Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Preso un paio di giorni fa alla mia bancarella di fiducia di libri usati, Dio di illusioni di Donna Tartt, prima di finire nelle mie mani, era stato di una certa Cristina L. Il nome è scritto all’interno, a matita e con tratto leggero, sbiadito nel tempo. Dopo aver sfogliato le prime pagine e aver letto il Prologo non me ne sono staccato. Era tempo che un romanzo non irrompeva in questo modo, catturando così prepotentemente la mia attenzione e cambiando i miei programmi di lettura – lo ammetto, ne ho. Benedico questo imprevisto e riporto il Prologo – ovviamente con il proposito di scrivere del romanzo a lettura ultimata. Il post è necessariamente una forma di ringraziamento rivolto a Cristina L. Cadrà di certo nel vuoto, così come senza risposta resterà la domanda su cui poggia questo post. Io, di risposte, ne ho trovate almeno sei, tutte egualmente accettabili; tutte, dunque, inaccettabili: perché se ne è separata?
La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont-polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell’esercito; il college chiuso, la fabbrica di colori ad Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal Nord dello Stato di New York, addirittura da Boston.
È difficile credere che il semplice piano di Henry potesse aver funzionato tanto bene, nonostante tali eventi imprevisti. Non avevamo l’intenzione di nascondere il corpo dove non potesse essere trovato: invero non l’avevamo nascosto per nulla, bensì semplicemente lasciato dov’era precipitato, nella speranza che qualche sfortunato viandante vi incespicasse, prima che si accorgessero della sua scomparsa. Era una storia che si raccontava da sola, semplicemente e bene: le pietre smosse, il corpo in fondo al burrone con il collo rotto, e le strisce fangose dei tacchi a segnare il tragitto della caduta; un incidente durante un’escursione, niente di più, niente di meno. E la cosa sarebbe rimasta in questi termini, non fosse stato per la neve che cadde quella notte; il bianco manto ricoprì senza lasciar trasparire la minima traccia, e dieci giorni più tardi, quando venne finalmente il disgelo, la polizia di Stato, l’FBI e tutti coloro che, dal paese, avevano preso parte alla ricerca, videro che erano andati in su e in giù sul suo corpo fino a che la neve gli si era indurita attorno come ghiaccio.
È difficile credere che un tale trambusto abbia avuto luogo a causa di un atto di cui io fui parzialmente responsabile; e ancor più difficile credere di aver vissuto quei momenti – le macchine fotografiche, le uniformi, le torme che brulicavano sulle pendici del Monte Cataract, nere come formiche in una zuccheriera – senza incorrere in un briciolo di sospetto. Ma aver attraversato quei momenti è una cosa, uscirne, disgraziatamente, si è dimostrato un altro paio di maniche; e sebbene una volta abbia pensato di aver lasciato quel burrone per sempre, in un pomeriggio di aprile di tanto tempo fa, ora non ne sono così sicuro. Ora tutta quella gente che cercava Bunny è andata via, la mia vita è tornata tranquilla; e io sono giunto a capire che sebbene per anni potevo aver immaginato di essere altrove, in realtà sono sempre stato lassù in cima, presso i solchi fangosi delle ruote nell’erba nuova, dove il cielo è cupo sopra i fiori di melo che ondeggiano alla brezza, e il primo freddo della neve caduta quella notte è già nell’aria […].
Ricordo la via del ritorno, e i primi solitari fiocchi di neve che arrivavano errando tra i pini; ricordo l’allegria mentre ci si stipava in macchina e si riprendeva la strada come una famiglia in vacanza, con Henry che guidava tutto teso tra le buche e gli altri appoggiati ai sedili anteriori, a chiacchierare come bambini; ricordo anche troppo bene la lunga e terribile notte che mi attendeva, e le lunghe terribili giornate e notti che seguirono: ho solo da darmi un’occhiata alle spalle perché tutti questi anni svaniscano, e io lo riveda di nuovo dietro di me, il burrone che mi sorge incontro, verde e nero tra i virgulti, un’immagine che non mi abbandonerà mai.
Suppongo che a un certo punto, nella mia vita, avrei potuto narrare un gran numero di storie, ma ora non ve ne sono altre. Questa è l’unica storia che riuscirò mai a raccontare.
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
Grazie!
Ciao, buon anno, anche se la Befana è ormai passata… 🙂
…purtroppo, aggiungo!
L’inizio è molto coinvolgente
È un libro davvero bello. Saprò dirne qualcosa in più fra qualche giorno.
Mai letta questa autrice. Ora aspetto il tuo OK
Gettato il sasso, non posso nascondere il braccio!
L’ho in libreria da anni, è un romanzo fantastico, ti prende e non l’ho dimentichi più. Certo è strano che se ne sia parlato così poco.
È vero. Strano. Pare che il libro sia rimasto sospeso in aria, in parte confinato al mondo della critica, senza però poi entrare (come merita) in quello più vasto dei lettori.
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