Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Un paio di giorni fa, nel tentativo di portare un poco di ordine in fondo a certi scaffali dove da tempo non mettevo mano, mi sono imbattuto in un opuscoletto da anni dimenticato. È stato un piccolo deragliamento temporale che, buttandomi fuori dal presente, mi ha scaraventato nel bel mezzo di un pomeriggio di una ventina di anni fa, quando, dopo l’ennesimo assalto ad una bancarella di libri usati, me ne tornavo a casa, fra le altre cose, con una copia delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, prezzo di copertina L. 2010. Questo piccolo salto temporale ho ricordato il ritorno a casa in treno (uno degli innumerevoli), la lettura in un’unica soluzione dell’opuscolo. Me ne sono concessa una seconda, di lettura, a distanza di molti anni – ritrovando la mia vecchia calligrafia da moccioso…
Caro Signore,
La vostra lettera mi è giunta da poco. Tengo a ringraziarvi della vostra preziosa e larga fiducia. Posso fare poco di più. Non entrerò nella maniera dei vostri versi, essendomi estranea ogni preoccupazione critica. Del resto, per afferrare un’opera d’arte, non c’è niente di peggio delle parole della critica. Esse conducono solo a malintesi più o meno felici. Le cose non sono tutte da prendere o da dire, come si vorrebbe far credere. Quasi tutto quello che avviene è inesprimibile e si compie in una regione invulnerata dalla parola. Più inesprimibili di tutto sono le opere d’arte, questi esseri segreti, la cui vita non ha fine e che costeggiano la nostra che passa.
Con queste parole scritte da Rilke nel febbraio del 1903 durante un soggiorno a Parigi, si apre la corrispondenza fra il grande poeta boemo ed un giovane allievo dell’Accademia militare Wiener-Neustadt di nome Franz Xavier Kappus. Il giovane allievo era seduto nel parco dell’Accademia, sotto degli antichi castagni e leggeva i poemi di Rilke. Horacek, elemosiniere dell’Accademia, gli si avvicina e dopo aver letto sulla copertina il nome dell’autore commenta così: “Così dunque l’allievo René Rilke è diventato un poeta“. Il giovane Kappus, aspirante poeta, si decide a scrivere a Rilke e a rimettere al suo giudizio i suoi primi tentativi poetici. Ne viene fuori una corrispondenza toccante e sincera, nonché una testimonianza diretta e semplice (non facile, ma cristallina) di cosa Rilke intendesse per arte e quale fosse la sua visione dell’attività dello scrittore.
La prima istanza a cadere sotto la sua scure è la critica. Mi permetto di riassumere. L’arte, muovendosi sul crinale che separa/collega il dicibile con l’indicibile non tollera altro che se stessa. La critica, come tentativo di incasellare l’opera d’arte in categorie, ragionamenti e ricostruzioni è di fatto da scartare, poiché tradirebbe la sublime immediatezza dell’arte, che, per inciso, non sopporta traduzione. L’unico approccio all’arte è quello di chi la fruisce e ne trae piacere e delizia. Ma si può parlare dell’arte? Rilke pare negarlo categoricamente, eppure mi viene in mente (e in questo mi rifaccio ad un mio appunto a matita a margine dell’attacco di Rilke) che forse d’arte si può scrivere: l’unico modo di dire l’arte deve essere a sua volta, come per magia, un dire-le-cose-ad-arte. Un dire che non scimmiotta, né che ri-dice stancamente ciò che nell’opera d’arte è stato detto nell’unico modo in cui poteva esser detto. L’unica critica possibile è quella che, con la scusa di parlare di un’opera, si dà essa stessa come opera – oltrepassando, di fatto, la critica stessa.
Come rovescio della medaglia, emerge la necessità che lo scrittore non rivolga il proprio sguardo all’esterno, alla ricerca di conferme o di un indirizzo da seguire. Altro che corsi di scrittura creativa, Rilke a tal proposito è (giustamente) lapidario: “Nessuno può portarvi consiglio o aiuto, nessuno“. E, mi permetto di aggiungere, se proprio si deve cercare al di fuori, tanto per comprendere cosa non si deve o non si potrebbe fare in letteratura, allora per questo ci sono le grandi opere. Lì c’è tutto quello che serve. Se la lettura non è già scrittura, è però certamente il mezzo migliore – l’unico, insieme allo scrivere – per costruire strumenti e strategie in vista di un possibile stile.
