Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
In un post recente su Dio di illusioni di Donna Tartt (qui) – romanzo di cui, come promesso, scriverò presto – dicevo di piani scombinati e di un susseguirsi di sorprese. Ieri sera, perso in una veloce, velocissima seconda lettura, mi sono imbattuto nella dedica cui non avevo prima prestato la dovuta attenzione. Suona così: “Per Breat Easton Ellis, la cui generosità non cesserà mai di scaldarmi il cuore”. Ma è ovvio, quasi banale! ho subito pensato, ripercorrendo velocemente la trama di Dio di illusioni – gli elementi per una comunione nello spirito fra Ellis e la Tartt ci sono davvero tutte. E così sono tornato a quei post che avevo scritto su Meno di zero di Ellis, entrambi risalenti a molto tempo fa. Tornandoci mi sono reso conto che quei piccoli contributi hanno effettivamente battezzato questo stesso blog. Senza pensarci due volte ho deciso di fonderli e, apportando qualche piccola modifica dettata dal tempo trascorso, riproporli. Si inserisce, questo post, in una operazione più vasta (ne parlavo qui), che non è mero ripescaggio di cose vecchie – ma, con un pizzico di ambizione in più, è vera e propria operazione di riciclaggio. Tentativo di rivalutare, di salvare il salvabile, di andare a cercare fra le pieghe polverose di idee che forse non sono da gettare via. Questa è, da un po’ di tempo, la virtù che sto cercando di coltivare – cercando di allontanarmi dall’ansia del nuovo che tutto divora – cogliere la Differenza nella Ripetizione, il Nuovo nel Vecchio, l’Altro nello Stesso.
Nella valutazione di un’opera non si dovrebbe mai tener conto di quanto si agita intorno all’opera stessa. Tale principio non dovrebbe essere abbandonato neppure quando l’autore è corresponsabile nella messa in scena di strategie editoriali sensazionalistiche. Caso esemplare e controverso, a tale proposito, è quello di Bret Easton Ellis. Parlare di questo autore risulta decisamente complesso, poiché dalla pubblicazione di Meno di Zero (1985) e American Psycho (1991), la stratificazione di recensioni, stroncature, invettive e slittamenti di piano, è stata tale che solo una radicale messa fra parentesi di tutto questo, può permettere di parlare di Meno di Zero senza lasciarsi influenzare dalle impressioni suscitate da American Psycho, opera da molti percepita come mero sfogo incontrollato di un autore che utilizza la pagina scritta per riversare sul lettore delle allucinazioni private che nulla avrebbero a che fare con l’arte. L’unico modo per ritornare all’opera stessa di Ellis deve passare, innanzitutto, per un netto rifiuto di qualsiasi slittamento di piano, evitando di far coincidere i criteri di valutazione dell’opera con il fatto che i contenuti possano apparire più o meno accettabili, tenendo sempre a mente la distinzione fra finzione e realtà. Sgombrare il campo può permettere di individuare uno dei temi (forse il tema) centrali nell’opera di Ellis: la libertà. E ancora, non semplicemente il tema della libertà in generale, ma quello della libertà oggi, nel tempo presente – nella sua doppia accezione. Irriducibile a semplice mezzo stilistico in auge presso una schiera di scrittori degli anni Ottanta, il “tempo presente” come forma verbale utilizzata in Meno di zero assurge a forma che meglio esprime il (mi si passi il termine) nichilismo moderno, dove passato e futuro vengono cancellati in quanto termini ormai privi di qualsiasi significanza psichica. Se per libertà si intende la possibilità che il desiderio venga appagato nel momento stesso in cui sorge, allora il passato (proiezione temporale della Legge, che per definizione è già data e che, quindi, viene prima della libertà e del desiderio), e il futuro (quale luogo in cui la soddisfazione del desiderio dovrebbe essere collocata e raggiunta solo dopo che la Legge sia stata in qualche modo rispettata) vengono a cadere. Il nichilismo non sta nella ricerca del piacere, ma nel fatto che il desiderio non mira ad un obiettivo che richiede l’attraversamento di una distanza. Il piacere stesso diviene pertanto la possibilità di scaricare un grumo di energia che gira a vuoto. È per questo motivo – uno dei motivi – che i personaggi del romanzo d’esordio di Ellis girano a vuoto, schiacciati da una spaventosa contraddizione: alla perenne ricerca di stimoli e, al tempo stesso, schermati da una corazza che da tali stimoli deve proteggerli.
