Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Dopo L’ospite, l’altra donna, la vera vita, vorrei oggi presentare altri tre dei nove racconti che compongono Rovesci. Se i precedenti erano legati dall’idea del tormento che segna ogni tentativo di entrare in una autentica relazione con l’altro, questi hanno al contrario in comune l’idea che l’inferno (parafrasando e rovesciando il celebre motto sartriano) sia lì dove si cerca di far a meno dell’altro, di negare la relazione, rincorrendo il miraggio di una impossibile autosufficienza. Sono storie che hanno una forte connotazione famigliare, che si giocano all’interno delle mura domestiche, storie che trattano di vite le cui contraddizioni raramente sono ravvisabili all’esterno, contraddizioni e conflitti che però, quando emergono, lo fanno in modo esplosivo, eclatante. Vite-pentole-a-pressione da tempo difettose o troppo a lungo lasciate sul fuoco senza mettere mano alla valvola di sfogo. Questo è il caso del racconto intitolato Dario Hulazowsky, storia di un ragazzo schiacciato nella morsa delle troppe responsabilità dopo la morte della madre, storia di un ragazzo obbligato a prendersi cura della sorella e che ha dovuto imparare a difendersi da un padre spesso assente, incattivito e sfiancato dalla vita.
Dario Hulazowski è davanti allo specchio e non è né incazzato, né preoccupato. Potrebbe sembrare cosa di poco conto, ma il fatto che, come ogni giorno di primo mattino, si sia piazzato davanti allo specchio e non si sia incazzato di brutto è un vero evento e questo Dario Hulazowski lo sa, così come sa che due più due fa quattro. Insomma, sono le sei del mattino e lui indossa solo un paio di mutande dall’elastico fallato e una canottiera aderente da quattro soldi in poliestere e, davanti allo specchio, ha abbondantemente oltrepassato il limite della commozione. Il fatto è che è finalmente il frutto lucente, e al momento piagnucolante, di quasi quattro anni di sforzi sovrumani. Oh, santo dio, ci starebbe proprio tutto il giorno lì davanti allo specchio a rimirarsi, a bearsi di sé, ma non può. Ci starebbe per l’eternità, lì, fuori dal tempo e al riparo dall’eventualità di doversi incazzare nuovamente e di brutto. Pure se è solo, fermo di fronte alla propria immagine, sta già parlando col padre che, come avviene da quasi due anni, quella sera tornerà a casa dopo tre mesi di lavoro fuori città. Le parole, che sono pensate o, al più, appena sussurrate, gli si accavallano e ammucchiano nella gola, collo di bottiglia troppo stretto. “Trova qualcosa che non va, stronzo, vedi se riesci a trovare un granello di polvere in tutta casa, sotto il letto, sul comò. Trova qualcosa da dire sulla mia media del nove, sulla macchia di umidità sul soffitto del bagno che non c’è più dopo che ho scritto all’amministratore. Trova una bolletta non pagata, stronzo, siedi tutta la notte al tavolo della cucina a fare i conti, controlla gli scontrini, fai quello che cazzo ti pare, tutto è perfetto qui intorno a questa casa e a me. Trova un solo alone su di una posata, ti sfido. Una mollicuzza di pane sotto al tavolo, assolda una qualche formica per farti dare una mano. Beh, questa volta non troverai un cazzo. Fatti un giro per il quartiere, fai un sondaggio, raccogli informazioni sul gradimento che ho fra le vecchiette del palazzo. Trovane una, cazzo, trova una di queste vecchiette e vedi se ti dice che non le ho portato le buste della spesa per le scale o ceduto il posto sull’autobus o dedicato qualche minuto per una chiacchierata. Vai al supermercato, parla con gli zingari per strada, gli africani nei parcheggi, annusa l’immondizia che inonda il merdoso quartiere in cui ci stai facendo vivere, ti sfido a trovare una traccia di me. Ti sfido a trovare qualcosa da dire, qualcosa con cui riempirti di parole quella bocca di merda che per tre mesi — cristo, fossero di più — ha saputo dire solo sissignore al capocantiere che per un salario pietoso ti dà ordini dalla mattina alla sera”. Dario Hulazowski continuerebbe così a lungo, ma il suo viso sta tremando in modo eccessivo, ha le orecchie rosse e la bava alla bocca, oltre che gli occhi gonfi e umidicci, e così si rende conto che così non va e, più di tutto, che ci sono ancora un mucchio di cose da fare di lì alle sei di sera. Dodici ore per rendere tutto perfetto e chiudere una volta e per tutte la bocca di quello stronzo.