Entrate in voi stesso, cercate il bisogno che vi fa scrivere: esaminate se trae le sue radici dal profondo del vostro cuore. Confessate a voi stesso: morireste se vi fosse vietato di scrivere?
Pare eccessivo, forse persino ingenuo,soprattutto oggi, qui dove si sono affermati il disincanto e l’ironia (cui non a caso Rilke dedica alcuni passaggi assai profondi), che paiono gli unici atteggiamenti possibili e credibili. Nessuno forse risponderebbe affermativamente – No, non morirei sul colpo! Oppure si potrebbe torcere il collo alla domanda di Rilke e magari rispondere di sì: Sì, una parte, anzi, la parte centrale di me morirebbe. Andrei incontro ad un degrado lento, inarrestabile ed inesorabile nell’anima. Morirebbe la mia stessa capacità e possibilità di realizzare veramente me stesso. La mia felicità diventerebbe un miraggio, tutto si svuoterebbe di senso. No, nessuno muore nel corpo, però certamente morirebbe (simbolicamente) l’uomo destinato alla scrittura, se privato di tale attività. È in questo senso che il vero scrittore risponde affermativamente alla domanda di Rilke: “Sono veramente costretto a scrivere?“. La risposta non può che essere affermativa, perché lo scrittore senza scrittura diventerebbe altro, mentre per gli altri, per tutti gli altri, la scrittura è attività accessoria, attributo e contingenza, mentre nello scrittore è elemento costitutivo. Quindi, come scrive ancora Rilke, “La vostra vita, fino nella sua ora più indifferente, più vuota, deve diventare segno e testimone d’un tale impulso“. Mi viene da pensare al celebre lamento di Joseph Conrad, che si domandava se mai sarebbe riuscito a far capire alla moglie che anche mentre guardava fuori dalla finestra stava lavorando. Lo scrittore non è che non possa semplicemente vivere senza scrivere, no, lo scrittore fatica a vivere senza lavorare. La vita, anche nei suoi momenti apparentemente più insignificanti, è in realtà tesa alla creazione di opere. In questo senso ogni opera nasce da un senso di necessità. Tale condizione produce (e nasce e si alimenta) da una solitudine senza pari. La letteratura, per come emerge da queste lettere di Rilke, si presenta come Destino che non prevede ricompense: il creatore si pone rispetto a se stesso come ad un universo che evolve secondo regole interne. Si può così mettere un punto definitivo sulla domanda già posta – può vivere lo scrittore senza la scrittura? Si provi a togliere la scrittura allo scrittore, così come a risucchiare via l’energia dall’universo – in entrambi i casi si assisterebbe ad un collasso, ad una vera e propria catastrofe.
Mi viene in mente l’immagine di uno scrittore che si sveglia al mattino, mi viene da pensare che possa essere abbattuto per la mancanza di riconoscimenti che crede di meritare, così come per le incombenze della vita di ogni giorno e il poco tempo che gli rimane per la cosa che reputa essere più importante. Mettiamo che a un certo punto sorga la domanda più inquietante che ci sia per un uomo del genere: non è forse arrivato il momento di gettare la spugna? Mi pare di vederlo, mentre sussulta – E per fare cosa? Già da sempre sa che nulla potrebbe, non tanto sostituire, ma anche solo parzialmente alleviare un vuoto senza pari: quello lasciato da un desiderio bruciante verso cui si voltano le spalle. Dice bene Rilke, “In fondo non ho tenuto che a consigliarvi di crescere secondo la vostra legge, gravemente, serenamente“. Vorrei uscire un attimo fuori dal recinto di questa corrispondenza e riportare un passo di Nietzsche, autore che proprio in quel periodo leggevo con particolare avidità e il cui nome annotavo proprio a margine di queste lettere. Il passo è tratto da Schopenhauer come educatore, saggio contenuto nelle Considerazioni inattuali.
…gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata. Soltanto gli artisti odiano questo indolente incedere…essi soltanto osano mostrarci l’uomo nella sua peculiarità e unicità fin nel più piccolo movimento muscolare…L’uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: “sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora”.
