Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Abate Dinouart, L’arte di tacere

Fra le varie arti di cui è ricca la letteratura, da quella del ben parlare o del retto ragionare, ce n’è una che mai come oggi sarebbe necessario coltivare, tanto in vista del bene del singolo, quanto di quello della comunità, ossia l’arte di tacere o, detto altrimenti, del saper parlare nel momento giusto. Si parla tanto, troppo e inevitabilmente a sproposito. Già alla fine del Settecento, l’abate Dinouart sentiva l’urgenza – anche se a partire da una impostazione religiosa – di elaborare un sistema di regole e principi per imparare questa difficile, difficilissima arte, quella di tacere. Preso come spunto Silenzio (qui), questo testo affronta con grande lucidità e precisione il problema dell’eccesso di parole che cercano di mascherare la loro vacuità dietro una presunta libertà di parola, mentre, al contrario, l’unica vera legittimazione della parola sta nel suo contenuto, nella sua intenzione e nelle sua finalità più propria: l’insegnamento della virtù. In questo senso l’abate Dinouart si colloca a pieno titolo sulla via tracciata prima dall’insegnamento di Socrate e poi di Seneca. Diversi sono anche i modi di tacere: lo si può fare trattenendo la lingua, tacendo per l’appunto; oppure trattenendo la penna, e cioè astenendosi dallo scrivere (ma di questo tratterò in un’altra occasione, dato che, in qualche modo, ne viene fuori un’idea di letteratura).

Esistono delle regole per lo studio delle scienze e per gli esercizi del corpo. La Repubblica Letteraria è ricca di opere come l’“Arte del pensare”, l’“Arte dell’eloquenza”, “Introduzioni alla geografia, alla geometria” ecc. Per quale motivo, dunque, non si insegna l’“Arte di tacere”, arte così importante, e tuttavia così poco conosciuta? Cerchiamo di spiegarne i principi e la pratica.

Il tacere non si riduce al semplice tenere la bocca chiusa, bensì è qualcosa di più complesso ed ha a che fare col “saper dominare la lingua“. Tacere, come arte del tacere, è un disciplinare la lingua, è osservare un rigorismo morale difficile da coltivare e che ha a che fare con la tentazione di dire-male, di un dire malamente che è sempre un parlar-male-di, che può avere come oggetto cose o persone. Il saper tacere implica l’idea di un’ascesa morale che non culmina nel mutismo o in una dogmatica astensione dalla parola, ma un saper discernere con saggezza il se, il come, il quando e l’a-proposito-di-cosa ed il con-chi…parlare.

Il primo grado della saggezza è saper tacere, il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso, il terzo è saper parlare molto senza parlare male e senza parlare troppo.

Nel discorso giusto viene per primo il silenzio, poiché solo il silenzio può generare parola piena, sensata. Il silenzio sarebbe, in questo senso, un orizzonte nitido e coerente, un cielo limpido in cui le giuste parole, come nuvole, si muovono e sono ben distinguibili l’una dall’altra per forma, senso, finalità. Al contrario, il parlare senza freni sarebbe un cielo plumbeo, coperto di un unico, magmatico e caotico fiume di suoni senza che nulla, in realtà, sia veramente intellegibile. Sono molti i motivi per imparare questa arte, quella del tacere. Non si tratta solo di ragioni di convenienza, del fatto che colui che tace spesso restituisce l’idea di saggezza o, quantomeno, di non dichiarata stupidità. Tacere, oltre a limitare le possibilità di mettersi nei guai, preserva dal rischio di perdere se stessi, poiché il parlare è, di fatto, un dissipare se stessi, un perdere parti di sé per mezzo della parola. Parlare è consegnare qualcosa di sé a chi ascolta. Non si tratta solo di farsi sfuggire un segreto (e tradire, pertanto, tutta la voluttà che comporta il carpire e poi il rilasciare qualcosa che non si dovrebbe sapere e di cui non si dovrebbe parlare), ma piuttosto si tratta del fatto che il parlare è sempre un consegnare qualcosa di sé all’altro, non semplice esposizione, ma disaggregazione, lasciare che l’altro porti via con sé una parte di noi. È nella natura della cose che ogni “smania di dire” già di per sé, proprio in quanto smania, dovrebbe già essere un buon motivo per tacere.

In generale è certo che si rischia di meno a tacere che a parlare. L’uomo non è mai tanto padrone di sé quanto lo è nel silenzio: quando parla egli sembra perdersi, per così dire, al di fuori di sé, e dissolversi nel discorso al punto da appartenere meno a se stesso che agli altri.

Certo, non necessariamente chi tace è più saggio di chi parla. Si può tacere anche per stupidità ed ignoranza, anche se, solitamente, l’ignorante e lo sciocco, proprio in forza dell’ignoranza e della stupidità, non possono fare a meno di parlare e di voler dir la propria. Il problema è che non sempre si può essere certi del luogo dove ci si trova e fino a che punto questa difficile arte, che non è altro che un altra forma di retorica, ci sia estranea o familiare. 

La smania di parlare (e di scrivere)…è diventata una malattia, un’epidemia che colpisce moltissimi tra noi.

