Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
#4
Ian Testa è appena entrato nella casa dei genitori. Oggi è una brutta giornata di pioggia, il cielo è scuro e troppo vicino alla terra per sembrare amichevole. È l’una, ma pare stia per farsi notte. Ian lascia a terra le buste della spesa. Le serrande sono tutte alzate, le tende tirate di lato, ma la casa è comunque buia. Dal soggiorno esplode il rumore della televisione accesa ad alto volume. Bagliori di luce, oltrepassando la soglia del salone doppio, vanno a schiantarsi contro il pavimento e la parete bianca e spoglia del corridoio. All’una e mezza, per fortuna puntuale, arriva il tecnico della luce. Ian lo fa accomodare al grande tavolo rotondo, antico e scricchiolante, piazzato proprio al centro del soggiorno e gli indica i genitori anziani. Dovrebbe essere sufficiente per risolvere la questione, pensa. Il tecnico interroga la madre di Ian. Sono così gentili, risponde lei, quando quello gli chiede perché, nell’arco di un mese, abbia firmato così tanti contratti con diverse compagnie. Il tipo ne conta quattro, poi sospira e guarda Ian. Stavamo per staccare la fornitura di elettricità, aggiunge, illudendosi che potesse essere un vero argomento. Lo sanno entrambi, non c’è altro da aggiungere. Iniziano a riempire tutta una serie di moduli. Ian legge, ascolta, firma. I suoi genitori non si muovono dalla poltrona. Giusto il padre, a tratti, gli lancia qualche sguardo, gli occhi stretti per metterlo a fuoco, impegnato in un serio sforzo ermeneutico. Ci sono dei vecchi biscotti disposti su un vassoio e due tazzine piene di caffè fumante. Il tecnico rifiuta il biscotto e butta giù il caffè amaro. Prima, Ian pensa che quell’uomo deve essersi necessariamente bruciato la lingua, poi torna agli anni dell’università, a quando rispondeva, Amaro come la vita, a chi gli chiedeva come lo preferiva, il caffè. L’uomo raccoglie tutto in due pile di fogli, una per sé, l’altra per Ian, che mette tutto in una cartellina. Accompagna l’uomo alla porta, poi va a preparare il pranzo. Aiuta il padre ad andare al bagno, quindi apparecchia la tavola. Cerca di oltrepassare le mura innalzate dalla parziale sordità dei genitori e raccontare qualcosa della vita sua, della moglie, dei figli. Prepara un caffè annacquato, poi riporta i genitori in soggiorno. Li fa accomodare sul divano, uno accanto all’altro, sistema i cuscini e ne copre le gambe con un’unica coperta. Fin da quando era bambino li ricorda seduti sul divano sotto una sola coperta, così come ricorda come lui e il fratello si infilavano in mezzo a loro. Era bello, forse. Adesso lo è o almeno sembra esserlo. Li lascia lì a sonnecchiare e va a regolare il termostato, quindi serra lo sportellino con un piccolo lucchetto. È obbligato a farlo dopo che il padre l’aveva riprogrammato lasciandolo acceso giorno e notte. Aveva dovuto convincerlo a dargli il permesso per farlo. Non era stato facile, per il padre, dargli quel potere, né per lui prenderselo. Va in cucina a lavare i piatti. Si guarda intorno, le pareti sono macchiate dei fumi del cibo che per anni era stato bollito, fritto, riscaldato. Con la primavera l’avrebbe ritinteggiata. Prepara un caffè vero e lo beve da solo, in cucina, guardando il telegiornale. Aspetta le tre e mezza, poi prepara le pastiglie. Si assicura che venga mandato tutto giù. La madre lo guarda. Vuole baciarlo. Si lascia baciare. La madre vuole che lui le lavi i capelli. Ian le dice di sì, anche se li ha lavati il giorno prima la signora del primo piano. La madre vuole che sia lui a farlo. Con i polpastrelli sulla cute della madre percepisce distintamente le tracce di vecchie cisti. Toccarle gli dà i brividi. Le asciuga i capelli e la pettina. La madre socchiude gli occhi. Ian cerca di non guardarla, punta gli occhi sul vetro della finestra rigata di gocce di pioggia. La riporta in soggiorno. Già te ne vai? gli chiede il padre, guardandolo. Ian lascia a terra la borsa e siede sulla poltrona davanti alla televisione. Accende la lampada e accavalla le gambe. Prende delle carte e cerca di lavorare mentre segue il film e risponde alle osservazioni del padre. Oggi pare una giornata particolare, per loro. Ian è stanco, ma decide di fermarsi a cena. Scrive alla moglie. Esce un attimo di casa per comprare un dolce alla pasticceria sotto casa. Lo sistema in frigo senza farsi vedere. Prepara un pasto frugale, è più un digiuno che una cena. Una penitenza comune. Non siamo qui per mangiare, pensa Ian. Il padre gli chiede notizie del fratello. Alle otto tira il dolce fuori dal frigorifero. Il padre e la madre lo guardano come se avesse compiuto un piccolo miracolo. Ne assaggiano una briciola. Non hanno fame, ma quel dolce permette loro di lasciarlo andare. Vai a casa, dicono. Si lascia baciare dalla madre, tocca la mano del padre, poi esce.
