Tommaso Aramaico

Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.

Le dieci stazioni di Ian Testa – parte terza

#7

Lentamente si muove l’uomo dietro la grande e rumorosa fotocopiatrice che sputa un foglio dopo l’altro. Pare lontanissimo, lo sguardo inaccessibile dietro le spesse lenti che riflettono i lampi della macchina su cui sta lavorando. La copisteria è vuota. Ian guarda l’orologio. Ha fretta. Interrogato, ribadisce che di copie ne vuole ventisei, tutte fronte-retro. L’uomo tenta di metterlo a fuoco, forse per accertarsi che alla voce distintamente udita si accompagni un corpo reale, di uomo, e non un’ombra. Fra di loro ci saranno non più di un paio di metri. Ian passa in rassegna tutto quello che in quel momento avrebbe tranquillamente potuto rubare. Penne, matite, gomme, quaderni, agende. L’ultima volta che aveva rubato aveva più o meno dieci anni. Era con un compagno di scuola, quel giorno. Avevano studiato il piano per una settimana, prima di metterlo in pratica. Avevano fatto degli appostamenti. Il loro obiettivo una una torta gelato da fregare in un brutto bar gestito una signora mezza cieca e parzialmente rincoglionita che aveva fatto sistemare il frigo dei gelati in fondo ad un lungo e stretto corridoio senza luce, che dava direttamente sulla porta del bagno. Quel giorno, con la scusa di comprare un pacchetto di patatine, Ian aveva chiesto se poteva usare il bagno. La donna, che faticava a riconoscere le monete e le banconote per dargli il resto, aveva fatto cenno di sì e lui, come un fulmine, si era lanciato nel corridoio, dove aveva aperto il frigo e preso una torta tutta cioccolato e crema e schifezze varie. Poi si era chiuso in bagno. Su in alto c’era una finestrella che dava su di una stradina senza via d’uscita dove non passava mai nessuno. Lì stava appostato l’amico, cui aveva passato la torta. Uscito dal bagno, Ian era passato dritto e aveva sentito freddo alla nuca quando la donna l’aveva bloccato. Il resto, aveva detto, seria. Lui aveva afferrato tutto senza nemmeno guardare ed era uscito. Con l’amico erano andati al parco. Nello zaino avevano già piatti di plastica, cucchiaini, un coltello e fazzoletti. Erano felici. Poi Ian aveva cacciato il resto fuori dalla tasca e contando si era accorto che la donna, confondendo le banconote, gli aveva dato dei soldi in più, che non gli spettavano. Il suo compagno non riusciva a crederci, non stava nella pelle. Rideva, si dava sonore pacche sulle cosce e mangiava. Ian era uscito da quel bar con un pacchetto di patatine, una torta gelato e più soldi di quanti ne avesse prima di entrarci. Ad Ian, invece, tutta la questione pare eccessiva ancora oggi, a trentanni di distanza. Mentre l’uomo alla fotocopiatrice si rende conto di non aver selezionato l’opzione fronte-retro e di dover iniziare tutto da capo, Ian prende un paio di penne, un quaderno, una matita, una scatola di colori, una piccola agenda e più o meno tutto quello che avrebbe potuto tranquillamente infilare nello zaino senza esser visto. Dopo dieci minuti, finalmente, riesce a pagare. Anche queste?, chiede l’uomo, lontanissimo dietro le lenti sporche, indicando penne, matite e tutto il resto. Sì, risponde Ian aggiungendo alle altre cose un biglietto d’auguri che forse un giorno utilizzerà. Quanto devo?

#8

Sono seduti in cinque, al tavolo. Il primo parla, e dice il falso. Il secondo tace ed ascolta con attenzione. Gli altri due non sono interessati e nemmeno ascoltano. Ian, invece, sta ascoltando. Sente dire delle cose ma lui non interviene perché le parole che sente non rispondono a verità. Stanno parlando male di un collega non presente. Rappresentano, quei discorsi, la possibilità di un immediato vantaggio, per Ian. Dal male del collega assente ne discende un vantaggio per lui, così come per quello che invece sta parlando e gettando fango. Il collega lo guarda, cercando una sua parola a sostegno, consapevole del loro legame e comune interesse in quella faccenda. Ian si limita a sorridere, ma sa che non è sufficiente rimanere in silenzio. Anche l’altro collega lo guarda, ma in questo caso è diverso, dato che l’uomo che ascolta, più anziano, in giacca e cravatta, ha potere decisionale. Ian resiste ad un impulso potente che quasi gli strappa di bocca parole maleodoranti. Si riempie la bocca con una pizzetta rossa, pur di tacere. A lui quella faccenda non pare tanto importante, non tanto da strappargli false parole. 

