Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

James Ballard, Un gioco da bambini

La videocamera riprende la sua malinconica passeggiata. Quando raggiunge la terza palazzina, la dimora in stile Gropius di una nota pianista, la sequenza ingresso-cadaveri-uscita ha ormai assunto l’angosciosa ossessività di un incubo ricorrente dal quale non ci si potrà mai liberare. In quella placida mattina di giugno gli assassini, spostandosi rapidamente dall’una all’altra palazzina, sono entrati in tutte le abitazioni, vi hanno ucciso i proprietari, i loro autisti e i loro domestici e si sono portati via i loro giovani figli.

James Ballard è certamente uno degli scrittori più accattivanti, originali e provocatori della seconda metà del Novecento. La sua critica e le sue allucinate rappresentazioni del mondo contemporaneo con le sue follie, paure ed idiosincrasie è noto e, per quanto concerne questo spazio, vi ha già trovato più volte posto attraverso la lettura di alcuni racconti significativi, come Vita e morte di Dio e Terra di morte, ma anche di alcuni romanzi come L’isola di cementoIl Condominio e Crash. Con Un gioco da bambini al centro del discorso vi è un tema ricorrente nella poetica di Ballard, ossia il cortocircuito fra quanto promette il mondo contemporaneo, e cioè benessere, sicurezza e razionalità, felicità, e quel fondo irrazionale, violento e carnale che alberga nell’uomo e che solo apparentemente sembra sconfitto, detronizzato, recintato e controllato da un mondo che promette la più alta libertà, ma che progressivamente si rivela una “gabbia d’acciaio”, imbrigliando l’uomo nelle maglie sempre più strette del progresso scientifico.

Questo brevissimo scritto assume la forma di una raccolta di appunti di Richard Greville, consulente psichiatrico della polizia metropolitana di Londra che, dopo l’esito disastroso di lunghe indagini, lo assume per svolgere ulteriori ricerche a proposito del “massacro di Pangbourne”. Pangbourne era un villaggio residenziale all’avanguardia collocato subito fuori Londra, una sorta di microcosmo in cui tutto sembrava perfetto e dove trentadue adulti erano stati brutalmente uccisi in un massacro pianificato fino al minimo dettaglio. Pochi minuti, dunque, per un massacro senza precedenti in un villaggio chiuso, iper-controllato, pieno di telecamere e dove nessuno evidentemente poteva introdursi senza passare per i controlli della vigilanza attiva giorno e notte. Mistero nel mistero: tutti i bambini presenti nel villaggio residenziale scompaiono nel nulla. Richard Greville viene chiamato a visionare i filmati girati sui luoghi del massacro, a muoversi per il villaggio ormai deserto, a formulare ipotesi. Quando entra in questo piccolo mondo si ritrova come in un’altra dimensione. Eleganti palazzine, prati curati fino al singolo ciuffo d’erba, strade pulite, opulenza ovunque. È un mondo cristallino, perfetto, asettico, un mondo dove “si ha l’impressione che persino le foglie che cadono dagli alberi si stiano prendendo un po’ troppa libertà“. Lo psichiatra passa in rassegna fascicoli in cui sono raccolte informazioni di ogni tipo sugli adulti e sui ragazzi che vivevano in quella sorta di campana di vetro fatta per proteggerli dal male, dal disordine, dalla sporcizia, dalla violenza. Sono vite fatte di privilegi di natura economica, di persone sane, sposate, cui non manca nulla; un microcosmo fatto di ragazzi che ottengono ottimi voti a scuola, che godono di privilegi di natura culturale, che praticano sport ad alto livello, le cui esistenze sono pianificate in ogni aspetto e momento della giornata. Tutto qui è a portata di mano, non manca nulla – ogni cosa mira al meglio, alla prestazione massima. Eppure tale pervasività di attenzioni, tale ferma volontà di far fruttare ogni istante, ogni talento, ogni energia ha in sé qualcosa di inquietante. Il Pangbourne Village è un luogo che in fondo non lascia spazio alcuno al desiderio, poiché si ha tutto, è un luogo che non prevede alcuna forma di mancanza, per cui non sono previste lacune o negatività di alcun tipo – è un luogo che non prevedere alcuna legittima tristezza, o anelito – a Pangbourne si ha l’obbligo di essere felici. Lo psichiatra, accompagnato dal sergente Payne, vecchia e disillusa guardia che pare aver compreso tutto fin dal primo istante, iniziano a spostare la loro attenzione sui ragazzi, sulla loro condizione prima del massacro, sul fatto che sono svaniti nel nulla. Un dubbio inizia a montare e a prendere forma. L’agente del massacro viene dall’esterno o piuttosto dall’interno? Da chi è parte integrante della comunità? Entrambe le ipotesi paiono incredibili. Il complesso residenziale è qualcosa come una fortezza. Mura di cinta, telecamere di sorveglianza e guardie lo rendono impenetrabile. Ma al tempo stesso chi, dall’interno di una comunità costruita sui privilegiati potrebbe volere una tale mostruosità? Chi potrebbe rinnegare e rinunciare a tale condizione, stuprando la purezza di un luogo edificato in antitesi alle mostruosità, alla sporcizia, alla povertà e alla corruzione del mondo esterno? Non si svelerà troppo di una narrazione che fin dalle prime pagine, se non righe, dice praticamente tutto, avvisando il lettore e mettendolo in guardia – l’idea di un agente interno progressivamente si impone nei pensieri di Greville: ogni chiusura rispetto al mondo esterno, concepito come sede esclusiva del male, fa inevitabilmente sorgere il male all’interno. Ogni fortezza è inevitabilmente una prigione e in ogni prigione, per quanto dorata, prima o poi inizieranno a maturare tutti quegli impulsi che si pensava di aver definitivamente allontanato chiudendosi in una comunità chiusa, composta di eletti e privilegiati. Il naturale desiderio di sicurezza diventa sete di controllo, la capacità critica e di analisi si tramuta in mostruosità inquisitoria, dando così vita ad una concezione distorta di libertà.

