Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

William Saroyan, La commedia umana

La vita, a Ithaca – e in generale nel mondo – segue un disegno che a prima vista parrebbe senza senso, per non dire folle, ma a mano a mano che i giorni e le notti formano i mesi e gli anni questo disegno acquista una forma e un senso.

Mi sono imbattuto ne La commedia umana di William Saroyan grazie ad una bella recensione su La libraia virtuale di Ivana Daccò (la trovate qui). Incuriosito da una vicenda ambientata ad Ithaca e con personaggi con nomi come Ulysses e Homer, ho scompigliato alcuni piani di lettura e ci ho messo dentro questo bel romanzo che mi ha riportato ai tempi in cui per la prima volta mi trovavo fra le mani i libri di John Fante. Cercherò di dirne qualcosa.

Al centro della vicenda c’è Homer Macauley, orfano di padre e con il fratello maggiore, Marcus, partito come soldato nella Seconda guerra mondiale. Homer è solo un ragazzo, ma dato che al momento è il maschio più grande ancora a casa, sente la responsabilità di contribuire al mantenimento della sua famiglia. Per questo, dopo la mattina passata fra i banchi di scuola, il resto della giornata lo passa a fare il portalettere, correndo veloce per Ithaca in sella alla sua bicicletta, impegnato in una spola continua che dal telegrafo lo spinge a bussare alle porte delle case della sua cittadina. Novello Ermes, messaggero che fa da ponte fra umano e divino, passato e presente, desiderio e paura, fra i vivi e i morti, Homer, che in fondo è solo un ragazzo di quattordici anni, deve – e soprattutto vuole – crescere. È costretto a farlo, poiché non ha più il padre e perché l’amato fratello è lontano, perché c’è bisogno di soldi e perché deve badare al fratello minore, il piccolo Ulysses, un enigmatico bambino di soli quattro anni che gira per la cittadina passando da un’esperienza all’altra senza forse comprendere veramente quello che sta accadendo, ma certamente conscio dell’unicità ed importanza dello spettacolo della vita che di continuo si rinnova davanti ai suoi occhi. In questo bambino, quindi, l’atteggiamento non è quello della semplice curiosità, ma piuttosto la volontà di scoprire, capire a partire da una disponibilità originaria, che è quella della meraviglia. In questo Ulysses incarna la pura innocenza dell’atteggiamento filosofico.

Quel bambino, di nome Ulysses Macauley, un giorno se ne stava a guardare il buco della talpa nel giardino dietro casa, in Santa Clara Avenue a Ithaca, California…Prima che l’incantesimo svanisse, uno degli uccelli di Ithaca era volato verso il vecchio noce…spostando l’attenzione del bambino dalla terra all’albero…Ulysses si guardò intorno. Tutto gli appariva strano, affascinante e senza logica. Era il suo mondo. Strano, pieno di erbacce e spazzatura, ma bello…vicino a un nespolo si mise a prendere a calci i frutti marci e giallastri. Fece quel suo sorriso alla Macauley – quel sorriso gentile, saggio, un po’ enigmatico che dava il buongiorno a tutto.

Romanzo corale, La commedia umana ha certamente al centro il giovane Homer e la necessità che abbandoni l’idillio e l’innocenza dell’infanzia per entrare nel mondo degli adulti – per fare esperienza della vita. Romanzo che ha al centro la formazione di un ragazzo, vero, ma anche, e al tempo stesso, un romanzo corale capace di offrire una carrellata di personaggi che tornano con maggiore o minore frequenza, ma che rappresentano l’umanità e la sua commedia. Vi si possono scorgere molte cose, soprattutto una piccola parabola del cammino dell’uomo nella storia, un cammino che non ha un percorso già tracciato, un fine scritto, ma piuttosto un movimento aperto, segnato però dalla legge della vita, che emerge come necessità di farcela, come imperativo alla realizzazione di sé e, per conseguenza, segnata dal rischio del fallimento.

