Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Elisabetta guarda il cellulare. Non lo fa perché si aspetti di trarne qualcosa di preciso, ma per il fatto che l’ha pagato una discreta somma e, prima di esserne entrata in possesso, l’aveva desiderato per due mesi e adesso, mentre è nel traffico per andare a lavorare, quel cellulare dovrà pure dimostrare di servire veramente a qualcosa. Così, almeno, le era stato fatto capire e credere – che poteva risolvere problemi. Le era stato promesso forse implicitamente, ma comunque le era stato promesso. In realtà non succede niente. È ancora nel traffico, bloccata a cinquanta metri dall’incrocio su cui troneggia il 515 che non può né andare avanti, né tornare indietro. Il semaforo è ancora lontano, il marito sempre disoccupato, il figlio pieno di tic, lei costretta a turni insensati all’area di servizio dell’uscita 15. È lì che sta andando, lì dove l’aspetta il grembiule che va stretto sulle tette su cui campeggiano i colori e il simbolo della catena di ristoranti che in cambio di un contratto pieno di falle le offre una busta paga che a mala pena copre l’affitto, il cibo, la logopedia per Pietro e, in più, un mucchio di uomini che le rompono le palle mentre cerca di non dimenticare gli ordini che si succedono rapidi, uno dopo l’altro. Butta il cellulare sul sedile di lato, perché tanto non serve ad un cazzo, e guarda la strada. Ingrana la prima e divora quei venti centimetri che intanto si sono materializzati fra la sua monovolume nera e la station wagon bianca che le sta davanti. Si concentra sul vecchio che la sta guidando. All’inizio coglie solo i capelli corti e bianchissimi poi, attraverso lo specchietto, intuisce un paio di baffi e solo dopo qualche secondo mette tutto insieme e realizza che quell’uomo è il vecchio del piano terra, quello vedovo e che da pochi mesi ha perso l’unica figlia, una donna che non aveva mai lasciato la casa dei genitori perché affetta da qualcosa che doveva essere un grave ritardo mentale o chissà che. Ma lei di questa storia non aveva mai saputo niente di più, né mai gliene era fregato nulla.
Davanti al vecchio del piano terra – di cui non ha voglia nemmeno di ripescare il nome nella memoria – le macchine si stanno muovendo. Non sa nemmeno lei perché non si attacca al clacson per intimargli di sbrigarsi, però qualcuno suona alle sue spalle. Finalmente il 515 libera l’incrocio e la fila scorre. Elisabetta abbassa il finestrino e accende una sigaretta. Si perde per un istante di troppo sulle proprie labbra riflesse nello specchietto retrovisore. Sono tirate e screpolate sotto il lucidalabbra. Labbra di chi solo a fatica riesce ormai a pronunciare qualche frase di senso compiuto. Quello dietro picchia ancora sul clacson e allora parte. Davanti, la macchina del signor Dinouart, il nome alla fine viene a galla da sé, è arrivata all’incrocio e sta per girare. Elisabetta fa appena in tempo a vedere un adesivo che non aveva notato prima. È attaccato al lunotto posteriore, in basso. Non distingue bene, vede giusto due punti ed una linea, il resto se lo perde.
Elisabetta non sa se sono passati tre o quattro giorni dalla mattina in cui si era trovata dietro la station wagon del signor Dinouart. Più tre che quattro, però, perché doveva essere quella in cui aveva bucato la ruota sul raccordo, fra l’uscita numero dieci e la undici e aveva acceso le quattro frecce e sistemato il triangolo sulla corsia di emergenza e poi, dopo essere rientrata in macchina per aspettare il soccorso stradale, aveva poggiato la fronte sul volante e aveva iniziato a piangere. Aveva pianto pensando ai soldi, al marito, al figlio e al collega alla cassa con cui da quasi due mesi tradiva tutto quello in cui un tempo aveva creduto di credere. Piangeva, e intanto l’aria calda accesa al massimo le seccava le lacrime sulle guance.
