Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Anni fa tutti i giovani usciti dal collegio avevano il desiderio di far pubblicare un romanzo o delle poesie effimere. A quanti scrittori di cose futili ben si adatta il seguente epigramma di Robbé de Beauveset? Piccolo autore che, strisciando nel fango, credi che i tuoi ritratti siano modellati su quelli di Michelangelo, vuoi dunque essere rilegato in pelle di vitello? Aspetta che le tue palpebre sian chiuse per sempre, allora sarai rilegato nella tua pelle, e sarà proprio la stessa cosa.
Dopo Rilke (qui), con una piccola forzatura e deviando da percorsi ben più battuti, ritorno a L’arte di tacere dell’Abate Dinouart che avevo già presentato (qui). A partire da un lucido parallelismo fra il trattenere la lingua e il trattenere la penna, l’abate ci offre diverse indicazioni – in alcuni punti discutibili, certamente – sull’arte di scrivere, indicazioni che permettono di riflettere sui motivi, i tempi e i molteplici percorsi e scopi che danno senso alla letteratura.
A proposito della letteratura, su di un punto, secondo Dinouart, non si può dissentire: si scrive male, si scrive troppo e, categoria ristretta, capita che non si scriva abbastanza o che vengano troppo poco letti coloro che, al contrario, avrebbero qualcosa da dire. Esistono, secondo il severo abate, scrittori troppo restii a farsi riconoscere, a mettersi in luce, ingegni capaci di trattenere una penna che, al contrario, dovrebbe scrivere.
Si scrive certamente troppo e, spesso, di cose inutili: lo si fa per vanagloria, civetteria, mossi da un narcisismo tanto sconfinato quanto vuoto. Ci sono “uomini che scrivono tanto per scrivere, come ci sono quelli che parlano tanto per parlare“.
A ben vedere, però, c’è un altro problema che dovrebbe affliggere chiunque voglia scrivere (questione che di fatto affligge i più consapevoli): nel corso della storia è già stato scritto di tutto su tutto e, inoltre, a farlo sono stati i più grandi ingegni di ogni tempo. I medesimi, fondamentali argomenti, sono stati trattati una miriade di volte, nel corso della storia. Ma mentre secondo l’abate questo dovrebbe essere un argomento sufficiente per riporre la penna nel cassetto, al tempo stesso si potrebbe suggerire che l’argomento non sia poi così stringente come parrebbe a prima vista. A ben vedere, i grandi temi che impegnano l’uomo, le questioni universali non sono mai problemi astratti e, pertanto, risolvibili astrattamente. Non sono questioni riconducibili ad un 2 + 2 = 4, questioni fuori del tempo che, di conseguenza, obbligherebbero a risposte a loro volta collocate al di fuori del tempo e di ogni discussione. I grandi temi concernenti l’uomo, il senso e così via, sono sempre questioni che nel tempo si realizzano e manifestano e materializzano. Viene in mente Baudelaire e il fatto che, a suo avviso, una vera opera tratta dell’universale sempre all’interno nel presente, che l’arte è capace di dire/esprimere cose che non sono riducibili al presente, ma stando con i piedi, la mente e la penna ben radicati nel presente storico. Così Baudelaire scrive: “la modernità è al transitorio, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile (…) perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia stata tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana“.
Il problema non sono i temi, ma la mancanza di stile, così come la presa sul presente e, al tempo stesso, la capacità di cogliere la questione a prescindere dal nostro puntiforme, limitato, punto di vista.
Ci si lamenta dell’incontinenza dello spirito, responsabile dell’aumento prodigioso di autori di ogni tempra, di libri di ogni genere e di lettori di ogni calibro. In effetti, non si è mai visto un fermento simile a quello che ha colpito le menti negli ultimi venticinque o trent’anni. Tutto brulica di intellettuali, quantomeno l’appellativo è diventato così comune, persino volgare, che oggi è quasi ridicolo esserlo o non esserlo.
