Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Admeto guarda la moglie che gli dà le spalle, intenta a sgrassare la teglia unta degli umori del pollo cotto al forno con le patate, Allora? Alcesti sospira, mentre con la pezzetta insiste e si accanisce sullo smalto corroso dal tempo, dalle innumerevoli cene e da una forza che, di troppo, lì aveva spesso trovato serale sfogo. Alcesti, al momento, non è troppo diversa da quello smalto corrotto dal tempo. Pure lei, nell’erosione di una vita, si sente morire, Va bene. Admeto le passa un panno e, mani asciutte, la invita a firmare un modulo. Duplice copia. Sistema i fogli in una bustina trasparente, quindi si avvicina alle spalle della moglie, la abbraccia e la bacia. Alcesti si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, Lasciami finire, dice con un filo di voce. Admeto si blocca e fa un passo indietro rispetto a quella donna che lui, dopo anni, adora ancora. Vado a dormire, dice Admeto, perdendosi in un altro, potenzialmente infinito abbraccio. Alcesti fa cenno di sì, mentre insiste con la pezzetta, combattendo un lontanissimo principio di nausea. O è solo suggestione?
La notte passa insonne. Admeto disteso sul letto, gli occhi puntati sul comodino coperto di carte, su quelle carte che richiedono sempre più tempo, lucidità, attenzione e silenzio. Alcesti attraversa la notte cercando una risposta diversa, altra, alla domanda del marito. Non la trova. Rimane seduta sul divano con le gambe incrociate, faccia a faccia contro la televisione accesa a basso volume. Non è sufficiente essere moglie fedele, non è sufficiente essere stata ed essere ancora bella. Il marito adorato le stava chiedendo di non essere Alcesti. E lei per continuare ad essere Alcesti sentiva che doveva smettere di esserlo, almeno in parte. Era stordita e l’unica cosa reale, in questa notte infinita, erano i suoi adorati figli. I figli concepiti, ingrassati nel suo ventre e poi donati al mondo. Aveva passato la notte registrando tutti i lievi rumori che si liberavano dalla loro camera. Aveva contato e interpretato i mugolii nel sonno e dato una forma ai loro corpi di bambini alla ricerca continua della migliore delle posizioni possibili. Molte volte si era alzata per andare a controllare e tutte le volte aveva pensato di tornare a stendersi accanto al suo adorato marito, accanto a colui per cui stava per rinunciare ad essere Alcesti per poter continuare ad esserlo. Perché Admeto le chiedeva tanto? Non era stata sufficiente una vita fatta di pura dedizione? Tutte le volte era tornata al suo divano. Non poteva fare a meno di tenere gli occhi puntati al grande tavolo circolare su cui campeggiava la borsa da lavoro di Admeto, piena di documenti decisivi. Lì, su quel tavolo, nel buio di quella notte che pareva infinita, brillava la sua firma. Quella firma attestava il suo essere Alcesti nel momento in cui sottoscriveva la sua rinuncia ad esserlo.
Admeto si leva assieme al sole e Alcesti, donna dalle antenne sensibili, apre gli occhi e si ritrova stesa sul divano, la testa sul cuscino, coperta da un lenzuolo. La televisione è spenta. Dalla cucina, soffocato, si spande il gorgoglio del caffè che ribolle nella caffettiera. Si tira su a sedere, ma non ha il coraggio di alzarsi e andare a fare colazione. Non era mai accaduto, in quindici anni di vita insieme, che non trovasse il coraggio per incontrare gli occhi di Admeto. Non essere Alcesti per esserlo. Che assurdità. Si stende nuovamente per alzarsi solo quando sente il marito chiudersi in bagno. Come sempre, in cucina, trova la tavola apparecchiata. Ci sono la sua tazza, il cucchiaino, il miele, la tazzina, la caffettiera ancora calda poggiata su di una vecchia mattonella al cui centro splende un sole dipinto a mano. Alcesti si concentra su quella mattonella che lei e il marito avevano comprato assieme molti anni prima, quando i loro figli non erano ancora nati. Non ha fame. Beve un caffè amaro, tiepido, disgustoso. Admeto esce dal bagno e Alcesti sente nuovamente quel brutto senso di oppressione al petto. Preme proprio al centro, fra quegli stessi seni che avevano accolto il viso dei figli e, ancora prima, del suo adorato sposo. Admeto, senza passare per la cucina, cammina lungo il corridoio e va in camera da letto. Alcesti riprende a respirare. Le pare di vederlo mentre si infila i pantaloni e le scarpe, mentre sistema i documenti che aveva preso dal tavolo in soggiorno, mentre lei dormiva, ignara di tutto. Quante volte, quella notte, aveva creduto di riuscire a trovare in sé il coraggio per alzarsi e strappare tutto? Le prime pagine dei giornali che scorrono sullo schermo della televisione accesa le paiono un’accozzaglia di inutili parole. Il cuore inizia a battere più velocemente, si fa sentire. Deve essere stato quello schifoso caffè.
