Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Dopo Schnitzler (qui), Camus (qui), l’incursione dell’abate Dinouart (qui) e di Rainer M. Rilke (qui), mi è tornato alla mente un estratto che lessi molti, ma davvero molti anni fa – ai tempi del liceo. Quel passo da subito divenne una sorta di tavola dei comandamenti per me che, nell’ingenuità di ragazzo, ero alla ricerca di una formula, anzi, della formula. Mi fanno (benevolmente) sorridere le note a margine, le sottolineature, le parole cerchiate. Le rileggo con piacere. La calligrafia stessa, così diversa – eppure così simile a quella di oggi nel suo nervoso procedere – è specchio di un diciassettenne affamato, ancora capace di stupirsi di tutto, ma, al tempo stesso, già alla ricerca di indicazioni per poter in qualche modo arginare, e cioè indirizzare, quella gran quantità di energie che altrimenti rischiavano di andare, nel migliore dei casi, inesorabilmente perdute; nel peggiore, ad ingolfarsi in chissà quale altra attività. L’avevo fotocopiata, quella pagina, e attaccata col nastro adesivo alla mensola fissata alla parete proprio sopra il mio letto. Volevo ritrovarmi quelle parole davanti agli occhi ogni sera, andando a dormire, ed ogni mattina, svegliandomi. Ricordo che qualche tempo dopo, proprio accanto, mio padre aveva attaccato un passo tratto dalla Repubblica di Platone. Nell’estratto si parlava del rischio sempre incombente di precipitare in un mondo in cui i figli si ribellano e ostinatamente non ascoltano la parola del padre – il rischio dell’anarchia. Non l’ho mai tolto, quel foglio, né mai ho chiesto a mio padre dove l’avesse scovato, quel passo, non avendo lui avuto quella stessa formazione che invece stava concedendo a me. Mi ero accontentato di pensare che si era messo a fare una qualche bizzarra ricerca per arrivare a scovare quel passo così denso. Ai tempi non c’era internet. Mi ero accontentato di pensare, in fondo, che aveva speso una gran quantità di energie e tempo per comunicare qualcosa utilizzando il linguaggio – nel senso più ampio del termine – che avevo iniziato ad usare. Per questo motivo non ho mai strappato via quel passo.
Ma torno al brano in questione, intitolato La serietà del mestiere e tratto da Umano, troppo umano di Nietzsche. Lo riporto per intero e in questo preciso istante non so se, a citazione ultimata, aggiungerò qualcosa di mio, sempre che qualcosa di mio possa realmente esistere – cosa di cui dubito quotidianamente e di cui effettivamente dispero ogni volta che mi trovo a contatto con opere vertiginose. E del resto le pagine di questo filosofo hanno segnato così profondamente il mio pensare che mi è impossibile parlarne senza, al tempo stesso, parlar troppo di me. E così, dato che di me non amo parlare direttamente, difficilmente potrò dir qualcosa di lui…
La serietà del mestiere – Non parlate solo di doti naturali, di talenti innati! Si possono citare grandi uomini di ogni specie, che furono poco dotati. Ma essi “acquistarono” grandezza, divennero “geni” (come si dice), grazie a qualità della cui mancanza nessuno, che ne sia consapevole, parla volentieri: essi avevano tutti quella diligente serietà di mestiere, che innanzitutto impara a formare perfettamente le parti, e solo in seguito osa comporre un gran tutto; essi spendevano in ciò molto tempo, perché provavano maggior piacere nel far bene il piccolo e il secondario, che non nell’effetto di un insieme abbagliante. Per esempio, la ricetta per diventare un buon novelliere è facile a dirsi, ma seguirla presuppone qualità sulle quali si è soliti sorvolare, quando si dice: “non ho abbastanza talento”. Si facciano cento e più abbozzi di novelle, nessuno lungo più di due pagine, ma talmente chiari che in essi ogni parola sia necessaria; si scrivano ogni giorno aneddoti, finché non si sia imparato a trovare la loro forma più pregnante ed efficace; non ci si stanchi mai di raccogliere e delineare tipi e caratteri umani; soprattutto, si racconti il più spesso possibile, e si ascolti raccontare, aguzzando occhi e orecchie per cogliere l’effetto sui presenti; si viaggi quanto un pittore di paesaggi o un disegnatore di costumi; si estragga dalle singole scienze tutto ciò che, se ben rappresentato, produce effetti artistici; si rifletta infine sui motivi delle azioni umane, senza sdegnare alcuna indicazione per saperne di più, e si faccia notte e giorno collezione di tali cose. In questo molteplice esercizio si facciamo passare una decina d’anni; ma quello che allora di creerà nell’officina, potrà anche uscire alla luce del sole. Come fanno, invece, i più? Non cominciano con la parte, ma con il tutto. Forse una volta hanno la mano felice, destano attenzione, e da allora fanno cose sempre peggiori, per buoni e naturali motivi. Talvolta, quando mancano ragione e carattere per formare un tale programma di vita artistica, prendono il loro posto il destino e la necessità, e conducono passo passo il futuro maestro attraverso tutte le condizioni del suo mestiere.
Dirò del passo, e dunque di me, ancora in relazione ad altri. E del resto di sé si può parlare sempre e solo a partire da qualcosa che non è noi stessi. Dunque, molti anni dopo l’incontro con questo passo, e il suo rovescio platonico, mio padre, guardando con occhio ammirato il suo primo nipote, mi confidava che si ritrovava oggi a pensare di lui, quanto a suo tempo pensava di me – Questo, o diventa un genio o un delinquente. Tu non sei diventato nessuno dei due. E poi, dopo una pausa dettata dall’età avanzata e, forse, da un pizzico di saggezza e capacità di dire, ha trovato la forza per chiosare – Però sei diventato un uomo, fai quello che devi fare. Detto ciò, ha chiamato il nipote per portarselo nel sottoscala, lì dove ci sono attrezzi d’ogni tipo e viti e bulloni e tutte quelle cose che possono deliziare un bambino.
Mi piace pensare che mio padre sappia poco di quello che faccio; mi piace pensare, al tempo stesso, che sappia ciò è essenziale sapere, e cioè che la ricerca della serietà – nell’accezione più ampia del termine – abbia da sempre costituito per me un’urgenza. Mi piace pensare che, nel tempo, sia rimasta costante, in me, una certa ostinata serietà nel trattare anche ciò che è piccolo. Mi piace, dopo più di vent’anni dalla prima lettura di quel passo di Nietzsche, riconoscermi sostanzialmente (ovviamente non alla lettera) fedele a quel dettato, ancora desideroso di essere un modesto artigiano che si delizia a lavorare su cose piccole, piccolissime, ma frutto di serietà ed onestà.
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
scrittore in Milano, Mondo
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
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