Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Hai tu per caso un vecchio amico o conoscente che poi, dopo le mille vicissitudini che la vita inevitabilmente comporta o, chissà perché, per naturale disposizione o per entrambe le cose insieme, ha visto accavallarsi un problema dopo l’altro senza poi riuscire a risolverne nemmeno uno ed alla fine è impazzito o è sulla buona strada? Beh, Ian Testa un amico del genere ce l’ha. Orfeo, così si chiama, non è un amico in senso proprio, è più un vecchio compagno di giochi, uno di quelli con cui da ragazzino giocava a pallone nel campetto sul retro delle scuole elementari del quartiere, quando ai tempi non c’erano ancora inferriate ovunque e i confini erano dettati da brutte siepi e reti metalliche per cui c’era sempre qualcuno con le tenaglie pronto ad aprirvi all’interno una via di passaggio. Quelli erano tempi in cui nessuno ti rompeva le scatole se entravi lì dove non dovevi perché, di fatto, non c’erano altri posti dove andare, a parte il campetto sul retro della chiesa di don Muzio. Andiamo all’obitorio, dicevano per scherzare, e invece all’Oratorio ci avevano passato un mucchio di tempo. Con don Muzio sempre lì a controllarli, lui che era uno tosto, sempre le tasche piene di chiodi e il martello in mano, perché non sopportava quelli del seminario che sapevano fare traduzioni in simultanea dal greco o dal latino, ma poi non sapevano attaccare un chiodo al muro. Era uno di quelli che quando lo facevano imbestialire i ragazzi che bestemmiavano nella furia agonistica, si piazzava in mezzo al campo e non se ne andava fino a che non riusciva ad agguantare il pallone e poi, con la punta lisa dei mocassini, lo calciava talmente forte da fargli superare la rete e andare nelle vigne. Sì, perché ai tempi, nella periferia dove viveva Ian Testa c’erano ancora rimasugli di vecchie vigne, poi divorate da palazzi, parcheggi e negozi. In quei posti, ai bei tempi, Ian e Orfeo giocavano e litigavano e si odiavano, anzi era Orfeo ad odiare Ian perché Ian era dannatamente più bravo di lui a pallone. Gli era così superiore che quello non lo sopportava, così come non sopportava che Ian fosse così tanto più capace a scuola. Orfeo era tanto furioso che una volta, dopo una partita, aveva iniziato a rompergli le palle di brutto. Lo minacciava e gli diceva che aveva una voglia matta di rompergli il culo. Voleva gestire la cosa a quel modo – o almeno credeva di poterlo fare – perché era di una decina di centimetri più alto di lui. Ian, però, non voleva in nessun modo dargli corda. Gli amici li osservavano, e soprattutto osservavano lui, che non reagiva, che abbozzava. Ma per Ian questo non aveva importanza, lui non stava realmente abbozzando, dato che aveva un unico problema – tentare di non esplodere. E invece no, Orfeo esagerava, parlava, si avvicinava con la fronte, gli occhi, la punta del naso, l’alito che sapeva di coca cola. Teneva i pugni stretti, incombeva. E nell’attimo in cui i loro corpi si erano avvicinati tanto da rendere il contatto inevitabile, allora Ian, che non voleva, era suo malgrado scoppiato. Questione di pochi secondi, una scarica di pugni, un saltare di qua e di là, come impazzito (proprio lo Ian che non voleva impazzire, lo Ian che teneva a freno la lingua e che adesso urlava mentre scalciava e dava pugni). Pochi secondi, poi erano stati divisi e lui – proprio lui che non voleva impazzire o lasciarsi andare al furore…ecco, proprio lui, dopo aver annichilito il povero Orfeo, gli aveva poi urlato contro di andarsene via. E Orfeo se ne era veramente andato. Si era girato ed era andato verso il buco sapientemente aperto nella rete e tra le fratte. Si era infilato dentro, nel silenzio, ed era scomparso. Ed Ian l’aveva odiato fino ad impazzire per questa storia, perché averlo preso a pugni non era stato nulla, così come non era stato nulla per lui essere stato preso a pugni qualche giorno prima dal Greco. Il fatto, però, era che il Greco non gli aveva urlato contro di andarsene via, mentre lui l’aveva fatto. Era andato oltre. Orfeo era stato cacciato via e aveva passato da solo tutto il resto di quel maledetto pomeriggio assolato di luglio. E lui, Ian, si era quasi messo a piangere per quello che era accaduto e di cui era l’unico, stramaledettissimo responsabile. Erano rimasti in nove, immobili ed in silenzio mentre uno di loro se ne andava.
