Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Itinerari della malinconia

La teoria della malinconia nasce nel momento in cui i filosofi e i medici iniziano a voler spiegare la paura, la tristezza, i disordini dello spirito, con una causa naturale…non sono gli dei, né i demoni, né la misteriosa notte a turbare la ragione degli uomini: essi sono vittime di una sostanza che si accumula nei loro corpi.

Oggi suona quasi ridicolo usare il termine malinconia. Per non parlare, poi, dell’idea dell’esistenza di una sostanza o di un umore dalle caratteristiche potenzialmente letali. Qualcosa di naturalmente connesso alla nostra stessa vita corporea, un fluido che può stagnare nel corpo e indurirsi fino ad occluderne le vie interne con conseguenze nefaste. La parola malinconia ha un sapore dolciastro, quasi patetico, da “anime belle“, tale da far sorridere, se fatta risuonare in un mondo dove tutto è considerato misurabile, in un’epoca dove gli stati d’animo sono ridotti ad effetto di reazioni chimiche, a scariche elettriche, da incasellare in un sistema di pensiero in cui le reazioni eccentriche e i disagi sempre più ricorrenti dell’uomo contemporaneo vengono prima ordinati e classificati secondo descrittori e codici e poi accompagnati da pratiche farmacologiche. Eppure, la storia di questa parola nasconde molto altro, qualcosa di prezioso, una sapienza da recuperare e da conservare, poiché capace di offrire, se ben letta, una legittima via di fuga dalla rassegnazione ad un’esistenza che deve a tutti i costi integrarsi senza opporre resistenza, reggendo l’urto del mondo rispondendo in termini di efficienza, azione e conseguimento di risultati tangibili. In questa prospettiva il pluriennale lavoro di Jean Starobinski raccolto nel volume L’inchiostro della malinconia, permette di seguire le tappe fondamentali di una delle condizioni che nel modo più universale e pervasivo hanno accompagnato il cammino dell’uomo dall’antichità fino ai giorni nostri.

Il primo incontro è quello con Ippocrate e i suoi studi sulla bile nera – sostanza spessa, tenebrosa, portatrice di caos e scompensi, se impedita nel flusso naturale degli umori del corpo, portata a cementificarsi, a condensarsi e a secernere fumi dannosi capaci di levarsi dalle viscere e arrivare su fino al cervello, per offuscarlo e gettare l’uomo in preda alla malinconia e alla sua ambivalenza di fondo.

La parola malinconia designa un umore naturale, che può non essere patogeno. E la medesima parola, allorché è interessata principalmente l’intelligenza, designa la malattia mentale prodotta dall’eccedenza o dall’alterazione di questo umore. Tuttavia simile disordine comporta qualche privilegio: conferisce superiorità spirituale, accompagna le vocazioni eroiche, il genio poetico o filosofico.

E allora ecco che proprio l’uomo che si allontana dalla mediocrità, l’uomo in grado di cogliere le verità più alte e capace di produrre frutti scintillanti e preziosissimi è, al tempo stesso, quello che corre i rischi più grandi. Nasce così l’esigenza di dar vita a tutta una serie di pratiche, discipline e rimedi pescando in quella farmacia a cielo aperto che è la natura. Piante come l’elleboro o la mandragora, ma anche punizioni spesso disumane e il ricorso a mezzi forti: catene, choc e terrori improvvisi, tutto nella convinzione che l’uomo, nella malinconia, si sia come addormentato o rintanato in chissà quale dimensione e che tali pratiche servano a svegliarlo o a stanarlo. Si tratta di andare a lavorare lì dove si registra un “ingorgo, una stasi, un’ostruzione, un rigonfiamento nella regione degli ipocondri” con relativi problemi allo stomaco, da cui si levano “fumi” che confondono le idee provocando allucinazioni. E allora, non molto diversamente da quanto per certi versi si riscontra anche oggi, vengono prescritte regole in alcuni casi banali, in altri di buon senso. E dunque, giusto per fare qualche esempio, i malinconici dovrebbero vivere in locali ventilati, concedersi diversivi e distrazioni, soddisfare piccole vanità e seguire moderati desideri.