Adesso il signor Dinourat ce l’ha un’altra volta lì davanti e sul lunotto ha ancora quell’adesivo, solo che non sembra lo stesso dell’altra volta. La sequenza di punti e linee le pare più lunga. Elisabetta si ricordava due puntini e una linea, mentre questo sembra diverso. Inizia con tre punti, poi ci sono tre linee.
Aveva pensato diverse volte al signor Dinourat in quei giorni e lo aveva persino incontrato sul pianerottolo. L’aveva salutato e lui, come sempre, aveva risposto a bassissima voce, lasciandola un attimo perplessa. Mi ha risposto veramente o me lo sono solo immaginato? Si era chiesta. Era basso e chiaro di carnagione. Magro ed agile, vestito in modo impeccabile. Elisabetta non aveva mai saputo che lavoro facesse, ma da come si vestiva sembrava qualcosa come un dirigente o cose del genere. Lei aveva aspettato l’ascensore, indugiando per poter gettare lo sguardo attraverso la porta aperta, nella speranza di carpire chissà cosa. Ma l’uomo non glielo aveva permesso. Lo spiraglio che per un attimo si era aperto dava su di un corridoio che si perdeva nell’oscurità e lì, in quell’oscurità, era andato a nascondersi. Adesso il signor Dinouart è lì davanti e sta per girare all’altezza dell’incrocio. Elisabetta scatta una foto all’adesivo, almeno questo cazzo di cellulare servirà pure a qualcosa.
Elisabetta, a tavola, passa in rassegna le foto che ha scattato negli ultimi giorni. Manda giù una crocchetta di pollo fumante di forno a microonde. Ha trovato un programma che le permette di tradurre quel complesso di punti e linee che a rotazione il signor Dinouart fissa sul vetro della sua macchina. Ci pensa su, mentre legge, ora che ne ha scoperto il senso.
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…e ancora
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Ci pensa su, mentre risponde con un cenno del capo ad un lungo discorso del marito. Frasi su frasi, elucubrazioni su elucubrazioni e lamentele su lamentele di cui lei non ha ascoltato neppure una parola. Lui la guarda con la sua solita faccia da stronzo. Elisabetta gli sfiora il braccio per tranquillizzarlo e lui, buono come un bambino, torna a guardare la TV.
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… — .-.. —
Corregge con un sorriso il figlio che ha scambiato una d con una b, una f con una l, che ha detto ingogliare e scrofinare. Il ragazzino la guarda, perplesso, poi prende tre crocchette di pollo e se le infila in bocca. Un colpo di tosse e sputa tutto sul tavolo. Checchifo, dice. Un bambino di nove anni non può parlare così, pensa Elisabetta, che si alza e va al computer.
Ha rischiato di fare un incidente, si è beccata un paio di insulti pesanti, ma è riuscita a mettersi proprio davanti alla macchina del signor Dinourat. Sul retro, stamattina, anche lei ha attaccato un adesivo. Guarda lo specchietto retrovisore. Le pare di vedere l’uomo sorriderle o forse è solo un’impressione.
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Non si vergogna, a parlare a quel modo. Si sente meglio, a tacere a quel modo.
Liberamente ispirato dalla lettura de L’Arte di tacere dell’Abate Dinouart, Elliot edizioni
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
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A rigor di logica, bisognerebbe non commentare questo tuo bel post. Ma qui non è possibile tener per sè certi pensieri ( ho fatto una rapida ricerca su questo testo che non conoscevo) , bisogna invece usare la parresia. Suggestiva l’ ambientazione, sempre toccante la descrizione dei personaggi ( quegli anziani negli appartamenti crepuscolari che spesso racconti…). Sul silenzio ci sarebbe tanto da dire (!). Bando alla preterizione, taccio in piena consonanza con l’ abate Dinouart.
Grazie. Ho intenzione di dedicare qualche riga a questo saggio breve e denso. Giusto per mettere il punto (almeno entro la cornice del blog) sul problema del dire e del tacere, riprendendo una questioni che avevo già affrontato, tempo fa…
Bene, Tommaso. Ci conto.
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