Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
La paura, il terrore, l’angoscia non sono semplicemente delle reazioni di fronte ad aspetti più inquietanti della realtà, ma sono anche – e sopratutto – delle modalità per entrare in relazione e mantenere un rapporto con questi aspetti della realtà che tanto inquietano. Tali stati non implicano l’automatismo animalesco dell’allontanamento puro e semplice, ma comportano qualcosa come un “intrattenimento” con ciò che spaventa (di qui l’inevitabile tentazione ad aprire proprio quella porta che non si dovrebbe aprire). L’orrore che suscita l’idea della morte; la paura, l’odio e l’aggressività verso l’altro, lo straniero; lo spaesamento di fronte alla malattia, il timore della solitudine che segna molte esistenze, l’infinità stanchezza che attraversa ogni vita inautentica e infelice – questi i punti di partenza, ma non di approdo, di alcune storie di cui qui propongo qualche estratto.
Pensato e poi nato in tempi non sospetti, L’ospite tratta del tema dell’incontro con l’altro cercando di mettere in luce la profonda ambivalenza che segna tale esperienza. Un’esperienza carica di diffidenza ed ostilità, se non di odio, ma che non esclude il suo rovescio, fatto di accettazione. Eccone l’incipit:
Ricordo distintamente il giorno che nostro padre lasciò entrare quell’uomo nella nostra casa. Una casa che ieri, come oggi, era povera e angusta e spoglia. Una casa che ieri, a differenza di oggi, mai era stata teatro di violenza, in cui mai si erano levate urla o bestemmie, in cui mai l’odio si era affacciato alle sue finestre o ne aveva scosso le mura. Io, mia sorella Ruth e il piccolo Gabriel ce ne stavamo immobili, uno accanto all’altro subito fuori dall’uscio, e osservavamo l’uomo seduto a terra, la schiena magra contro la semplice facciata della nostra casa. Aveva gli occhi chiusi, le labbra spaccate, i vestiti ridotti a stracci e i piedi scalzi pieni di ferite. Vicini e pieni di stupore e timore, non osavamo muoverci o proferire parola. Eravamo solo occhi sgranati sullo straniero e voglia di fuggire e vomitare per l’odore insopportabile che emanava. Ricordo mia madre che, come noi, non disse una sola parola alla vista della testa china di mio padre che, dopo un penoso esitare, si era avvicinato all’uomo per aiutarlo a tirarsi in piedi e farlo bere direttamente da una delle nostre bottiglie. Mio padre aveva poi fatto sedere quell’uomo alla nostra tavola, senza avere il coraggio di guardarci negli occhi, pieno di vergogna, o spaesamento, per qualcosa di cui forse nemmeno lui sapeva cogliere il vero senso. Ricordo mia madre che prima di andare a gettare altra legna nel fuoco che ardeva sotto la pignatta arrugginita, aveva per tre volte pestato il minuto piede sul pavimento di pietra. Lo aveva fatto con tutta la forza che aveva in corpo e per alcuni giorni aveva poi zoppicato vistosamente. La casa era stata attraversata da un lieve brivido, ma mio padre era come se non se ne fosse accorto e così era uscito all’aperto, sotto il cielo che si faceva sempre più scuro, per mettersi a lavorare fino a che non fu buio pesto e rientrò solo quando ebbe finito di costruire una sedia nuova, di cui non avevamo bisogno. Era per l’ospite. Mangiammo appena, noi che solitamente ci avventavamo sul cibo sempre scarso, mentre l’ospite mangiò a lungo, lentamente, sporcando ancor più la barba sudicia e biancastra e arricchendo di nuove macchie e odori le vesti già logore e maleodoranti. Sembrava non dovesse più smettere ed effettivamente si fermò solo quando non ebbe scacciato la fame e la sete con tutto quello che era sulla nostra tavola. Mio padre si saziò di un pezzo di pane nero e troppo duro per i denti malati dell’ospite.
La tematica dell’incontro, anche se in una diversa accezione ed in un diverso contesto, viene affrontata in Bellissimi, dove il problema della relazione autentica (qui fra un uomo ed una donna) si salda al tema della malattia e della morte. Ci sono un uomo e una donna, marito e moglie, e lei che, anello al dito, chiede al marito di sposarla, mentre lui la guarda senza capire veramente quello che gli viene chiesto. La realtà, i meri fatti svaniscono. Sono sposati o no e se lo sono, allora in cosa consisterebbe questo matrimonio da celebrare? Quali sono i caratteri di una relazione autentica? È possibile realizzarla? A quale prezzo? Ecco l’incipit:
Clio si avvicina a Elia e lo accarezza. I suoi occhi gli chiedono cosa c’è che non va, ma lui non capisce perché la moglie sia sempre lì a rivolgergli quella stessa muta domanda. Allontana le mani dalla sua agenda, poggia la penna sul piano della scrivania e sorridendo si lascia andare sullo schienale della sedia, che scricchiola. Non è finita, però. Con l’indice e il pollice Clio gli distende la pelle all’altezza della fronte e allora lui si accorge che fino a un momento prima era stato accigliato. Non ha nulla contro di lei, ma forse potrebbe anche rimanersene per conto suo nello studiolo a fingere di lavorare. Non osa dirlo, però. Clio non sarebbe in grado di sopportare che lui possa passare a quel modo il suo tempo, chiuso lì tutta la sera. Lei, dopo tutti quegli anni, è ancora saldamente ancorata al mito. «Conosco una storia», dice. Lui, però, non vuole ascoltarla. Non per l’ennesima volta. Clio si avvicina troppo, gli punta gli occhi negli occhi e inizia a parlare. Deve aver appena bevuto una tisana. Elia lo sa perché le sue parole sanno di liquirizia. La narrazione del mito ha inizio.