“Meno di Zero” può essere sì una definizione della temperatura emotiva dei personaggi (qualcosa come una estrema radicalizzazione dell’atteggiamento blasé), ma denota anche la consistenza della realtà stessa, il fatto che quello che ci è intorno sia ridotto a meno di zero, che non sia più vincolante – così come nulla di vincolante può essere rinvenuto nello spettacolo di un’adolescente legata ad un letto, imbottita di droga, gli occhi rovesciati nella cecità. Radicalizzazione dell’atteggiamento blasé e temperatura emotiva. Georg Simmel, il grande sociologo tedesco, forse prima di tutti aveva intuito la portata dei mutamenti in atto nella modernità. Siamo all’altezza dei primi anni del Novecento, quando pubblica un piccolo, densissimo saggio dal titolo La metropoli e la vita dello Spirito. Qui l’epoca moderna viene presentata come epoca di crisi “permanente” o, detto in altri termini, epoca in cui il mutamento diviene principio. Entro tale cornice concettuale la metropoli assurge ad allegoria della modernità, spazio dove il principio del divenire si manifesta in tutta la sua potenza e pervasività. In una lotta impari l’individuo cerca in tutti i modi di misurarsi con tale potente scaturigine di novità e mutamento. Il blasé, come atteggiamento, può essere considerato agli albori di quel “meno di zero” che caratterizza il rapporto di Clay (protagonista del romanzo) con la realtà circostante. Il disincanto di chi ha già visto tutto si mescola all’indifferenza per quello che ci è intorno, escludendo così ogni differenziazione, qualsiasi analisi qualitativa, qualsiasi giudizio di valore. Tale radicalizzazione fa tutt’uno con la conquista del mondo da parte dell’economia monetaria, dove il denaro è per principio “equivalente universale”, ossia, sempre seguendo le analisi di Simmel, ciò che abbatte ogni unicità poiché tutto può essere “scambiato”. Di fronte all’eccesso di stimoli, l’ibernazione della psiche e delle sue funzioni permette una difesa che però si manifesta essere difesa solo parziale: se tale difesa si presenta, più o meno radicalmente, come non-riconoscimento dell’umanità dell’altro allora non solo l’Altro, ma anche lo Stesso diviene preda potenziale di qualsiasi eccesso, aperto alla possibilità della violenza. In tal modo non solo l’altro è disumanizzato, ma chiunque lo diviene. Il pericolo è ovunque. Questa è la situazione in cui sono catapultate tutte le comparse del romanzo di Ellis, nessuno escluso. Tutti presi in questo artico emotivo, sono aperti alla giostra della violenza, che può essere tanto inflitta, quanto subita. La guerra di tutti contro tutti teorizzata da Hobbes viene in qualche modo traslata nel dominio di una libertà senza freni. Chiunque può svanire da un momento all’altro, senza una ragione plausibile, senza moventi. Così si può leggere un breve dialogo durante la proiezione di un film: “Non era irritante quel modo di far sparire i personaggi dalla storia senza una ragione? Lo studente tace per un attimo, poi dice: Si, un po’, ma questo succede anche nella vita vera”. Simmel può venire in soccorso ancora per un altro verso. Blasé richiama anche la mancanza di moderazione nella fruizione dei piaceri, poiché questi chiamano i nostri nervi a sollecitazioni così continue ed intense, che questi smettono di reagire, per naturale autodifesa. Ricerca dei piaceri, impossibilità di sentire. Tutto questo si traduce inevitabilmente in una libertà senza freni che va a ruota libera, poiché è incapace di esprimere “preferenze”.