È un affresco splendido di un’America frutto di scambi e diverse etnie, religioni, usi, cibi e temperamenti che si incontrano. Attualissimo nel suo approccio al problema dell’integrazione e dell’apertura all’altro, al diverso, e nel mettere al centro della vicenda la necessità di realizzare il superamento delle diseguaglianze sociali, avanzando l’idea che non si può mai vivere di rendita e a discapito di chi parte da una condizione di svantaggio e che ognuno deve avere in relazione alle capacità ed alla determinazione a farcela. Pare, lo ripeto, di leggere certe ispiratissime pagine di John Fante, quando Saroyan evoca la ferma volontà di Homer di affermarsi ed emergere e qui, come lì, prepotente emerge il dato autobiografico. La condizione di italo-americano quella di Fante, di figlio di armeni fuggiti dalle persecuzioni quella di Saroyan.

Il lavoro, l’istruzione e pertanto la scuola, hanno il compito di realizzare questo progresso che sia sociale, che spirituale e morale. Nello specifico l’istituzione scuola viene incarnata da una vecchia maestra, la signora Hicks, e dal suo preside, il signor Ek che, di fronte ad un insegnante che offende uno studente italo-americano, e dopo aver fatto un torto a Homer, invita il professor Byfield a scusarsi e a comportarsi come un vero americano e cioè come parte di un qualcosa di più grande, fatto di molteplici luoghi di provenienza, di lingue e di lineamenti diversi.

Proprio così – aggiunse il preside. Questa è l’America, gli unici stranieri qui sono coloro che dimenticano che questa e l’America.

Quello che si respira in questo romanzo è l’umanità, una incredibile umanità che brilla nei minimi gesti quotidiani così come nelle parole più semplici. È una umanità che sbalordisce e quasi stride, parendo contraddittoria, dal momento che si dispiega sullo sfondo di una guerra tanto terribile quanto lontana, sullo sfondo di una guerra che è riverbero e segnale che si traduce in messaggi per mezzo di vecchi telegrafi che annunciano lo spettro della morte. Dove è il senso di questa guerra, della carneficina, delle giovani vite spezzate, del dolore delle madri che speranzose aprono le porte delle loro case a Homer, giovane e disorientato messaggero? Non emerge con chiarezza, questo senso, e il ragazzo, come tutti, fatica a sopportare l’immane ingiustizia. E però il bene esiste ed è incarnato da semplici uomini. Ci sono, ad esempio, il signor Spangler, che ha dato il lavoro ad Homer o, ancora, il grande Chris, una semplice comparsa che si prende cura del piccolo Ulysses che, per la sua curiosità, è riuscito a cacciarsi in un piccolo guaio. E, ancora, anziani uomini che permettono a dei bambini di rubare qualche pesca fingendosi poi adirati, giusto per donare loro una piccola avventura; e certamente ci sono le donne, queste incredibili donne che devono cavarsela senza gli uomini, tutti in guerra. Donne che tengono duro, che con dignità piangono la vedovanza o la perdita di un figlio in guerra. Fra tutte, esemplare è la signora Macauley. Capace di tranquillizzare i figli, i vicini, ma anche di tacere al momento giusto, lasciando spazio a chi le sta intorno, soprattutto ad Homer, impegnato nel durissimo compito di crescere. Una donna capace di accogliere un giovane soldato tornato sì vivo dalla guerra, ma che al tempo stesso è solo, spaesato, ancora sconvolto.

La signora Macauley…si fermò a guardare i suoi due figli, ai due lati del forestiero, il soldato che aveva conosciuto suo figlio che ormai era morto. Sconvolta nel profondo, sorrise ugualmente al soldato, e disse: “Entra, ti prego, non vuoi che ti facciamo vedere la casa?”.