11 commenti su “Abate Dinouart, L’arte di tacere

  1. Alessandra
    febbraio 3, 2018

    A questo punto farei bene forse a tacere ;-), ma mi perdonerai (spero) se scrivo che questo articolo mi è piaciuto davvero molto (non potevo limitarmi al like, dovevo anche dirtelo). Sulla saggezza dell’abate Dinouart credo che dobbiamo rifletterci tutti, perché ad ognuno di noi può capitare (prima o poi) di dire delle parole in modo avventato o inappropriato, magari sull’onda della foga emotiva, salvo poi pentircene in un secondo momento. Un’arte davvero difficile quella di tacere, quella di discernere se è il caso o no di controbattere o di scegliere il momento (e il modo) più giusto e appropriato per farlo. Se poi c’è una categoria che stenta a ponderare meglio le idee prima di esternarle, che stenta a smaltire eventuali irritazioni prima di controbattere, imparando ben poco dagli sbagli già fatti, è quella dei “politici” (ma non sono appunto gli unici, ci siamo dentro tutti in questa cosa).

    • tommasoaramaico
      febbraio 3, 2018

      È vero. Tutto il discorso è attraversato da una contraddizione di fondo (parlare, mentre si consiglia di tacere – tipo chi urla contro qualcuno di smettere di urlare) o, ancora, da una vanità di fondo (e cioè di credere di essere fra i pochi privilegiati che hanno diritto di parlare). Ma insomma, lasciamo ad altri il vessillo della coerenza. Tacere è terribilmente difficile, anzi, impossibile, poiché anche dal silenzio non può che emergere un messaggio – anche quello stupido, efferato, volgare. È una trappola.

  2. Alessandra
    febbraio 3, 2018

    Sì, hai ragione. Poi c’è anche il silenzio che può (e spesso vuole) ferire, quando uno evita appositamente di risponderti, quando si rifiuta di chiarire il motivo della sua ostilità. E ti lascia lì in sospeso, magari per giorni o mesi, negandoti il diritto di sapere. Negandoti soprattutto la possibilità di chiarire la questione. E poi c’è il silenzio dell’indifferenza, forse il peggiore di tutti. Quel far finta di niente o cambiare discorso di fronte a cose che sono intollerabili. Abbiamo quindi appurato che se tacere a volte fa bene, in altri casi si rivela dannoso, sia per sé (talvolta senza rendersene neppure conto) che per gli altri .

    • tommasoaramaico
      febbraio 3, 2018

      Il silenzio, anzi il tacere, nel senso di un non parlare che nasce da un preciso proposito, può essere un’arma e chi la sa usare può provocare dolore. Il vero tacere, tuttavia, non è mai indirizzato al controllo dell’altro, ma sempre al dominio di sé e della nostra parte peggiore.

    • Guido Sperandio
      febbraio 3, 2018

      Ecco, concordo con Alessandra (precedenza alle donne, vado all’antica) e con Tommaso. Era la morale che ne avevo tratto dai discorsi dell’abate.

      • tommasoaramaico
        febbraio 4, 2018

        E all’antica pare anche questo piccolo scambio di idee. Cose del tipo “trarre una morale”, mettere al centro idee come “virtù” o “disciplina” (sempre in senso morale)…forse è proprio la loro inattualità a renderne così urgente la ripresa.

  3. ilmestieredileggereblog
    febbraio 4, 2018

    senz’altro, se ne dovrebbe riprendere possesso. Ci fa riflettere l’abate, ma a me viene in mente anche una “perla” di saggezza contadina e popolare che mia nonna mi inculcava quando ero bambina. “Parla poco e ascolta assai che giammai ti pentirai”… nonna sapeva a malapena leggere e scrivere, ma sapeva bene che prima di parlare (a vanvera) è meglio tacere o almeno pensare.

    • tommasoaramaico
      febbraio 4, 2018

      La saggezza popolare, in fondo, è il risultato di una meditazione non individuale (frutto del genio del singolo, filosofo teologo o letterato che sia), bensì di una meditazione “collettiva” che prende sostanza e forma in detti e proverbi e massime pregne di inesauribile saggezza. Di una saggezza che, come giustamente ricordi, non ha bisogno di libri!

  4. Renza
    febbraio 7, 2018

    Molto, molto interessante, questo saggio che ci hai così ben presentato. Sorvolo sulle contraddizioni ( forse solo apparenti) del parlare dell’ opportunità di tacere
    Mi piace molto l’ inattualità del principio per cui la parola deve insegnare la virtù. Concetto e termini da far gridare allo scandalo sociale … eppure se pensiamo alla virtù come al corretto parlare, al corretto ragionamento, al senso intrinseco dei discorsi forse si può anche convenire che il parlare per sè e per propria esibizione ( come oggi si fa) è sintomo di una dissimulazione disonesta.
    C’ è differenza tra il silenzio sul piano delle relazioni personali e quello sulle relazioni sociali e politiche. Il tacere nella prima condizione può anche comprendere, come riporti tu, il timore di dissipare se stessi, un perdere parti di sé per mezzo della parola. ( quante volte è capitato che nostre parole siano state rimaneggiate in un diverso sentire…). Nella seconda rischia di diventare acquiescenza al potere, connivenza. In ogni caso, l’ invito ala virtù del silenzio mi sembra decisamente opportuno.

    • tommasoaramaico
      febbraio 7, 2018

      Mi piaceva l’idea di mettere al centro il concetto di virtù, concetto decisamente fuori moda. La cosa che emergere da quanto ho letto è che la parola ha un potere enorme e, in quanto tale, va usata con grande attenzione. Probabilmente tutto questo è così difficile perché non abbiamo altro che le parole, che siano dette, pensate o scritte e che, inevitabilmente, trasudano dal nostro stesso corpo.

  5. Pingback: Sulla letteratura – Abate Dinouart | Tommaso Aramaico

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Questa voce è stata pubblicata il febbraio 3, 2018 da con tag , , .

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