Lazar nasce un morboso, e dunque personalissimo, interesse per il celebre episodio biblico in cui si narra della morte e della resurrezione di Lazzaro di Betania. La tentazione di scriverne qualcosa mi ha accompagnato per anni senza che potessi farne nulla – attratto e pieno di repulsione come ero per un racconto che aveva in sé qualcosa di veramente incredibile, ossia di portentoso (e dunque spaventoso), ma anche di in-credibile, non credibile. Per molto tempo il proposito è rimasto confinato in brevi appunti su di una piccola agenda telefonica che ciclicamente ripescavo per aggiungere qualcosa, una considerazione o un dettaglio. Sapevo già di esser preso in un lento lavorio che, abbandonando sempre più un riferimento diretto al testo, spingeva e maturava verso una interpretazione personale (che può esser visto come vero e proprio tradimento della fonte di partenza). Insieme a Lazzaro, infatti, andavano trasfigurandosi tutte le figure che ruotano intorno a lui. A quel punto mi sono reso conto che la suggestione iniziale si era fatta idea e quei bozzetti dei personaggi vivi. Avevo la struttura, lo scheletro, ma invece di dargli carne mi sono messo a studiare ancora un poco la faccenda, come si dice “ci ho lavorato su” e ne sono venuti fuori alcuni post. Una volta pronto l’ho buttato giù in una settimana, sempre sul treno. Ne è venuto fuori un lungo racconto. Senza osare di fare alcun paragone, a cose fatte potevo ritenermi soddisfatto. Questo Lazzaro non è più oggetto passivo di una vicenda che si gioca tutta sopra di lui. Questo Lazzaro dice la sua, parla in prima persona, è pieno di dubbi e di astio verso le sorelle e il suo amico e maestro che l’ha lasciato morire. E’ un Lazzaro assai nervoso, moderno, un uomo che non si accontenta di facili soluzioni o di storielle edificanti; un uomo che, con altre vesti, altre parole, altro incedere, si può facilmente incontrare oggigiorno per strada, nel traffico sul raccordo, sull’autobus, con lo sguardo perso nel nulla nel pieno della calca della metropolitana. È un uomo che tutti i giorni va a lavoro e che tutte le sere, stendendosi sul letto, si domanda se è vivo o già morto e, se morto, come può risollevarsi dallo stato di smarrimento in cui versa. È un uomo alla ricerca di una parola vera. Ma non dico di più. Ecco l’incipit:
Da dove viene questa brezza leggera? Come può giungere fin dentro la mia casa, qui dove mi sono rintanato? È la stessa brezza carica di oscuri presagi che già mi ha assalito quando questa storia ha avuto inizio e poi ancora mentre me ne stavo nascosto in una grotta dopo la sua morte, dopo che il tuono aveva scosso la terra e aperto una ferita nei cieli, riempiendo il mio cuore di sgomento. Di dove viene questa brezza leggera? È carica degli umori della notte, muove le vesti del mio ospite, carezza i capelli delle mie sorelle, sostiene il mio pensiero. È la stessa che non troppo tempo fa, alzandosi dal Mar Morto e attraversando la terra, era giunta fino a me facendo fremere l’orlo delle mie costose e profumate vesti e bruciando le mie narici, portando in me una malattia tanto inaspettata quanto feroce, divorante.
Soffiava il vento mentre passeggiavo sul monte, fra gli ulivi. Di lì potevo scorgere la pietra di Gerusalemme e il mare scintillante. Gerico era alle mie spalle. Il vento soffiava e raccoglieva le foglie intorno ai miei piedi. Gli ulivi si piegavano lievemente, accarezzati dall’invisibile mano del vento, poi, improvviso, uno scorpione era passato fra le mie gambe, calcando il mio sandalo, sfiorando la mia pelle bruna e coperta di peli neri e lunghi e riccioluti, facendomi rabbrividire. Non ne avevo mai visti prima, lì, di scorpioni. Chi vuole la mia fine? Questo avevo pensato, mentre la bestia mortifera sfiorava col suo pungiglione il mio esile stinco. E così, io che ho sempre creduto nei presagi e in tutto colgo segni degni d’esser interpretati, avevo subito ripreso la via di casa. Ma non avevo ancora contato settantasette ulivi che allo spavento era seguita una grande stanchezza e alla stanchezza la febbre. Improvvisa, violenta, in tutto simile a quelle che mi colpivano quando ero ragazzo. Terribili febbri mi squassavano per una notte per poi riconsegnarmi sano al mondo, al mattino. Ricordo bene quelle febbri, arrivavano da lontano, così profondamente nascoste nei recessi del mio corpo da sentirle fuori di me. Le sentivo lievitare e prendere forma e farsi prossime e così andavo ad aspettarne il violento impatto steso sul mio giaciglio, pronto alla lotta, al capogiro, al delirio, al sonno infestato di sogni inauditi, incubi contorti e impossibili da interpretare. Un istante, e tutto aveva inizio. Il fuoco toccava la mia fronte bagnata e le tempie pulsanti; una lastra di ghiaccio, invece, si allargava sulla schiena e il ventre scuotendomi con violenti brividi.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
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