Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Questa lettera è stata pubblicata un bel po’ di tempo fa su Cartaresistente, per l’esattezza il 22 maggio 2014. Ricordo distintamente il giorno in cui ricevetti una cordialissima mail da parte di Fernando e Davide. Il mio blog, ai tempi, iniziava a muovere i suoi primi, timidi, goffi passi. Non che adesso lo sia meno, goffo e dozzinale, ma al netto della mia sostanziale incapacità di apprendere/applicare il galateo del blogger, ricordo bene la contentezza nel ricevere quell’invito. Come molti sapranno, Cartaresistente ha chiuso i battenti un paio d’anni fa (mese più, mese meno), anche se, in molti modi diversi, lo spirito che lo sosteneva è ancora vivo e vegeto – basta gironzolare un po’ fra i vari blog di qualità, che portano avanti il loro progetto, per trovare filiazioni, citazioni e rimandi di ogni genere. Li leggo sempre con grande attenzione, anche se spesso non rimane traccia del mio passaggio. La mia decisione di riproporre quella lettera vuole essere una forma di atto riparatore. Quella lettera non è altro che una manciata di righe nate da un bizzarro compromesso tra realtà e finzione. Dopo cinque anni da quella prima, timida offerta, eccola qui nuovamente, quasi identica – mi sono permesso di intervenire su qualche virgola e per sostituire qualche parola. Niente più. È un modo per ringraziare a distanza di tempo e, a distanza di tempo, recuperare una certa innocenza…
Caro Marcus,
è tanto che non ci sentiamo, per l’esattezza dal 21 ottobre di cinque anni fa, giorno del tuo trentesimo compleanno. Ti avevo inviato un messaggio, per l’occasione, ma tu per l’ennesima volta avevi deciso di non rispondermi e così avevo dovuto gettare la spugna. Da allora non ci siamo più sentiti, né visti. Mentre ti scrivo, qui sulla mia scrivania c’è una bacinella con dentro uno straccio. Serve a raccogliere l’acqua che goccia dal soffitto dopo i temporali di questi ultimi giorni. La vita procede, non si ferma. Insegno ancora, anche se ogni anno mi sbattono in una scuola diversa. E tu? Sei sopravvissuto ai tagli alla scuola? La chiamavano riforma. Bastardi. Ce l’hai fatta o ti hanno messo fuori dai giochi obbligandoti a cercare altro? Devo confessarti che ogni anno, dopo un nuovo incarico, vengo preso dalla timida speranza di incontrarti lungo un corridoio o in sala professori. Ti inviterei a casa mia. Rivedresti Sara e, per la prima volta, mio figlio. Ha quasi due anni. L’ho visto nascere. L’ho visto sgusciare fra le cosce di Sara e venire al mondo, nel sangue, urlando. Ho visto gli occhi pieni di sacro terrore di mia moglie. Ho visto qualcosa che può esser detto vita. Ma scrivere tutto questo è patetico e tu sei sempre stato un cinico.
Però non tutto è semplice. Il precariato mi sta sfiancando. Da un anno a questa parte quella brutta paura di morire che da sempre mi porto dietro è montata ed è salita d’intensità. Passo intere giornate a sentirmi il polso per contare i battiti del cuore, a tastarmi l’addome e altre follie del genere. Sara dice che dovrei andare a farmi una chiacchierata con qualcuno. Da mesi dormo sul divano con la televisione accesa. Metto il timer e mi accuccio. Ogni notte si spegne alle due, la tv, ma io sono immancabilmente sveglio. Mi capita di sognarti. Sogno che mia moglie mi sbatte fuori di casa e che io ti telefono, ma tu non mi rispondi o, se rispondi, che mi dici di non aver tempo per me. Ed io cado in una cupa disperazione. Brutti sogni.
Mi piacerebbe sapere perché non hai più voluto avere a che fare con me. Sara – sempre lei, vero? – dice che eri invidioso, che non sopportavi che le cose mi andassero bene, che lavoravo a scuola, che avevo vinto un dottorato di ricerca, che pubblicavo articoli e avevo una donna con cui ero andato a vivere. Dice che parlavi in continuazione male di me, che lo facevi persino davanti a lei. A parole non saprei dirtelo, ma su carta sì. Lei sostiene che tu, forse, potevi esserti innamorato di me. Che assurdità. Eravamo semplicemente amici da un mucchio di anni. Le cose stavano andando male a te, bene a me, questo è vero. Forse ero troppo concentrato sui miei obiettivi – odio questa espressione – per capire che avevi bisogno di un po’ del mio tempo. Non avevo compreso che alla tua mente in fiamme e piena di dubbi com’era, tutto il bene che veniva a me doveva presentarsi come sottratto a te. Mi dispiace esser stato così distratto. Ma anche questo è patetico e così preferisco salutarti. Questa mia lettera è una stretta di mano,
con affetto,
Tommaso.
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
scrittore in Milano, Mondo
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
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La letteratura e la vita, non si sa mai dove finisce l’una e incomincia l’altra. Il tuo blog ne è un esempio.
Grazie per il tuo commento, Guido. Hai toccato una questione per me centrale. Cercare di conciliare, armonizzare vita e (tentativo di aver qualcosa a che fare con la) letteratura è per me dirimente.
Un miscuglio che, una vita di fuga, un percorso per mantenersi sulla strada e proseguire. Un modo alla Pollicino per segnare la strada e ritrovarla, se gli uccellini non si saranno mangiati le briciole, Per regalare, ad altri, un mappa, nel caso si trovino a percorrere la stessa strada, potremmo condividerne una tratta – dopotutto i compagni sconosciuti, quelli che trovi in treno per una lunga tratta, sono incontri preziosi.
Bello!
Grazie per il bel commento, Ivana. E per la sincerità di cui è intriso. E non è questo, di fatto, un incontrarsi? Lo è. A presto.
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