Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Marzio Ateneo ha salutato tutti da quasi una settimana, dicendo che quello stesso pomeriggio sarebbe partito per il mare. Aveva dispensato lenti abbracci e deboli strette di mano e da quel giorno è solo, non ha più parlato, né incontrato nessuna delle persone che conosce. Ovviamente non è andato da nessuna parte e tutte le mattine esce prestissimo di casa e va a lavoro, nella sua trattoria, e siede all’antico scrittoio che era stato del nonno e che molti prima aveva ristrutturato prima di posizionarlo all’entrata della trattoria. Era il suo ufficio. Fuori, sulla porta chiusa col catenaccio sta affisso un cartello. Agosto chiuso, tutto il mese. Fuma un sigaro sottile e lievemente storto pensando che è veramente finita, ed è quasi contento. A soli sessant’anni gli mancano tre denti, un canino e due molari. Ha già chiesto un finanziamento per rimetterli a posto anche se ha il conto in rosso, la moglie l’ha mollato e i figli chiedono soldi, solo ed unicamente soldi. Si alliscia i baffi. È fiero dei propri baffi, adora i propri baffi, e intanto aspetta. Non può fare altro, non ha nulla da fare. Guarda l’orologio. Non sa come sia possibile che il tempo passi, ma alla fine passa, come ogni giorno. Di solito torna a casa verso le nove di sera. Non vuole andare prima, adesso che, oltre che della moglie che ormai da un anno si è trasferita in un monolocale sulla via parallela, è vuota anche dei figli, entrambi al mare. Sa che non potrebbe sostenere e gestire centodieci metri quadrati di appartamento tutto da solo. Apre il cassetto della scrivania e tira fuori la lettera dell’avvocato di Ivonne, che ha chiesto il divorzio.
Quella mattina, già in bagno aveva compreso che quella sarebbe stata una giornata di merda. Sempre dal cassetto prende uno specchietto e si controlla i baffi, proprio sotto la narice destra, lì dove con le forbicine aveva mancato il suo appuntamento con una degna rifinitura. L’errore era stato minimo, quasi impercettibile e, rimasto entro i margini, era accettabile, invisibile, trascurabile. Altri erano stati gli errori che, al contrario, l’avevano portato fuori dal recinto di quanto poteva essere accettato.
La trattoria tutta intorno a lui è bella, pulita, a suo modo elegante. Non capisce come gli affari possano andare così male. Aveva tenuto bassi i prezzi, aumentato le porzioni, organizzato piccole serate con musica dal vivo. Non era servito a nulla.
Dopo aver mangiato del cibo in scatola e vuotato una bottiglia di vino di quelli buoni e costosi chiude tutto e si infila in macchina, accendendo un sigaro nuovo. Ancora quindici giorni e poi i figli sarebbero tornati a casa, per fortuna. Accende la macchina e parte. Taglia il centro, attraversa un ponte sospeso su di uno snodo ferroviario e poi via, veloce lungo stradoni che lo portano fuori, verso il suo splendido e vuoto appartamento al quarto ed ultimo piano di una palazzina in cortina sperduta nella desolata periferia. Entra in casa e la trova veramente come fosse tornato dopo una lunga assenza. Tutto chiuso ed in ordine. Puzza di chiuso. Stasi, una stasi inquietante. Aveva scelto di eclissarsi per qualche settimana nella speranza di riuscire a riprendere fiato, convinto che per un po’ non avrebbe subito o riservato ad altri torti o brutte sorprese. Pareva funzionare. Eliminati gli altri, le possibilità di sbagliare si riducevano drasticamente, il margine di errore nelle azioni diventava praticamente trascurabile e il male si risolveva alle inevitabili conseguenze di quanto già era stato fatto e che non poteva cancellare.
Si stende sul divano per godere di una delle sue improvvise tachicardie. Si concede giusto un bel bicchiere di latte e menta e poi pulisce tutto, come se non ci fosse mai stato, poi si piazza davanti alla televisione accesa, il suono sovrastato dal baccano infernale di quella a tutto volume della vecchia dell’appartamento accanto al suo. Quando c’era Ivonne e quando ci sono i ragazzi la cosa è sopportabile, ma adesso Marzio sente di poter impazzire, se non fa qualcosa.
Fa quello che non dovrebbe fare. Mette tutto a posto, esce e chiude a chiave. Bussa alla porta della vicina e quando quella apre e, pur senza riconoscerlo lo invita ad entrare, lui entra. Cosa potrebbe accadere? Nulla, si dice, pur contravvenendo alla regola che si era data. La donna lo fa accomodare in soggiorno e scompare in cucina, perché pure se lui non vuole nulla, lei non può permettersi di non offrire nulla ad un ospite. Marzio era fermamente convinto che quella donna fosse semplicemente vecchia e pazza, ma adesso capisce che è sì vecchia e forse anche un po’ pazza, ma anche assai presente. È viva, quella vecchia è viva. La cosa lo diverte. Sorride, almeno fino a quando dalla cucina non spunta una donna. Da cinque anni aiuta la sua vicina di casa nelle piccole faccende di ogni giorno e Marzio non si era mai accorto di lei. È incredibile quante cose possono accadere accanto a te senza che tu te ne accorga. In pochi minuti Marzio si ritrova seduto ad un tavolo circolare a bere limoncello gelato a secco, neppure un bruscolino a separare il conto dei bicchierini che prendono uno il posto dell’altro. L’anziana donna lo invita a bere. Di quelle bottiglie ne ha una vetrina piena. È il figlio a farla e a regalargliela, anche se lei ormai da trent’anni beve solo acqua. Anche Tekla, l’aiutante della sua anziana vicina di casa si dà da fare e infatti, dopo quattro bicchierini, si lava via di dosso quel brutto sguardo cattivo e diviene più dolce, pur nella sua incancellabile bruttezza. Viene a scoprire un mucchio di cose su entrambe le donne. Chiede se può abbassare il volume della televisione in cucina, ricordandosi all’improvviso del motivo originario della sua visita. Si alza e la spegne e spegnendola sente un rumore. Preme l’orecchio contro le piastrelle antiche, appiccicose di anni dei fumi di anni di fritture. Sente altri rumori. Qualcuno è entrato nel suo appartamento. Eccola, la tachicardia. Arriva insieme a Tekla, ma scema con l’arrivo dell’anziana vicina di casa. Marzio chiede soccorso all’orecchio della badante. Lei conferma, c’è qualcuno. Apre prima un cassetto e tira fuori un coltello e poi la sua ampia borsa bianca da quattro soldi tutta rovinata e gli consegna lo spry urticante.