#5
Mentre Ian Testa cerca parcheggio qualcuno, da dietro, picchia sul clacson e urla e gesticola per metterlo sotto pressione. Ian tiene duro, respira profondamente. Non inchioda e non scende dalla macchina per andare a prendere il tipo a calci nel culo. Un tempo faceva cose assurde, tipo rallentare per esasperare chi si ritrovava dietro, mentre lo fissava dallo specchietto retrovisore, oppure si impuntava sul sedile per sembrare più alto o, ancora, metteva la freccia a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. Ormai non fa nulla di tutto questo e dopo una ventina di metri trova parcheggio, praticamente sotto casa. Il tipo che gli era dietro sgasa di brutto e scatta in avanti, andando a sventrare un gatto che cercava di attraversare la strada. Ian rimane per qualche secondo imbambolato, lo sguardo fisso su un occhio schizzato contro il finestrino di un’altra macchina parcheggiata, quindi apre lo sportello, prende le sue cose e scende dalla macchina. Volta le spalle al corpo sventrato e senza vita del randagio e si incammina verso casa. Una donna sta urlando dentro un cellulare. Urla vaffanculo e ti ammazzo. È fuori di sé, batte i tacchi a terra, i muscoli le tirano sulle cosce muscolose ed arancioni per i bagni di luce artificiale. Mentre attraversa la strada dei ragazzini in bicicletta corrono fra le macchine bloccate nel traffico e sputano sui vetri e gli specchietti, mandando affanculo la gente alla guida. Contro il volto di una donna al volante e col finestrino abbassato esplode un uovo. Ian si avvicina per assicurarsi che sia tutto a posto. La donna, che lo manda via con un urlo isterico, sta piangendo per la rabbia e la vergogna. Ian cammina più veloce che può, entra nel vialetto e arriva al cancello. Vuole tornare a casa. Dal fondo del vialetto si avvicina lentamente un condomine. È la signora quasi cieca che abita al quarto piano. Il suo cammino è rallentato dal carrello della spesa. Ian la aspetta, trovando la pazienza da qualche parte, dentro di sé. La donna gli passa davanti lentamente, senza ringraziarlo per la cortesia. Ian la scorta fino a casa. Si fa dare le chiavi e le apre la porta. Osserva la vecchia scorbutica allontanarsi per il corridoio. Cammina nella penombra. La luce le serve a poco o nulla, dato che ci vede appena e che vive in quella casa da così tanti anni da essere ormai simile ad una talpa nella propria tana. Ian chiude la porta e scende a piedi al secondo piano. Lasciata la borsa a terra va in salone per salutare la sua famiglia. Per risposta, un brusio indistinto. Ian va a cambiarsi e a lavarsi. Dopo qualche minuto incrocia la moglie in corridoio. Il latte. Hai dimenticato il latte, vero? Ian sa solamente che la sua voce, improvvisamente, rimbomba per tutta casa, così come sa che i figli si affacciano per controllare cosa sta accadendo e il viso della moglie si irrigidisce. Allora ammutolisce, poi va ad infilarsi le scarpe e scende al bar sotto casa. Beve una birra al bancone, poi prende il latte e torna indietro. Deve ristabilire l’ordine lì dove l’urlo aveva portato il caos. Non dovevo, dice alla moglie, mentre sistema il latte in frigo. Parlare non è sufficiente, né può esserlo. Va a sedersi sul divano. Esitano, i figli, prima di avvicinarsi. Il più grande gli chiede se può dirgli una cosa. Ian fa cenno di sì. Allora si avvicina anche il più piccolo. Dopo un sorriso di Ian torna indietro per prendere la rincorsa, e parte, veloce, per travolgerlo. L’urlo può essere cancellato, forse. A tavola segue con lo sguardo la moglie che gli sta versando del vino. Ian vede ancora, per fortuna. Riesce a catturare lo sguardo della moglie, Sei ingrassata. Lei gli risponde con una smorfia, che è un sorriso. Passano un altro paio di ore, poi, dopo una lunga giornata finalmente tutti dormono. Solo Ian non ci riesce, tanto è stanco e tante sono ancora le cose che gli restano da fare. Fa il giro delle stanze, al buio come la vecchia donna del quarto piano. Segue il respiro di coloro che dormono, segue la traccia dell’odore dei loro corpi. Si avvicina scalzo, i piedi sul freddo pavimento. Li bacia uno dopo l’altro, sulla nuca, lì dove si concentra la loro debolezza, poi torna a sedersi sul divano. La sua insonnia è negazione della violenza.
