Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Non starò qui a dire quel che è avvenuto prima, non starò a fare l’elenco – a dire il vero sterminato – delle fantasticherie di cui mi nutrivo. Non parlerò delle serate passate a sognare vite impossibili, gloriose. E, lo ammetto, non starò nemmeno a dire le cose per come sono veramente andare, non in modo diretto, almeno, non fedelmente, di certo. Cercherò di dire la verità di un certo, per fortuna limitato, periodo della mia vita, ma senza piegarmi ai fatti. Che cosa è poi questa fedeltà ed aderenza ai fatti? Roba da fanatici. Sta, di fatto, che a un certo punto ho iniziato far parte del Gruppo 9. Avevo delle idee, ai tempi, credevo di essere ardito.
Era uno dei tanti pomeriggi in cui, scioperato, mi trascinavo in una delle mie abituali passeggiate pomeridiane. Non avevo tempo da perdere nello studio, mi dicevo che dovevo fare ben altro. Andavo a caccia di volti, di voci, di qualsiasi cosa potesse attirare la mia attenzione. Mi accontentavo, all’occorrenza, degli odori che esalavano dalla città sempre più sporca. Salivo sugli autobus, cercavo di attaccar bottone con anziane signore nella speranza di catturare qualche aneddoto succoso, che prontamente segnavo sulla mia agendina piena di poemetti abortiti, racconti iniziati e mai finiti e, se finiti, decisamente illeggibili. Senza arte né parte, quel pomeriggio, annoiato fino alla morte, mi sono ritrovato al capolinea del 70. Non ero mai stato in quel quartiere, che era un dedalo di viuzze tutte uguali, impreziosite di cassonetti stracolmi di immondizia. Stavo appuntando le mie impressioni sull’agenda, quando, all’improvviso, mi sono imbattuto in una tipa stramboide che, in piedi su di una cassetta di legno, recitava dei versi. Ero rimasto impalato lì in mezzo alla strada.
Non era granché, in fondo, e i suoi versi erano orrendi, ma io ero disposto a mandar giù tutto tutto, pur di continuare a vivere il mio sogno. E tanto ero pieno dell’immagine di me che volevo realizzare, che prima mi innamorai di lei e poi di quello che la circondava. I suoi versi declamavano la bellezza dello scarabeo, si scagliavano contro l’arroganza del cardellino, esalavano sarcastico disprezzo nei confronti dell’upupa. Non risparmiava parole velenose nei confronti del ramarro. E dato che ero pazzo anche io e che proprio quella notte avevo buttato giù una manciata di versi su di una falena e un topo, mi ero convinto che l’anima mia e quella della non troppo bella poetessa, seppur per strade diverse e solitarie, si erano finalmente ritrovate nella medesima radura. Eravamo fratello e sorella, uomo e donna, amanti.
Quando aveva finito di leggere c’era stato un breve applauso al quale io mi ero unito. La mia commozione era stata bruscamente interrotta da un capellone uscito fuori da un locale buio che dava sul vicolo: «Qualcun altro vuole leggere un suo componimento?». Con viso butterato e capelli oleosi che parevano conditi al pinzimonio, mi fissava sorridendo: «Se vuoi leggere qualcosa, la cassetta è tua, ma attento…» e mi indicava la targa sulla bottega che riportava il nome e, implicitamente, il manifesto del circolo di poeti dove ero capitato – Gruppo 9: «Siamo nove poeti, tutti cazzuti».
Non avevo mai osato leggere nulla a nessuno che non fosse la parete della mia stanza o la mia immagine allo specchio, ma quel pomeriggio, ripeto, ero particolarmente inquieto. E così mi ero ritrovato sulla cassetta di legno, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un foglio con su scritta quella che consideravo la mia più bella poesia, Vattene falena bugiarda, sto desinando con il sorcio.