Non appena è nel pianerottolo Tekla chiude la porta di casa. Si sente scattare la serratura e girare il nottolino. Marzio non può darle torto. Non può permettersi di sbagliare. Già aveva fatto un errore. Apre la porta senza far rumore. La luce nel corridoio è accesa. A terra ci sono due borsoni di Ivonne. Sono pieni di vestiti che ancora erano lì a casa. Altri errori. Erano almeno tre giorni che lei continuava a chiamarlo, senza che lui le avesse risposto, ed era da un paio di mesi che lei gli chiedeva di darle la possibilità di prendere i vestiti che erano ancora lì a casa, nella loro camera da letto, ma lui sempre diceva che poteva aspettare e che aveva i soldi per comprarne di nuovi. Chiudeva a chiave la porta della stanza per non far entrare i figli in sua assenza. Quelli erano stati errori, così come è un errore, adesso, credere di poter rimediare attraversando il corridoio e ammettere di essere stato stupido e rabbioso e che in fondo tutto quel casino era iniziato per colpa sua, per tutta la serie di stronzate che aveva commesso negli anni e soprattutto negli ultimi tre o quattro, quando aveva dato di matto. Potrebbe invitarla a sedersi e parlarle, magari chiederle di quella lettera dell’avvocato, ammettere che quando l’aveva letta aveva avuto paura. Attraversa il corridoio e arriva in soggiorno. Tutte le luci sono accese. Arrivano altri rumori, dalla camera da letto. Marzio batte le palpebre. Non capisce, cioè capisce e non capisce e questa condizione lo mette in ansia e così riprende il suo cammino, ma lentamente, meno sicuro dei propri mezzi, stringendo in pugno lo spry urticante.
Sapeva e non voleva sapere. Sapeva che c’era Ivonne in camera da letto e sapeva che era lì con un altro uomo. Sapeva che lei era entrata lì con l’intenzione di profanare quel poco che ancora poteva essere salvato. Ci mettono qualche secondo di troppo ad accorgersi della sua presenza e quando Ivonne caccia un urlo disperato e lo sconosciuto scatta in piedi e si avventa sui pantaloni per infilarseli, allora Marzio si trova ad un bivio e questa volta non può proprio permettersi di sbagliare, perché insomma, di cazzate ne ha già fatte tante, troppe e ulteriori margini di errore sente di non averne. Potrebbe fare una miriade di cose. Ha il coltello per sgozzarli, ha la forza per rompere il culo a quello stronzetto che aveva osato entrare nella sua casa, spogliarsi e salire sul suo letto. Nella sua mente si rincorrono brutte soluzioni a quella triste scena e così, quando il tipo si schiaccia contro un angolo della stanza e Ivonne, nuda, va piangendo verso di lui, allora Marzio sente che non può permettersi di andare oltre e rivolge lo spry a sè e spruzza, direttamente sul viso, gli occhi, la bocca, il naso e poi si piega a terra, nel dolore, cieco e muto e sordo e questa cosa, che fa male, al momento gli pare l’unica che, pur sbargliata, presenta un margine di errore accettabile.
stay calm within the chaos
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
«La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.» (Antonio Tabucchi)
Sai, la cosa terribile e affascinante, sta nel fatto che non c’è alcun errore, neppure marginale.
Le tue narrazioni non si dimenticano, davvero.
Grazie Ivana. Grazie di un ringraziamento che non prevede margine di errore…
La tua attenzione verso i “vinti” produce sempre risultati che toccano le corde di chi legge. Marzio Ateneo si imprime nella mente, con la sua disperazione di negare ciò che vede, ferendosi gli occhi-Edipo in sedicesimo. Bello, davvero.
Grazie Renza. Forse è solo per mezzo dei vinti (e infondo chi non lo è in un qualche aspetto della propria vita) che si può fare emergere veramente la spinta verso il proprio bene, il senso, la felicità.
E’ vero, Tommaso.Altro che vae victis, oggi bisogna essere da quella parte, riconoscere i punti dolenti della propria vita. Oggi che hanno successo le vite dei ivincitori e tutto sembra il risultato della forza individuale . Tanto che viene definita una vittoria la guarigione dal cancro e si dice- orribile!- che chi guarisce ha vinto una battaglia, mentre chi non ce la fa? Non ha combattuto a sufficienza? Brutti tempi, tempi di dissimulazione disonesta, meno male che restano i Marzio Ateneo e chi ce ne parla…
Ammetto i miei limiti, ma non vedo proprio cosa altro sia altrettanto degno di essere raccontato. Io vedo solo l’uomo, il dolore, l’inquietudine che l’esistenza comporta e, miracolosamente, l’aspirazione indistruttibile alla ricerca (o alla creazione) del senso e di un briciolo di felicità.
Pingback: L’ennesima estate… | Tommaso Aramaico