Un altro racconto dove una vita che sembrava sotto controllo perde i propri “contorni” a partire da una singola, banale decisione, è Wendy. Ancora un adolescente, al centro, questa volta però, non ci sono lutti o difficoltà economiche; al contrario, il “motore” di questa storia è un ragazzo cresciuto in una famiglia agiata, un ragazzo che ha avuto molto, ma che sembra incapace di trovare la soluzione ad una domanda apparentemente semplicissima. È un ragazzo che si è perso nei corridoi di scuola e che, disorientato com’è, si ritrova nel bagno dei maschi al primo piano, lì dove era stata preparata una piccola festa per il suo compleanno. Alla festa c’è però un’invitata speciale, Wendy…
Deve aver stretto troppo il nodo della cravatta, oppure ha bevuto già di primo mattino o, forse, è semplicemente così incazzato che il collo e le guance gli si sono fatte paonazze. Sta collassando, pensa Ivan Sperduto, quando il suo dirigente scolastico, imbalsamato oltre la scrivania, va per qualche secondo in apnea, improvvisamente incapace di portare avanti il suo lungo monologo su quel famigerato vuoto educativo che pare essere pietra angolare di ogni suo argomento. L’ufficio di presidenza è grande. Ivan, anche se per ben altri motivi, era già stato lì dentro, e non era mai riuscito a capacitarsi di tutto quello spazio. Ci sono mensole cariche di trofei, scaffali pieni di libri, vecchie fotografie, lo stemma della scuola, un paio di bandiere flosce e, su tutto, una luce accecante che entra dal finestrone e che esalta il movimento continuo della polvere di cui tutte le cose sono fatte. Polvere di cui è fatto il dirigente con tutti i suoi magnifici discorsi, di cui è composto il grande tappeto stile persiano su cui poggiano la scrivania e le pesanti e scomode sedie, e loro stessi. È una luce insopportabile che, insieme a un improvviso ronzio alle orecchie, sta facendo uscire Ivan Sperduto fuori di testa. Ma nessuno capisce, né si sforza veramente di farlo. Il preside gli intima di guardarlo negli occhi, mentre gli parla. Lo chiama per nome e cognome, gli dà del lei. Ivan cerca di collaborare, ma non è mica semplice. Vorrebbe tanto capire cosa c’era in quella cazzo di boccetta che gli avevano dato da sniffare. Quanto tempo sarà passato? Due, tre ore? E lui è ancora in quello stato? Gli arriva una gomitata al fianco sinistro e così tira su la testa e si volta verso la madre, che ha il volto tirato e si vede che sta facendo del suo meglio per essere all’altezza della situazione, del tailleur che indossa, della professione che quella mattina ha momentaneamente smesso di esercitare a causa del figlio. Sta cercando di essere all’altezza del cognome assai noto del dirigente scolastico, così come di quello del marito che non è lì solo perché è a dieci ore di aereo per rappresentare gli interessi di chissà chi presso chissà chi altro, chissà dove e in compagnia di chissà quale segretaria. Ivan fa di tutto per concentrarsi sul discorso, ma lo sguardo cade di continuo oltre la madre, per raggiungere Wendy. Sì, c’è anche lei. È provata da quanto le è accaduto nelle ultime ore. Ha la testa lievemente inclinata sulla destra e la guancia lucida di cipria poggiata sulla spalla nuda. È tutta rosea. Il sole violento di maggio le disegna una debole aura tutto intorno, esaltandone la bocca tutto rossetto aperta in un’espressione di muto stupore e gli occhi grandi puntati sul dirigente che continua a straparlare. Anche lui sta facendo di tutto per impedirsi di guardarla, conciata com’è, mezza nuda. E a dire che non molto tempo prima proprio lui, il dirigente, se l’era vista oscillare fuori dalla finestra dell’ufficio, le enormi tette all’aria, calata giù con una corda dal piano di sopra.
Continua a scavare è il racconto più lungo e, insieme a Lazar, più ambizioso della raccolta. È il frutto della fusione di cinque vecchi racconti che, presi singolarmente non funzionavano granché, ma che, non appena sono riuscito a metterli insieme, hanno dato luogo ad un tutt’uno organico, ad un qualcosa che mi pare un romanzo super-concentrato, ripulito di ogni orpello e che corre, così come tutti i personaggi che lo popolano, sul filo del tempo presente. Ha in più una caratteristica che mi piace – porta avanti l’idea che in letteratura non si butta via, o quasi. E non mi riferisco solo delle esperienze che si fanno nel mondo, ma anche e soprattutto di quanto si è scritto. Letteratura come riciclo, come opportunità estrema, come dare una nuova opportunità a quanto sembrava destinato ad essere niente. Andando con ordine – e per chiudere – si potrebbe presentare così: c’è un uomo alla ricerca di una donna e di un bambino. Perso in questa disperata ricerca questo uomo, Achille Reho, perde di vista un certo numero di persone importanti: la moglie, che si trova imbrigliata in una relazione scabrosa, il figlio piegato dal dolore, un fratello che in vita sua non è ancora riuscito a combinare nulla di buono, un padre che lo cerca disperatamente perché ha bisogno di aiuto. Detta così sembra che non ci sia un filo conduttore, in realtà c’è, forse. Ma a questo punto è meglio leggere qualche riga.