Quando dal mondo classico si entra in quello cristiano si impone l’idea di “acedia“, che è vuoto ed assenza di speranza e dell’agire, un disperare rispetto alla possibilità della propria salvezza, che si salda al gesto esistenziale proprio del malinconico – un modo di condurre l’esistenza che dalla contemplazione e dalla predisposizione all’esercizio delle virtù intellettuali conduce alla disperazione. È per questo che ritorna fortemente al centro il tema del lavoro, della sua capacità di arginare l’ozio, di scongiurare l’orribile del tempo vuoto, del tempo morto in cui nascono i mostri della ragione e del corpo, che invece proprio attraverso la disciplina del lavoro può mettere a regime le energie che ospita, restituendo così integrità al soggetto. Vista in quest’ottica, sulla malinconia verrebbe ad aleggiare l’ombra della colpa, l’insufficienza di una volontà debole, cedevole. Tanto cedevole che al malinconico non sarebbe imputabile solo una mancanza di volontà, ma, al contrario, la presenza di una ferma volontà di rimanere ancorato al suo sistema di vita, a crogiolarsi nel dolore, nell’accidia, godendo del suo pianto perpetuo.

In questa oscillazione tra il fisico e il morale, la malinconia attanaglia la mente e vi prende dimora per mezzo di idee fisse che contribuiscono alla trasformazione morale del soggetto, ad accelerare la sua discesa agli inferi. Ed ecco che il concetto di malinconia si dilata e nel tempo si gonfia, assumendo contorni meno precisi, accogliendo nella propria schiera soggetti deliranti, in preda ad ossessione nevrotica, al delirio paranoico. Ma l’idea delirante, ciò che sembrerebbe assillare il malinconico non sarebbe la radice ultima del male, bensì solo una sua espressione verbale o rappresentazione e dunque un suo mascheramento, un suo travisamento.

…i grandi malinconici, pur se possono seguire lo sviluppo del ragionamento consolatorio, non se ne sentono interessati: la logica non raggiunge la zona in cui si radica l’idea delirante. L’errore è qui di credere che l’idea sia il centro o il nucleo fondamentale della malattia, mentre essa non è che la verbalizzazione occasionale, l’espressione contingente. Il disturbo si situa a un livello affettivo preverbale, prelogico, inaccessibile a ogni approccio raziocinante.

Più che discorsi, come detto, servono nuove pratiche e stili di vita, e dunque viaggi, diete specifiche, soggiorni in stabilimenti termali, ascolto di musica adatta. Col passare del tempo e col progresso delle scienze si arriva a dare nuovamente spazio a pratiche antiche e consolidate, ma a partire da basi diverse. Ed ecco che i vecchi farmaci, le antiche erbe e piante faranno da apripista all’uso di droghe. Oppio e cocaina, che non mancheranno di presentare il conto per il loro uso e abuso, entreranno con prepotenza nella “farmacia” del malinconico.

Maledizione o dono divino, capacità di cogliere le più alte verità dello spirito o gorgo accidioso che sia, la malinconia è uno stato intrinsecamente legato all’umano in quanto tale. E cosa dovrebbe significare, poi, curare la malinconia? Eliminarla, sfrattarla dalla credenza dello spirito, rendendolo forse più povero e spoglio? O non è forse meglio tentare una convivenza possibile? È possibile trovare il giusto mezzo fra due visioni opposte della malinconia? Se ne possono accettare i dolci doni e le tristezze cristalline in cui brillano idee e immagini, ma al tempo stesso difendersi dal pericolo che possa ammaliare lo spirito e la mente, scavando l’esistenza fino alle sue fondamenta? Ci si può difendere dalla china che fa scivolare nell’inconsistenza, lì dove tutto viene reputato falso e ingannevole? Si può scongiurare il rischio di perdersi in una regione da dove l’intero operare umano apparirà solo un futile andirivieni, un pullulare di attività folli, tali da suscitare il riso o il pianto? Qui si pone la questione non del superamento definitivo della malinconia, ma della possibilità di integrarla – non domarla – all’interno di un sistema di vita, magari per mezzo dell’ironia o dell’umorismo, ma senza rischiare di aprire – con questi atteggiamenti dello spirito – una frattura fra il soggetto e il mondo. Insomma, c’è un sentiero possibile che porti all’autenticità? Difficile a dirsi, ma certamente un legame sottilissimo lega questa “malattia” con la possibilità del suo superamento – è la possibilità di mantenersi sul margine, al confine, e da lì gettare lo sguardo oltre lo steccato del senso comune. Respirare a pieni polmoni l’aria mefistofelica della malinconia, della follia, del vuoto di senso, ma senza esserne risucchiati. E da qui farne qualcosa, rendendo tutto questo un materiale su cui lavorare attivamente e non solo da subire in una passività senza scampo. Fra queste attività c’è forse quella dello scrivere: qui la malinconia produce il suo stesso antidoto nel momento in cui a tali esperienza dà forma e dunque senso. Come spiega Starobinski, la malinconia è quell’inchiostro cui attingere per poter salvare qualcosa, almeno qualcosa, dalla devastazione del tempo che tutto riduce a nulla e che tutto svuota di senso, poiché la scrittura, se cristallina, nel momento stesso in cui dichiara la propria insufficienza, il proprio scacco, in realtà rifulge di uno splendore che aggira il tempo e la caducità di tutte le cose, riuscendo ad immortalare proprio quanto dichiara perduto. Shakespeare lo afferma in uno dei suoi Sonetti:

Che in nero inchiostro, l’amor mio splenda fulgido per sempre

11 commenti su “Itinerari della malinconia

  1. Guido Sperandio
    dicembre 8, 2018

    Ti ho letto e adesso sto rimuginando… 🙂
    Un salutone, ciao…

    • tommasoaramaico
      dicembre 8, 2018

      Post sulla malinconia che porta al rimuginio…e dunque più che da antidoto fa da vettore appestante. Ironia della sorte

      • Guido Sperandio
        dicembre 8, 2018

        Ahahahah! Noooo… è un elemento in più che entra in concorso alle riflessioni varie… (quel famoso inflazionato ma non per questo non valido: cogito ergo ecc. ecc. )

  2. Alessandra
    dicembre 8, 2018

    Tentare di conviverci, integrandola nel proprio modus vivendi… non è facile. Tenerla a bada con l’ironia, cercando di non prendersi troppo sul serio… non sempre funziona. Ma quando la mancanza di senso arriva, un po’ alla volta, a suscitare un desiderio di morte, di annullamento di sé, si tratta ancora di malinconia o bisogna pensare a qualcosa di più grave?

    • Guido Sperandio
      dicembre 8, 2018

      X Alessandra.
      Analisi, progressione, perfetta.

    • tommasoaramaico
      dicembre 8, 2018

      Hai toccato il punto – dove collocare la soglia di guardia? Se non ricordo male, Freud da qualche parte scriveva che una vita passabile è quella in cui si è capaci di amare e lavorare. Non mi sembra male, come generalizzazione…il negativo, poi, è parte integrante della vita; anzi, ne è parte essenziale, è punto di partenza, qualcosa che obbliga a farne qualcosa. Credo che sia lì dove il singolo non riesce più a farne qualcosa, nel caso di una impasse, che si renda necessario chiedere aiuto. Tutti chiedono aiuto, ascolto, in ogni momento – è quello che stiamo, o quantomeno sto facendo proprio adesso – ma in modo diverso e con una diversa “sete”…

  3. Ivana Daccò
    dicembre 9, 2018

    Srebbe bello, quasi necessario, recuperare la parola “malinconia”, in un mondo, oggi, dove l’uomo-macchina deve unicamente funzionare oppure, “essere curato” e, rapidamente, rimesso in funzione. Oggi, la malinconia non può venir “mostrata”, a rischio di venir tradotta in “depressione”, e risolta con una pastiglia, che libera chi è vicino dall’ ascolto – o con l’ascolto pagato, professionale, anche utile, certo (con, tuttavia, pastiglia aggiunta).
    Un tema enorme. Un libro interessante.

    • tommasoaramaico
      dicembre 9, 2018

      Questo era l’intento di fondo del post. Andare a guardare in quella zona d’ombra dove l’uomo spesso si va a nascondere e rivendicare la sua legittimità senza disconoscerne o sottovalutarne i pericoli. Il libro è una vera miniera.

  4. Ivana Daccò
    dicembre 9, 2018

    Sì, credo che dovrò trovare il tempo di leggerlo.

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Questa voce è stata pubblicata il dicembre 8, 2018 da con tag , .

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