Ecco, proprio quel vecchio compagno e nemico di giochi, dopo anni di incontri sporadici, di dicerie su problemi di lavoro e nella vita privata, di ricoveri, disintossicazioni dall’alcool e problemi psichiatrici era tornato a vivere nel quartiere, nella casa dei genitori ormai in là con gli anni. Era sempre alto e magro, a dire il vero scavato in volto, la carnagione scura, i capelli riccioluti, i lineamenti taglienti. Bello. Un bell’uomo di quarant’anni sempre vestito con un completo nero e la cravatta intorno al collo. Pareva un personaggio uscito direttamente da un racconto di Kafka o da una qualche pagina di uno scrittore russo dell’Ottocento. Orfeo è schizofrenico.
Quando ad Ian Testa era stata data quell’informazione, lui l’aveva elaborata a modo suo, e cioè da manuale. Deliri, eloquio disorganizzato, diminuzione espressione delle emozioni, compromissione in diverse aree (lavoro, cura di sé, relazioni interpersonali). Ogni volta che l’aveva incontrato per strada aveva sempre avuto una scusa per non fermarsi. Una volta la fretta, un’altra i bambini che dovevano andare a fare chissà cosa, un’altra ancora il latte che doveva essere al più presto messo in frigorifero. C’era sempre una scusa per non fermarsi, per limitarsi ad un sorriso o ad un cenno del capo, mentre Orfeo, che si muoveva veloce, sempre elegante, la schiena dritta, sempre solo, capitava che lo puntasse con lo sguardo, cercando un contatto – Ciao Tommà. Proprio come da ragazzini, anche se non lo erano più. Passava dritto, Ian Testa, quando lo vedeva camminare lungo una delle viuzze che portano alla piazza e alla chiesa che sulla piazza affaccia. E Orfeo mano a mano che si avvicinava allargava le braccia e le tirava su in alto, recitando preghiere in latino, lui che a scuola era sempre stato una mezza sega e non capiva un cazzo di niente. Passava dritto, Ian Testa, con la scusa del treno in partenza mentre lui, Orfeo, era inginocchiato sulla banchina del primo binario, le mani giunte davanti alla bocca mentre bisbigliava parole incomprensibili, gli occhi chiusi al mondo. Ma quanto poteva durare quel passare dritto, quanto ancora poteva continuare così? Mica per sempre. E infatti d’un tratto tutto era cambiato.