Bisogna diffidare di certi tipi di fecondità dello spirito, che a ben vedere sono tutto fuorché fecondi. Uno spirito che manca di vera “cultura” partorisce/ospita pessimi contenuti, così come un terreno non “coltivato” caccia fuori erbacce su erbacce. Bisogna sempre, al contrario, puntare alla brevità, alla precisione e al rigore, essendo queste qualità di uno spirito che non può (né deve, né vuole) garantire l’esattezza delle scienze, ma che ha il dovere di assicurare precisione, rigore, onestà. Questo è (insieme al suono) ciò che costituisce la poesia e, per estensione, ciò che è alla base dei grandi romanzi, della grande prosa, che è e può essere poetica solo in questo senso, nella sua capacità di darsi delle regole al tempo stesso ferree e nuovissime. Spesso si sbaglia e si prendono per poetiche o addirittura “forti” certe scritture falsamente barocche, apparentemente immediate e che paiono ricercate e/o originali solo al primo sguardo. Lo stile è questione di coerenza interna dell’opera, è la messa in moto di una struttura che si tiene in piedi con regole precise.
Per lo spirito è la stessa cosa: quando un autore vuole scrivere un libro, per piacere a chi lo leggerà deve evitare soprattutto di dilungarsi sulle cose buone e ragionevoli: raramente ci si lamenta della brevità, sempre, invece, ci si lamenta della lunghezza. Questo è il difetto in cui cadiamo abitualmente perché non prendiamo tutto il tempo che occorre per circoscrivere, rivedere, ritagliare, ridurre a una giusta misura la materia che abbiamo tra le mani. L’autore, talvolta, si dilunga con piacere sugli argomenti che preferisce, ma ciò che per lui è piacevole spesso è la noia del lettore (…). Un uomo che parla o che scrive più di quanto si vuole annoia sempre: la pazienza fugge, e si abbandona l’oratore in cattedra, o l’autore allo scrittoio, proprio come quando ci si sbarazza di uno scocciatore che si incontra.
Bisogna limare. Qui non è questione di minimalismo, o della banalizzazione che lo oppone al massimalismo e ai suoi caratteristici fiumi di parole e pagine. In entrambi i casi – se le cose funzionano veramente – non vi è mai una parola di troppo, né una parola di meno. Sta scritto ciò che va scritto. Punto.
E, infine, c’è chi non scrive a sufficienza. È per mezzo di questi strani individui e dei loro tentennamenti che si possono cogliere alcune delle condizioni che stanno alla base della nascita della buona letteratura.
C’è un tempo per scrivere come c’è un tempo per trattenere la penna. Sarebbe ingiusto criticare il fatto che un uomo di talento scriva, ma deve saper riconoscere il momento giusto per farlo.
In estrema sintesi: talento ha i suoi tempi. Si potrebbe dire, in aggiunta: uno dei talenti più importanti che deve possedere chi ha talento è di saper riconoscere il tempo per scrivere e il tempo per trattenere la penna. Sapere quando scrivere. Non solo cronologicamente, ma anche logicamente la penna trattenuta necessariamente precede quella che incontra il foglio. La penna trattenuta, la penna succhiata come un ciuccio, mordicchiata, la penna che gratta la zazzera, la penna che non rilascia l’inchiostro sulla pagina sta, di fatto, disegnando lo spazio del pensiero e per il pensiero. La penna inoperosa è strumento fecondo per il talento che sta immaginando il suo necessario percorso. La riflessione, la pazienza, il rigore, il non dire che precede e prepara la stagione del dire sono le direttrici che deve seguire lo spirito che voglia osare scrivere e offrire al lettore ciò che produce. È tanto necessario quanto difficile seguire queste regole di buon senso…e per quelli che poi di questo buon senso difettano, rimarrà una consolazione: almeno avranno osato. Però…c’è un però. Bisogna sempre distinguere il coraggio dalla viltà, ma essere coraggiosi è una cosa, essere spericolati, temerari o più banalmente incoscienti, è un’altra ancora.
Se siamo portati a credere che chi non scrive manchi di talento, e che è pazzo chi sommerge il pubblico di opere, è pur sempre preferibile passare per un uomo sprovvisto di talento non scrivendo, che per un pazzo abbandonandosi al desiderio di scrivere troppo.
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
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“Faccio dire agli altri quello che non so dire bene io", Michel De Montaigne
Scrivere o tacere, e scrivere come e cosa, motivazioni accettabili o meno, criteri di giudizio… è tutto di una soggettività e relatività tali da far perdere senno e salute!