#9

Ian torna a casa. I bambini dormono. Deve parlare alla moglie, deve scusarsi. No, Ian chiarisce subito: non ha tradito, nei fatti. Ha tramato per un’altra donna, questo sì. Per lei aveva chiesto dei cambiamenti sul suo orario di lavoro. Il volto della moglie si irrigidisce. Ian sapeva che sarebbe accaduto. Tramare è già di per sé un agire. Descrive. Lacrime rigano il volto della moglie, che parla a voce incredibilmente bassa. Aveva addirittura studiato nuovi itinerari con la macchina per far coincidere il loro arrivo a lavoro, le attese ai semafori rossi. Aveva bevuto caffè che non desiderava e che gli facevano male allo stomaco, mosso come era dal desiderio. Si era spesso fermato a parlare senza avere veramente qualcosa da dire. La moglie lo interroga. Sempre la stessa risposta alla medesima domanda. No, non ha tradito, nei fatti. Poi la domanda vera, e allora? Perché parli di tutto questo? Ian dice la parola più grave. Ha desiderato fino a provare dolore, fino a non riuscire a prendere sonno. Usa più o meno queste parole. Prova vergogna. Gli occhi puntati verso il basso, verso il tappeto impolverato, tracciano la ripidità del piano inclinato su cui sta precipitando a velocità folle. Fa cenno di no con la testa, Ian. Non l’ha neppure sfiorata. Poi fa cenno di sì, l’aveva desiderato. Non c’è bisogno di portare ancora avanti questo interrogatorio, pensa. Non lui, no, lei era stata ad iniziare a tramare per irretirlo. No, non è una scusa. No, non ha scusanti. Non può rispondere alla domanda sul perché, però. Perché non mi hai tradita?, questo vuole sapere. Ian conosce la risposta, crede di conoscerla, ma non può rispondere. Non oggi, non stasera, non adesso. Ian non osa alzare lo sguardo dal tappeto mentre la moglie si alza dal divano ed esce dal soggiorno. Rimane sulla poltrona. Si sente giovane, giovanissimo. Gli accade troppo spesso di sentirsi non un uomo, bensì un ragazzo ancora tutto da formare. Rimane sul divano ad aspettare di sentire sonno.

#10

Ian non capisce perché l’ospite sia tutto occhi. Non capisce perché continui a fare avanti e indietro per il suo soggiorno. Perché esca nel corridoio per fare capolino nella cucina o nella stanza dei bambini. Ian lo sorprende a trattenersi dall’aprire un’anta dell’armadio a muro. Sembra capiente, dice. Ian ammette che sì, lo è. Perché è tutto mani ed occhi e piedi che non hanno quiete? Perché dice così tante cose? Perché non smette di parlare, né di versarsi altro tè e mangiare biscotti su biscotti per poi, con mano impastata, sfilare dalla libreria un volume dopo l’altro, per sfogliarli appena, e poi subito abbandonarli lì sul tavolo? La casa del suo ospite è grande e ricca di cose, Ian vi era stato invitato. Anche l’ospite aveva dei figli ed una giovane ed affascinante moglie. Perché allora con tanto impeto abbraccia i suoi, di figli, e li strapazza e accarezza loro malgrado e, piegato sulle ginocchia, si volta verso la moglie padrona di casa per dirle che quei bambini hanno i suoi occhi, i suoi zigomi e labbra? Per dirle che sono bellissimi? Perché il suo sguardo è così acuto e preciso e capace di cogliere ogni dettaglio? Ian freme. Vuole quell’uomo fuori dalla sua casa. Sente la sua presenza come erosione del suo spazio, come sottrazione di ricchezza, come invasione. Era la prima volta che desiderava cacciare qualcuno via dalla sua casa. In ogni casa si deve entrare con l’idea di uscirne con le tasche vuote o piene con quel che è stato donato. Nulla più. Ian non entra nella casa altrui con quegli occhi. Non muove un passo che non sia concesso, tacitamente concordato. Non tocca nulla con dita avide di possesso. Non lascia su nulla la propria impronta. La sua bocca pronuncia parole fatte per dissolversi. Quando l’ospite, prima di uscire, gli domanda un libro in prestito, Ian risponde di no, senza dare spiegazioni. Non è il libro, del resto, che sta negando, ma è ben altro che sta tenendo a freno.

3 commenti su “Le dieci stazioni di Ian Testa – parte terza

  1. Ivana Daccò
    ottobre 28, 2017

    Dio mio! Davvero molto molto buono. Confesso, tuttavia, che mi verrebbe voglia di non leggerti per riservarmi una lettura tutta intera quando uscirà il libro. Ma so bene che non riuscirò a trattenermi, e leggerò.
    Un po’ sadico da parte tua, se posso permettermi. Ma occorre ammettere che anche il masochismo procura piacere.
    Aspetto il prossimo pezzo.

    • tommasoaramaico
      ottobre 29, 2017

      Grazie Ivana. Questi riconoscimenti infondono fiducia e nutrono quella che secondo me sono le virtù per eccellenza. Saper attendere e lavorare sodo. Cose che non vanno di moda. Spero di poter presto esaudire questo tuo (mio) desiderio. Ian nasce proprio come valvola di sfogo. Come compromesso che rende non più semplice, ma un poco meno gravosa, questa attesa ed impazienza. Grazie ancora.

  2. Ivana Daccò
    novembre 1, 2017

    Grazie a te. Buon lavoro!

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Questa voce è stata pubblicata il ottobre 28, 2017 da con tag .

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