La tesi dello psichiatra – e di Ballard – è, seppur controversa, chiarissima: il massacro non sarebbe stato gratuito o frutto di semplice follia, ma qualcosa come una meditata ribellione al “dispotismo della bontà“. Si capisce fin dalle prime pagine che i ragazzi scomparsi nel nulla sono gli unici veri indiziati, anche se il movente non è immediatamente riconoscibile. L’aria che si respira a Pangbourne, il rapporto dei genitori con i figli, dice qualcosa della natura dell’amore, delle sue morbose degenerazioni, dice molto del concetto di libertà, del problema della scelta e del diritto di scegliere male, di fare del male, di subire il male e di sbagliare, poiché anche il “bene” se frutto di un sistema già dato e non risultato della scelta, della fatica, della rinuncia e dell’errore, può facilmente tramutarsi in una “dittatura della bontà“.

Per un atroce paradosso, la vera causa della morte di quei padri e quelle madri fu il regime d’affetto e di premure ch’essi avevano instaurato nel Village…incapaci di manifestare i propri sentimenti o di reagire a quelli altrui, soffocati sotto una coltre di elogi e approvazioni, si sentivano imprigionati per sempre in un universo perfetto. In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia.

Tutti hanno bisogno di ostacoli, incomprensioni, difficoltà, fallimenti. Sono necessari alla costituzione di sé, a mettere a regime e rendere operativa la propria libertà e volontà, a costruire una identità che, in quanto tale, impone confini, zone oscure e scabrose, luoghi soggetti al male e alla debolezza, persino alla perversione, punti di sé che non vogliono essere integrati, illuminati dalla luce del bene e di una condotta sana. La follia, la furia omicida paiono l’unica via d’uscita in un mondo (di cui il Pangbourne Village è simbolo) che non accetta queste zone d’ombra e che l’individuo in quanto tale non sia pienamente integrabile nel (giusto) progetto della civiltà. Per assurdo, l’unica via verso l’umanizzazione, passa qui, per queste vite in vitro, attraverso atti disumani e criminali che rompono un sistema totalitario, che rivendicano l’esistenza di un limite fra il soggetto e il mondo, evidenziandone la non coincidenza. Rottura di un microcosmo, il Village, che nasce forse con buone intenzioni, ma che in realtà è animato da dinamiche repressive e disumanizzanti, se non paranoiche.