Vero. Non essendoci un canone, ma più canoni, sembrerebbe non solo più facile, ma persino necessaria la più totale perdita di orientamento. Solo l’opera, a questo punto, può orientare…ma per farlo deve essere essa stessa un sistema coerente ed operativo, è qui sta il vero problema…
Nei racconti di Carver funziona il minimalismo, nei romanzi di Gadda la rigogliosità del linguaggio… ce ne sono molti di scrittori che “abbondano”, penso anche a Landolfi e Faulkner, entrambi meravigliosi. Alla fine tutto dipende dall’autore, dalla sua capacità di farlo con grazia o meno. Hai mai letto Joyce Carol Oates? Ho appena finito un suo romanzo esageratamente prolisso e ripetitivo, ma ci sono rimasta “incollata” fino all’ultima pagina… Come hai scritto anche tu, se le cose funzionano (se riescono a prendere il lettore, a coinvolgerlo) alla fine non vi è mai una parola di troppo, né una parola di meno. Ma alla fine tutto è appunto soggettivo, perché ogni lettore risponde in modo diverso ad ogni scrittore. C’è anche chi (per me incomprensibilmente) non sopporta Gadda e Faulkner, e c’è anche chi non sopporta (per me ancora più incomprensibilmente) l’asciuttezza di un Hemingway, scambiandola per banalità.
Sì, Alessandra, concordo con te, tu lo esprimi meglio e con lodevole pazienza documenti… 🙂
Chapeau…
Più vado avanti più sono convinto che ogni vero autore si caratterizza per la capacità di creare mondi con leggi precise, con una loro fisica, fauna e flora. I lettori si distinguono per la capacità di stare in questi mondi e di muoversi in un habitat. Quindi preferisco non parlare di soggettività, ma piuttosto di sistemi di riferimento e aria buona e orizzonti che rispondono meglio alle esigenze di alcuni lettori piuttosto che di altri. Ma forse è solo un’idea strampalata. Non ho ancora letto nulla di Oates, ma mi trovo a mio agio con Gadda e Faulkner (per riprendere un paio di nomi da te citati), più che con Hemingway o Carver o altri (che ho letto avidamente e con piacere). Perché? Direi che rispondono meglio di altri a determinate esigenze…ma preferisco fermarmi qui. Tacere è bloccare la penna aiuta a non rendersi ridicoli, giusto?
Per nulla strampalata, alla fine hai completato in modo più che perfetto il quadro da me abbozzato… Conosco tante di quelle persone che avrebbero bisogno di imparare L’arte di tacere. Non mi sembra che tu faccia parte di questo gruppo.
Come giustamente osserva Guido, difficile trovare punti di riferimento certi e, di conseguenza, non sempre si è certi da quale “fronte” si parla…grazie.
Scrivi: «Più vado avanti più sono convinto che ogni vero autore si caratterizza per la capacità di creare mondi con leggi precise, con una loro fisica, fauna e flora. I lettori si distinguono per la capacità di stare in questi mondi e di muoversi in un habitat.»
E qui mi sembra che stia una sintesi perfetta e che condivido pienamente, di tutto il tuo post e relativo intreccio di commenti.
Poi continui: «Quindi preferisco non parlare di soggettività, ma piuttosto di sistemi….» e vabbeh, qui mi sembra sia solo questione di terminologia, non cambia la sostanza su cui ci si trova a concordare.
(Mentre vengono citati Faulkner piuttosto che Hemingway ecc., io corro col pensiero per esempio a Saramago, scrittore a sua volta dotato di sua particolarità, e vi ritrovo un’altra palpabile conferma del tuo assunto)
Hai ragione, mi sento un piccolo Azzecca-garbugli!!! Purtroppo di Saramago ho letto solo Cecità e il Vangelo secondo Gesù Cristo e, per giunta, l’ho fatto troppo tempo fa…
Modesto!!!!!!! 🙂
Dici: Ho letto solo… 🙂
Alla prossima! 🙂
È sempre un piacere…
Che ne dici di riprendere in mano Il Vangelo, in questi prossimi mesi? Vorrei rileggerlo anch’io.
Mi pare molto saggia, la tua proposta. Si può fare!
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