Una cartina sta spiegata sulle ginocchia ossute d’un uomo. La carta rappresenta le linee e i principali itinerari del trasporto pubblico della città. Non è una semplice raccolta o accozzaglia di percorsi l’uno indifferente all’altro. È un sistema, una struttura capace di garantire la connessione fra le parti, di raccogliere la molteplicità dei luoghi in un’unità più alta, quella di città. È la riproduzione della rete dei viali, delle piazze, dei larghi, delle vie e dei vicoli calcati da autobus su tratte urbane, periferiche e ultra-periferiche; dei percorsi di tram e metropolitane su rotaie che si snodano sopra e sotto il piano d’asfalto che fa da pavimento alla città. Vista così, compressa in quel grande foglio plastificato, sembra veramente una cosa unitaria, tale da poterle dare un nome proprio, con la maiuscola, così come si usa con le persone che si hanno davanti. Il nome. Decisamente falso per chi ci sta di fronte, fatalmente scomposto nella visione del volto che nasconde la nuca; falso, per analogia, per una cartina di sessantacinque per ottantacinque centimetri, dove nella circonferenza di un pollice sono idealmente ammassate, strippate e accatastate un numero imprecisato di case, strade, alberi, bestie e vite. Però ha dei lineamenti. Un anello giallo ocra disegna un grande cerchio, lambendo i margini della carta stessa nel tentativo di fondare l’unità per mezzo dell’idea di confine, giustificando a posteriori un significante, un nome che, solo a proferirlo, rischia di sbriciolarsi. Il nome proprio è una forma di magia o di malia e dovrebbe sempre essere usato solo per intendersi e niente più. Il centro è ampio, variegato e coloratissimo, fatto dell’azzurro di un lungo corso d’acqua che l’attraversa, del verde dei parchi, del marroncino degli edifici storici. Da questo centro una molteplicità di grandi vie fuggono via verso l’esterno, o dall’esterno vengono a infilzare il cuore della grande struttura. Una grande ruota sgangherata, ecco cosa sembra. L’anello più grande, il più esterno, è anche il più importante, quello che abbraccia e stringe forte tutto quello che sta dentro, che trema dal freddo ed è pieno di timori per le innumerevoli cose nuove che al suo interno nascono, crescono e si espandono in larghezza, altezza e forza. È una ragnatela irregolare, non sapientemente realizzata, prodotta da un ragno malato, o impreparato. È qualcosa di incontrollabile, fatta di progetti partoriti da numerosi individui, di piani regolatori messi in ridicolo da uomini in canottiera, da braccia potenti rette da una volontà precisa. Il centro, nella carta, è tondo. Ogni centro sembra debba esserlo, forse perché luogo della massima indeterminazione. Grande è il numero delle persone che risalgono incessantemente le vie per raggiungerlo e lì incontrarsi e scontrarsi, unirsi o mantenere le distanze. Lì è tutto un groviglio di vie, colori, lingue, credenze, temperamenti, vestiario, modi di camminare e di guardare. I veri problemi iniziano la sera o al tardo pomeriggio, quando ci si allontana e mano a mano si va verso l’esterno. Allora si è sempre di meno, ci si disperde e individualizza e le mille diversità che nel centro erano folclore, lì, nella periferia, si fanno opposizione e possibilità di scontro, rivalità e lotta per la supremazia. Le sfumature si fanno cesure, le differenze opposizioni e la figura del cerchio viene presto dimenticata e al suo posto si allargano una molteplicità di poligoni dagli angoli acuminati e lati taglienti come lame di rasoio.
Fra qualche giorno gli incipit degli ultimi tre racconti…
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
Bello, Interessante. Ma io voglio il libro. Perché niente e-book immediato? Mi trovo, in questo momento a Berlino, e ancora per due settimane non potrò ordinare il cartaceo,
Attendo con ansia la lettura. 😉
Grazie. Scelta dell’editore (almeno per il momento, e vero colpo al cuore per me che per molti e non sempre razionali motivi privilegio l’ebook). Goditi quella splendida città.
Bisticcia con l’editore. Quanto a me, mi godo nipotini. Sono di frequente a Berlino, nonna sitter. 😀
Prendono, lasciano addosso la curiosità di scoprire il seguito. Il terzo incipit è strutturato in modo davvero particolare…
Grazie Alessandra, arriverà presto. Spero non deludente.
Complimenti Tommaso, e auguri per il libro. Penso che questa volta acquisterò il cartaceo.
Grazie Alessandra!