti misterici, dionisiaci; nel tentativo di raggiungere un qualche stato di estasi. Notti selvagge e piene di furore, impregnate di una sessualità sfrenata, incestuosa a tratti; notti passate alla ricerca di qualcosa di sacro e, dunque, di inquietante, terribile. Alla fine qualcosa di inquietante accade veramente – fuori dalle loro menti. Una vittima viene sacrificata. Casualmente. Non un animale, ma un essere umano. Uno sconosciuto. Questo evento fa da spartiacque. Il gruppo, che pareva unito, si spacca. Qualcuno accetta l’evento, altri sembrano non reggerne la portata. Per Henry, però, il componente più geniale del gruppo, questo evento ha effettivamente aperto ad nuovo mondo. Chi non regge l’evento deve morire, questo sostiene. Qui viene decretata la condanna a morte di Bunny, l’anello debole della piccola setta, quello meno dotato, certamente a livello intellettuale. Difficile è dirne a livello morale. “Vivere senza pensare“, questo vuole Henry, che vede nell’omicidio, nella violenza, nel prendere congedo dalla razionalità, l’unica via di salvezza.

Quell’onda improvvisa di potere e godimento, di sicurezza, di controllo. La sensazione dalla ricchezza del mondo, delle sue infinite possibilità…per terribile che fosse stata, non si poteva negare che la morte di Bunny avesse colorito di sgargianti sfumature tutti gli eventi successivi.

Il terribile epilogo del romanzo, che lascio alla curiosità del potenziale lettore, apre però alla domanda che attraversa questo libro e che, forse, rimane senza risposta: cosa può rendere autentica la nostra esistenza? Fino a che punto la liberazione dai vincoli sociali può prescindere dalla gabbia della logica e della morale? Una liberazione del genere (se di liberazione si tratta) conduce, può condurre, a forme di godimento estremo – ma, questo godimento è autenticità e vera vita, o semplice delirio di una ragione travolta da spinte e pulsioni arcaiche? È vero che la morale e le sue prescrizioni sono da mettere in dubbio in quanto tali e che l’ideale di una dignità dall’uomo è un’idea consolatoria, ma falsa? Certamente Donna Tartt ha fissato sulla pagina la possibilità che l’uomo perda in sé, e non solo nell’altro, la possibilità della sua umanità – poiché negare l’umanità dell’altro è, di fatto, una negazione della propria umanità, poiché l’erosione della dignità, della consistenza, dell’autonomia dell’altro è, di fatto, misconoscimento e negazione della propria. Ne parlavo, a partire da una diversa prospettiva, in un post sulla necessità di coltivare la propria umanità – del diventare o rimanere umani (QUI).

Mi piacerebbe poter dire che ero allora diviso tra due decisioni, alle prese con le implicazioni morali di ciascuna delle vie che mi si presentavano; ma non ricordo d’aver sperimentato nulla di simile. Mi misi un paio di mocassini e scesi a telefonare a Henry.

2 commenti su “Donna Tartt, Dio di illusioni

  1. Alessandra
    marzo 17, 2019

    Dev’essere un romanzo interessante, uno di quelli che rimangono dentro a lungo, dopo la lettura, rimestando per giorni emozioni e riflessioni. Dell’analisi, come sempre bella e coinvolgente, ho apprezzato in modo particolare le considerazioni finali, che sento in affinità con il mio pensiero, con il mio modo di sentire…. Se prima ero indecisa sull’autrice, anche per la mole spropositata dei suoi romanzi, ora sono più intenzionata a leggerla.

    • tommasoaramaico
      marzo 17, 2019

      Lo è. Il romanzo, oltre ad essere ben scritto (e di un certo interesse per chi ha coltivato determinati studi), solleva quesiti importanti – urgenti, direi. In un contesto in cui si impone una retorica libertaria è necessaria una riflessione seria su cosa sia la libertà, dei suoi confini – perché certamente merita una attenta riflessione l’idea che la libertà, per essere tale, debba limitata, vigilata, stretta entro confini precisi. Questo romanzo è un buon punto di partenza.

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Questa voce è stata pubblicata il marzo 16, 2019 da con tag , .

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