Ma quale è il senso di questo romanzo che procede senza che paia esservi un reale filo conduttore, ma che sembra essere solo una storia che tutta si risolve in una sorta di affresco, in una istantanea venuta un poco mossa e nulla più? A quale domanda cerca di rispondere o in generale pone Saroyan? Non saprei, a dire il vero, eppure mi pare che rimandi alla necessità di vivere pienamente anche l’epoca della guerra, invitando a non tirarsi mai indietro, a trovare sempre il coraggio per andare avanti, a saper crescere, e cioè a sapersi allontanare dai propri cari sopportando il dolore che comporta ogni separazione. Allontanarsi, separarsi, crescere, ma senza dimenticare coloro da cui ci siamo allontanati e che ci aspettano e verso i quali abbiamo il dovere di manifestare la nostra riconoscenza e fedeltà, facendo ritorno. Tutto questo è splendidamente suggerito da un breve scambio di battute tra Homer, che esprime il suo desiderio di lasciare Ithaca, e il piccolo Ulysses, che ha già perso un fratello ed un padre e non sopporta l’idea di veder partire anche questo fratello che tanto ama.

“Non sono mai stato da nessun’altra parte”

“Ci andrai?”

“Un giorno”

“Dove?”

“A New York”

“Tornerai?”

“Certo”

“Volentieri?”

“Certo”

“Perché?”

“È sempre bello ritornare, ecco perché”

Perché molti sono partiti e tanti purtroppo non potranno fare ritorno. Ma per questi ci sono la memoria, il pensiero e l’eredità accolta e preservata da coloro che rimangono – da coloro che sanno partire, ma anche tornare.

Audentes fortuna iuvat, Virgilio

6 commenti su “William Saroyan, La commedia umana

  1. Ivana Daccò
    febbraio 20, 2018

    Bellissimo che tu abbia letto questo libro; e bellissima la restituzione che ne dai! E’ sempre un grande piacere condividere e confrontare una lettura, La visuale si allarga, si scoprono angoli, ci si prepara alla rilettura di un libro che rinasce.
    Ora, a me resta il bisogno di leggere John Fante, che mi manca e, finora, non ho trovato sul mio cammino, pur ripromettendomi di cercarlo, sai il genere una volta o l’altra che non viene mai.
    Ai complimenti aggungo dunque un grazie

    • tommasoaramaico
      febbraio 21, 2018

      Grazie a te. La commedia umana è veramente un bel romanzo. Niente a che fare con i postmoderni a proposito dei quali abbiamo scambio qualche battuta. Qui si legge e ci si fa trasportare dalla storia. Punto.
      P.s. Fante è semplicemente Fante.

      • Guido Sperandio
        febbraio 21, 2018

        Sì, non ha niente a che vedere con i post-moderni, Saroyan ha una scrittura calda, nel giro di poche pagne riesce a farti ridere e commuovere.
        E Fante è semplicemente Fante, sì.

      • tommasoaramaico
        febbraio 21, 2018

        Era tempo che non leggevo un romanzo di questo tipo. Schietto, rispettoso dei personaggi, vicino alle loro vicende. In una parola: umano. Bello. Bukowski diceva che Fante era il suo Dio…

  2. Ivana Daccò
    febbraio 22, 2018

    E’ così, poi. Correnti letterarie, scuole di pensiero, su cui si discute, si confronta. Alla fine, un libro vale, se vale, per sé; e l’artista, pur dentro il suo tempo, lo oltrepassa, ne prescinde. E il lettore, non so, la stessa differenza, credo, che c’è tra odorare il profumo di un fiore, gustarne i colori allo sguardo, e fare un lavoro da botanico che seziona e classifica.
    Tra poco, John Fante. .

    • tommasoaramaico
      febbraio 22, 2018

      Le etichette servono a fare ordine e aiutano a comprendere e sono pertanto necessarie, ma ogni opera deve primariamente procurare piacere, “deve” piacere e quindi veicolare un’idea di bello e spingere alla ricerca del vero. Il resto viene solo in un secondo momento. Ma questo è solo quello che penso io, nulla di più. Buon Fante…

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Questa voce è stata pubblicata il febbraio 20, 2018 da con tag , , , .

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