Che società è stata costruita e quali soluzioni sono state veramente offerte? A quali parti di noi si appellano tutti quei richiami alla chiusura, alla pulizia, all’estromissione? Quali dinamiche sfruttano coloro che invocano durezza, ordine, confini che non prevedono scambio o contaminazione? Cosa promettono in realtà coloro che cercano di dare corpo e sostanza al male? Un male che alberga in una persona, un popolo, un’istituzione, un’etnia, che devono essere combattuti, se non eliminati? Cosa sta veramente dicendo chi promettere di eliminare il male una volta e per tutte? Visione manichea, semplicistica e violenta della realtà, così come del ruolo dell’individuo, del suo statuto, dei limiti della sua libertà e del suo rapporto con gli altri. Cosa c’è da sperare ed augurarsi per il futuro? Secondo Ballard e la sua visione negativa, quasi apocalittica (quantomeno sul piano esistenziale) della storia dell’Occidente, non ci sarebbe da aspettarsi nulla di buono, a meno che non si accetti di dover scendere a compromessi col mondo vero, con il male e la sua pervasività. Bisogna accettare che il male, in tutte le forme in cui può presentarsi, è parte della vita e di ogni società. Questo non significa rassegnazione, ma sforzo razionale verso il bene. Per chiunque voglia rinnegare tutto questo, allora, secondo Ballard, è meglio prepararsi al peggio.

Il regime indulgente e protettivo instaurato con le migliori intenzioni al Pangbourne Village ed entusiasmante imitato nei lussuosi complessi residenziali dell’Inghilterra meridionale, nonché nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, ha generato una stirpe di vendicatori, e li ha mandati a sfidare il mondo che li amava.

10 commenti su “James Ballard, Un gioco da bambini

  1. Guido Sperandio
    settembre 22, 2018

    Tesi interessante.

    • tommasoaramaico
      settembre 22, 2018

      Lo penso anche io. Di certo, però, c’è qualcosa che non torna. Tuttavia Ballard, come ogni vero scrittore, offre problemi, piuttosto che soluzioni.

      • Guido Sperandio
        settembre 22, 2018

        Infatti, pensavo la stessa cosa.
        A parte che noi qui in quel senso non abbiamo nulla da temere, o meglio se dobbiamo proprio temere, è l’autodistruzione ma per troppa imperfezione 🙂

      • tommasoaramaico
        settembre 22, 2018

        Tristemente vero.

  2. marcello comitini
    settembre 22, 2018

    Una recensione molto valida la tua, che sa andare al di là degli schemi abituali e che per questo invita non solo a leggere l’opera ma a conoscere anche l’autore.
    Interessante in particolare la riflessione sul futuro: “””Cosa c’è da sperare ed augurarsi per il futuro? Secondo Ballard e la sua visione negativa, quasi apocalittica (quantomeno sul piano esistenziale) della storia dell’Occidente, non ci sarebbe da aspettarsi nulla di buono”””. Ne sono anch’io più che convinto. Come sono altrettanto convinto, in contrasto con la successiva osservazione, che nessun compromesso potrà salvare la società da sé stessa, e meno che mai l’individuo che in essa vive. Non si tratterebbe infatti di un compromesso che conduca all’accettazione ma di una triste sottomissione. A meno di non commettere anche noi quei delitti.

    • tommasoaramaico
      settembre 22, 2018

      Grazie Marcello. Come scrivevo a Guido, Ballard offre solo problemi, ma nessuna soluzione definitiva. Una cosa è certa, ogni riflessione sulla condizione dell’individuo all’interno di una società come la nostra non può che risolversi in un capogiro. Sembra di essere nel mezzo di una radura da cui si snodano solo vicoli ciechi. È tuttavia l’individuo è comunque chiamato a trovare una soluzione.

  3. marcello comitini
    settembre 22, 2018

    Grazie della risposta,Tommaso. È vero che l’individuo è chiamato a trovare una soluzione, ma coloro che hanno aderito alla chiamata hanno fornito la sola soluzione possibile, quella a cui anche io accennavo: uccidere. Come si è fatto con le guerre.

    • tommasoaramaico
      settembre 22, 2018

      La tua risposta fa rabbrividire (del resto come il libro di Ballard), e suscita una tale reazione a partire dal contenuto di verità che veicola.

  4. Alessandra
    settembre 24, 2018

    Ogni fortezza prima o poi, venisse anche eretta a fin di bene, sfugge al nostro controllo e degenera in ciò che avevamo tanto temuto. La rimozione delle zone d’ombra, l’incapacità o impossibilità di accettare anche gli impulsi più riprovevoli al fine di comprenderli e possibilmente risolverli/ridimensionarli, può in effetti creare più danni che benefici. Libro interessante, stuzzica l’idea di leggerlo.

    • tommasoaramaico
      settembre 24, 2018

      Romanzo “a tesi”, quindi inevitabilmente zoppicante (almeno secondo il mio punto di vista), ma in compenso è così acuto da meritare massima attenzione.

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Questa voce è stata pubblicata il settembre 22, 2018 da con tag , .

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