È la prima volta da quando vivono insieme che la porta di casa si chiude alle spalle di uno senza che l’altro sia lì a salutare con gli occhi quello che esce per primo. Admeto aveva raccolto le sue carte, preso la borsa ed era uscito, e lei adesso è lì, chiusa in cucina, abbandonata ad una solitudine da quattro soldi, priva di sapere e di futuro. Le campane della chiesa suonano sette rintocchi e i bambini si svegliano. Con le labbra umide di sonno la baciano sulle guance. Hanno fame di abbracci, oltre che di cibo. Prendono posto a tavola. Alcesti li osserva mentre mangiano, sorride quando loro ridacchiano, diventa improvvisamente seria, se vede qualcosa che non le piace. Perché non parli, mamma? Le chiede il figlio più piccolo. Alcesti risponde con una carezza e lo bacia sulle labbra. Trattiene un conato. Di dove viene? Dalla sua mente in fiamme o dal suo corpo carico di futuro, potenzialmente infinito e in balia di propositi scellerati?
La casa è vuota di tutti, Alcesti è sola, seduta sul divano con le gambe incrociate, i lunghi capelli raccolti sulla nuca, infilzati con una delle matite dei figli. Tiene gli occhi chiusi e si lascia investire dalla luce che entra dalla porta finestra spalancata. A tratti rabbrividisce per l’aria fresca del mattino. I bambini sono a scuola e lei non sta facendo tutta una serie di cose che invece dovrebbe fare. Molto semplicemente, non ne ha voglia. Non adesso, non ancora. Respira, forse.
Passa un tempo che non può essere misurato con gli orologi e Alcesti non ricorda più nulla, non il peso che per una notte aveva premuto contro il suo florido petto, non il viso dei figli, non le parole dell’adorato sposo che le chiedeva di essere Alcesti rinunciando a se stessa. Non ricordava neppure la sua risposta, il gesto della mano che appone la firma, ben leggibile, sui moduli. Sente solo una lontanissima nausea. La serratura della porta di casa scatta e con essa scattano pure le sue palpebre. Per il resto rimane immobile. Non aspetta nessuno. Qualcuno la chiama, pronuncia il suo nome, Sono io, dice, ma lei ha perduto la facoltà della parola. Si volta verso il corridoio. È Admeto. Si avvicina stringendo fra le dita quei fogli che il giorno prima, dopo tanti discorsi pieni di buonsenso, le aveva fatto firmare. Sono lì, fra loro. È la prima volta che qualcosa si mette fra loro. Possibili che quattro inutili fogli possano avere un tale potere? No, è impossibile. Admeto li strappa e il mondo stesso di libera di un peso inutile ed insopportabile, Preparo un caffè, dice. Alcesti fa cenno di sì e segue con gli occhi il marito che esce dal soggiorno. Rimane seduta sul divano, respira profondamente. Sente il rumore dei fogli che vengono strappati in pezzi sempre più piccoli, distrutti, irrimediabilmente perduti. Si alza solo quando lui la chiama. Adesso siedono alla medesima tavola, in silenzio. Alcesti è ancora Alcesti e avendo per una notte rinunciato ad esserlo era rimasta se stessa. In realtà non aveva mai, nemmeno per un istante, rinunciato a nulla. Si passa una mano sulla fronte, forse ha una linea di febbre. Nulla di strano, le era già accaduto. Finale prevedibile, eppure agognato, fonte di letizia. Il marito non avrebbe mai veramente osato chiederle di non essere Alcesti. Così era stato. Davanti a lei c’è Admeto, l’adorato sposo di cui lei, Alcesti, è adorata sposa. E questo è quanto.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Che bello! Una lettura…altre…Una intera storia.
Grazie Ivana, come sempre.
Grazie a te. Sempre interessante leggerti
Bella la rivisitazione in chiave moderna del famoso mito greco… Sei riuscito ad essere “toccante” senza cedere a patetismi di sorta, ma anzi mantenendoti su una linea costantemente sobria e delicata (ma non per questo meno incisiva).
Grazie Alessandra, sono esercizi di sottrazione, nascono dal tentativo di ripulire il discorso da elementi patetici.