È stato un successo inaspettato. La tipa si grattava la chioma spettinata, e non so bene se avesse ascoltato. Stesso discorso per il capellone, che sembrava essersi addormentato contro la parete scalcinata. Eppure, anche se a fatica, si era staccato dall’antico intonaco e debolmente aveva battuto le mani: «Ti voglio nel Gruppo 9». Mi si annebbiava la vista, mentre lo ascoltavo parlare, forse frignavo un poco mentre mi beccavo pacche sulle spalle e buffetti che parevano più minacce che segni di amicizia. Ma insomma, lasciavo fare. Il capellone mi spiegava che loro non usavano nomi propri, ma solo nomi inventati. Parlava di una non meglio specificata volontà di soppiantare la violenza borghese che ci schiaccia per mezzo di nomi che non abbiamo scelto. Lui si chiamava Spacca-la-Rima ed era il fondatore del gruppo. Uno dopo l’altro mi presentava gli altri componenti, che uscivano dalla bottega antica che, Spacca-la-Rima lo aveva messo in premessa, era un vecchio locale appartenuto al nonno. Mi indicava un tipo non più giovane: «Lui si chiama Senior. Lui è Bonzo» ed ecco un tipo incredibilmente magro con i capelli rasati a zero che, in segno di saluto, giungeva le mani all’altezza del mento: «scrive poesie misticheggianti…pagine bianche e cose del genere, capirai! Lui è Gualtieri-senza-Averi» e da una sedia lì sul ciglio della strada, lentamente si alzava in piedi un ragazzo sovrappeso: «scrive per lo più poemi a sfondo storico. Lui è Trapanos», un moro con occhi spiritati si materializzava alle mie spalle: «lo chiamiamo così per tenere viva la nostalgia del suo paese d’origine, ma, soprattutto, perché sistema le sue poesie su tavole di legno e con il trapano le fora ad occhi chiusi. Lo fa per rifuggire da qualsiasi dogmatismo del creatore nei confronti della propria opera o qualcosa del genere» Trapanos a quel punto apriva la giacca facendo balenare la punta di ferro del suo trapano. «Lei è Erotica» e mi indicava finalmente la stramboide per la quale, a mente, avevo già composto un paio di sonetti tutti rime e fiocchetti: «Le sue poesie sono piene di accoppiamenti fra insetti rari che partoriscono mostri capaci di incutere terrore e disperazione, nonché spaventose visioni…dice di ispirarsi a Poe, ma di più non so…mai letto e sentito prima» e qui si bloccava per un attimo, come concentrato in chissà quale sforzo cognitivo, per poi esplodere ad alta voce: «Poe? Boohh!». Tutti ridevano, tutti tranne me. Dopo il compiacimento si era ricordato di me: «Lui sarà Cloaca, che ne dite, eh?». Gli altri non parevano troppo interessati alla cosa. Iniziavo a pensare che cercassero in ogni modo di accontentarlo. Io non osavo protestare. Mi ero permesso di fare una sola domanda: «Manca qualcuno, giusto?». Spacca-la-Rima sembrava non capire, quindi avevo insistito: «Tu mi hai presentato Senior, Bonzo, Gualtieri-senza-Averi, Trapanos, Erotica e questi più me e te fanno sette in tutto. Se siamo il Gruppo 9, ne mancano due!». «Contiamo di arrivare a nove entro la fine del mese» aveva risposto, laconico. Non so se laconico si usa così come l’ho appena usato, ma era stata la prima cosa che avevo pensato. Per inciso, avevo soffocato sul nascere la questione se non fosse il caso di ribattezzarci Gruppo 10. Questione oziosa, evidentemente.
È così, del tutto casualmente, che sono entrato a far parte del Gruppo 9. È stato un periodo relativamente felice della mia vita. Ero convinto di aver intrapreso la strada giusta, la mia strada. Ma di questo dirò la prossima volta.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Essere “Cloaca” e fieri di ciò non è niente male 🙂
L’importante è essere felici e, a quanto mi pare, tu lo eri.
Già, in un contesto “iperbolico”, persino il destino di chi viene chiamato “Cloaca” può essere tollerato o, addirittura, desiderato!
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