Lo scrittore non misura la propria attività secondo il tempo delle normali incombenze. Non c’è misura, nulla può essere sollecitato. Pazienza e volontà di incontrare ciò che è difficile ed arduo sono gli unici criteri di misura, le uniche coordinate esistenziali dello scrittore. Ma lo scrittore non deve perdere o dimenticare nessun aspetto della vita in quanto tale, bensì cercare di organizzare la propria esistenza intorno alla scrittura. Non c’è forse nulla di peggio di qualcuno che sfugge al proprio compito e che non riesce a costruire e progettare la propria esistenza intorno a questo stesso compito e destino. Sempre tornando a Nietzsche: “Nel mondo esiste una sola strada che nessuno, se non tu, può percorrere: dove conduce? Non domandare, ma seguila!“.
Il desiderio della scrittura emerge quindi come una forza centrale, dirompente, questo sì, ma non tanto da distruggere le altre istanze dell’esistenza. Deve agire più come un centro gravitazionale capace di organizzare e strutturare la personalità stessa dello scrittore in una sorta di sistema solare in perenne movimento ed evoluzione. Ma in fondo, non vi è, né può esservi formula generale, misura o regola che spieghi, diriga e permetta di accordare la vita esteriore, con tutte le sue incombenze, e la vita interiore, con la sua esigenza di autonomia e libertà.
Non posso che formulare una volta di più l’augurio che entro voi stesso troviate abbastanza pazienza per sopportare e abbastanza semplicità per credere. Affidatevi sempre di più a tutto ciò che è difficile ed alla vostra solitudine. Per il resto lasciate fare la vita. Credetemi; la vita ha sempre ragione.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
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Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Parole, tutte, profonde e di grande intensità. Posso ribloggare? Mi ci rispecchio moltissimo.
Grazie
Alexandra
Grazie. Certamente che puoi, se veramente le reputi all’altezza.
Un commento il tuo sul quale riflettere profondamente, soprattutto perché hai arricchito il pensiero di Rilke non solo delle tue acute considerazioni, ma anche per averlo “esteso”, amplificato con gli echi di Nietzsche.
Inutile dire che chiunque legga Rilke e lo approfondisca con la lettura di questa tua pagina, non possa che tremare e dubitare di se stesso. Un tremore e un dubbio che IN OGNI CASO non può che sfociare in decisioni positive, se onesta è la riflessione di chi ha letto.
Bisognerebbe confrontarsi di continuo con opere di questo genere. Sono così serie, rigorose e, al tempo stesso, umane da richiamare il lettore ad una pari serietà o, come giustamente ricordi, alla necessità di esporsi al vento gelido del dubbio. Come tu nel tuo commento, così io nel post – per mezzo delle parole di Rilke – ho voluto mantenere uno spiraglio aperto. Si lì passa chi è onesto…
Sì! condivido: da questo spiraglio passano solo gli onesti!
Bravo, Tommaso, questo post incomincia e finisce completo, esauriente. Lo spunto dello scambio tra Rilke e il suo apprendista interlocutore permette di arrivare a un quadro, doce non c’è da togliere o aggiungere niente. C’è tutto. Direi che è da tenere presente, costantemente, sempre. Oltre il tempo di questa lettura.
*doce = DOVE
Grazie, Guido. Non sono uno che rende a rileggere. È un mio limite, lo riconosco. Questa volta, però, era diverso. Ci sono testi (È periodi della vita) che sono veri e propri spartiacque – questo è uno di quelli. Sì, c’è tutto!
Anche in questo caso – è accaduto per altri tuoi post – non commento, sentendone il desiderio, perché hai dato il via a una riflessione che dovrà rimanere in corso a lungo. Chissà se potrà terminare. Ecco, sì, questo tuo pezzo è un possibile buon compagno per un viaggio senza meta.
Grazie Ivana. Del resto Rilke riesce ad essere una inesauribile miniera di idee persino in questo pugno di pagine che sono le “Lettere…”. Leggerlo è come essere il nano sulle spalle del gigante. Si può guardare lontano e, come dici, sognare un (simbolico) viaggio.
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