Clay, il protagonista del romanzo, è pallido, e nessuno manca di farglielo notare. Se la mancanza di vitalità è uno dei termini del discorso, allora il racconto dovrà essere ridotto al rango di mera cronaca, resoconto di fatti che non sono frutto di una scelta, ma che si fanno soggetto stesso della storia: da questi fatti Clay è attraversato, non agisce, è agito. È in tale passività che si perde la stessa nozione di tempo, che viene schiacciato sul piano del presente, quale unico contenitore capace di rendere conto del contesto in cui Clay e i suoi conoscenti vivono. Il racconto si frantuma in un resoconto e Clay si attiva e disattiva senza una ragione effettiva, al pari di un lampione difettoso, per strada, illuminando squallide porzioni di mondo. Perduta la profondità del tempo, svanisce anche la tridimensionalità propria delle persone, che vengono qui chiamate all’essere tramite l’avere: “lo psichiatra da cui vado per queste quattro settimane di vacanza è giovane, ha la barba, una 450 SL e una casa a Malibu”. E la presenza dei brani in corsivo, che indicano il passato di Clay, solo superficialmente possono richiamare qualcosa come un tempo perduto e forse rimpianto, mentre via via che la cronaca va avanti, si trasformano nei luoghi dove si annida la crisi, e in tal modo vengono risucchiati entro quell’unico spazio che è lo spazio presente, un’unica terra desolata apparentemente priva di confini. Il passato si risolve in un presente in cui l’innocenza è già perduta; è il luogo di genitori che sognano di divorare i propri figli. Persi nella gabbia d’acciaio del presente, di un presente che fa acqua da tutte le parti, diviene impossibile persino il semplice tenere un diario. Tutto scivola via e Clay pare non avere a disposizione strumenti per trattenere qualcosa, e forse Meno di Zero è proprio quel diario fallito, abortito. E così, incapace di muoversi nel tempo e nel senso, non resta che toccare il fondo. Il che significa vedere fino a che punto si può sollecitare se stessi rimanendo freddi, impermeabili alla realtà e al dolore degli altri: “Mi accendo una sigaretta. L’uomo gira Julian sulla pancia. Chissà se è in vendita. Non chiudo gli occhi. Qui si può sparire senza saperlo”. È in questa discesa che Clay passa attraverso le disavventure di Julian e la vista di un cadavere. Ma anche questo si rivela uno spettacolo insufficiente, perché è del tutto inutile sghignazzare davanti ad un cadavere se si ha la possibilità di fare del male. Alla vista della de-formazione dell’umano stesso, incarnato da Rip (nome che richiama la morte e il riposo e il gelo del cadavere, di chi ha temperatura sotto zero), Clay volta le spalle, spingendosi fino ad una timida protesta: “non mi sembra giusto” riesce a dire, quasi senza fiato, di fronte alla dodicenne legata e drogata. Ma questa non è una riscossa. Non vi è redenzione, poiché è solo un sussulto, un attimo di febbre, una lieve alterazione, un ultimo residuo di vitalità prima che la resistenza di dissolva nuovamente, lasciando tutto immutato. Qui si conclude la cronaca, il diario fallito della s-formazione sentimentale di un ragazzo che non ha nulla di speciale, di un ragazzo come altri: “queste immagini non mi abbandonarono nemmeno quando lasciai la città. Immagini così violente e malvagie che diventarono il mio unico punto di riferimento per molto, molto tempo”. In questo senso, American Psycho è qualcosa che viene dopo.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Pingback: Donna Tartt, Dio di illusioni | Tommaso Aramaico
Breat Easton Ellis non mi convince, ho American Psycho su una mensola da un paio d’anni e non l’ho ancora letto. Lo consiglieresti?
American Pancho è un romanzo divisivo. Personalmente l’ho divorato, così come ho apprezzato moltissimo Meno di zero, Lunar park e Glamorama. Altre sue cose sono da scartare, come Imperial Bedrooms. Nel mio piccolo direi proprio di sì, è da leggere, ma, lo ammetto, potrebbe anche generare un indicibile disgusto.