Ian Testa va verso casa. È stanco, ma è dovuto uscire per comprare il latte. Orfeo cammina nella sua direzione. È come sempre elegante, il solito completo scuro, la cravatta nera – come sperduto in un eterno lutto. Solo che questa volta c’è un elemento del tutto nuovo. È scalzo. Orfeo sta camminando a piedi nudi, calpestando merde di cane e cicche di sigarette. Inciampa contro le radici di vecchi alberi, affonda nell’asfalto in più punti saltato dopo le recenti piogge. Ha i piedi devastati, le unghie saltate, la peluria lucida di sangue. Ian Testa lo guarda avvicinarsi, Orfeo apparentemente distratto. Ian è lì a fissare quei piedi, che sono grandi, enormi, le dita lunghe e sporche. Sono quelle stesse dita e piedi che da ragazzi erano sempre ben sicure in costose scarpe di marca e che ora sono luogo di passione che accompagna un volto duro e scolpito nel e dal dolore. Orfeo stringe un libro contro il petto, la copertina è rossa. Adesso non ci sono più scuse. Ian Testa si ferma e lo saluta. Orfeo cade dal luogo dove risiede. Dice di stare bene. Sorride. Quello dei piedi non pare essere un problema, per lui. Delle persone passano e si girano, ma lui non ci fa caso. Ian Testa non trova altro da dire. Orfeo guarda a terra e, facendolo, come perso in un atto di contrizione, gli chiede se può spiegargli cosa sia esattamente il Nous aristotelico. Chiede conferma sui suoi studi e sul suo lavoro, sprofondando per un istante in uno stato d’ansia. Ian Testa va in tilt per un attimo, ma subito si riprende e conferma. Sì, in qualche modo si occupa di quelle cose. Non trova animo per correggerlo e fargli capire che la sua domanda contiene un’imprecisione. Cerca le parole più semplici e chiare e poi spiega. Parla per un paio di minuti e secondo dopo secondo lo sguardo di Orfeo si fa sempre più penetrante ed attento. Tanto attento e penetrante che Ian dimentica i piedi scalzi e sanguinanti del vecchio amico. Orfeo non ha il volto di chi pare in preda al delirio, di chi presta il fianco ad allucinazioni o idee bizzarre. Non pare un alcolizzato o uno cui è stato diagnosticata una forma di schizofrenia, bensì un uomo di quarant’anni distinto ed intelligente che porta avanti studi solitari e non ha timore a fare domande di quel genere ad un vecchio conoscente.
Ma è una scusa. Solo una stupida scusa. Ian Testa azzarda, Sono stato sufficientemente chiaro? Orfeo sorride senza emettere suono. Lo era stato. Ma non era vero che tutto era normale perché non appena lo saluta dicendogli che deve proprio andare, Orfeo diventa nuovamente serio, terribilmente serio e quando Ian scioccamente gli chiede se si sente bene, Orfeo risponde secco, No, e si allontana. Adesso è nuovamente solo, mentre le persone si voltano a guardarlo.
Ma tutta questa storia è solo una scusa, perché lui, Orfeo, è lì fuori, chissà dove, solo, mentre Ian Testa è a casa. I piedi di Ian non sono devastati dal cammino obbligato sulla terra, né il suo volto è scavato da un dolore privo di riscatto. Però Ian sa di essere solo parzialmente al sicuro, perché Orfeo ha il terribile potere di camminare contemporaneamente lì fuori, isolato nel mondo, come nella sua testa. Dopo quell’incontro, Orfeo è una presenza tanto pressante che Ian Testa, per non lasciarsi fagocitare da quel completo scuro e da quei piedi sanguinanti, deve darsi da fare e cioè farne qualcosa.
Prima di tutto lo fa passare per una rete metallica ridotta a brandelli e lo fa giocare a calcetto. Gli dà grandi capacità tecniche ed un tiro potente e preciso, restituendogli una partita che gli aveva negato quasi trent’anni prima. Ma Ian sa che non basta, né può bastare, così gli concede il desiderio di danzare e discrete doti da ballerino, poi lo fa entrare in un garage gonfio di musica e pieno di gente stramboide. In quel garage la redenzione pare possibile e a portata di mano…ma di questo un’altra volta.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
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Come sempre mi hai fagocitata. Situazioni che diventano “visive”, da quanto descritte bene. Quei piedi insanguinati… sembra quasi di averli davanti! Curiosa di scoprire il seguito.
Grazie Alessandra. E a dire che quei piedi sono reali…
Si fa leggere bene- come sempre- con partecipazione questo incontro di Ian Testa con l’ alienazione. La sua paura, comprensibile, il suo tentativo di sfuggire, anche questo comprensibile. Non è facile trattare con chi ha abbandonato la ragione comune. Poi, però, Ian si fa carico, anche di quei piedi sanguinanti. Verrebbe da fare un elogio, ma resta un dubbio: quel nome di chi ha conosciuto il regno dei morti non sarà la chiave di tutto?
Chissà, forse quei piedi sanguinano perché il cammino di Orfeo segue proprio i sentieri del sogno, della morte, della perdita della ragione. Proprio come nel mito mima il contatto bruciante con una realtà che, incontrata senza mediazioni, infiamma una ragione che sragiona…
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