#6
Ian Testa gioca con la fede. La lascia cadere sul piano verde del tavolo. Fatica a guardare negli occhi lo studente che sta esaminando da un quarto d’ora senza esser riuscito a cavarne fuori nulla di buono. La fede rotola ancora e gli occhi di Ian, così come quelli lucidi del ragazzo, ne seguono il movimento vorticoso. Quando il metallo prezioso torna allo stato di quiete la domanda posta da Ian in precedenza è ancora senza risposta. Finalmente suona la campanella. La fede ritorna al suo posto, salda al dito. Fuori dall’aula c’è una collega che vuole parlargli. Ian ha fretta di andare, ma si ferma ad ascoltarla. Non capisce propriamente di cosa stiano parlando, sa solo che deve andare a casa e che no, non accompagnerà i ragazzi da qualche parte in giro per l’Europa. Un collega, prima di entrare nell’aula 2.18, si ferma a guardarlo. Sorride con un brutto ghigno che gli scopre le gengive rese esangui dal vizio del fumo. Ian sorride alla collega, no, non andrà in gita neppure se c’è lei. Lo dà ad intendere cercando di non essere offensivo, scortese o nemmeno lui sa cosa. Finalmente riesce a staccarsi. Gli ci vogliono tutto il lungo corridoio del secondo plesso, le due rampe di scale per arrivare al piano terra e poi ancora un altro corridoio affollato di ragazzi prima di riuscire veramente a pulire via dagli occhi i capelli della collega, lo sguardo fisso e penetrante, i seni gonfi e le labbra che parlavano e parlavano. Quando entra in macchina, nel parcheggio sul retro, Ian rimane un attimo lì, giusto per prendersi qualche minuto di pausa e aspettare che si disperda la fiumana di ragazzi in uscita. Oltre il cofano della macchina, fra le sterpaglie, un merlo becca alla ricerca di qualcosa. Più avanti, solo, riconosce lo studente che aveva appena finito di interrogare. Attraversa il vialetto a testa bassa, gli occhi puntati sullo schermo del cellulare. Un compagno, da dietro, gli da un ceffone sul collo. Ian può sentirne lo schiocco violento, la pelle intirizzita dal freddo che diventa subito rossa. Dalla fiumana emerge nuovamente la collega che vuole portarlo chissà dove. Alza una mano per farsi vedere. Ian accende il motore, deciso ad andarsene facendo finta di non vederla, ma cambia idea. Prima dirà di no, poi potrà tornare a casa.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
La prima forma di libertà si dà inevitabilmente come accettazione di un imperativo, dice Tommaso e Ian Testa mette in pratica.
L’ imperativo della responsabilità. verso i genitori – che ci hanno aiutato e che ora sembrano figli, bisognosi di noi. C’ è dolore nella quarta stazione, non il dolore lacerante di una perdita fisica, ma quello diffuso, penetrante, della lontananza psicologica. Nella quinta, la responsabilità verso i figli, che si devono aiutare a sopportare un mondo esteticamente ed eticamente brutto, c’ è l’ imperativo, c’è l’ amore e chissà cos’ altro che Ian non dice. Nel sesto c’ è la responsabilità della parola che va detta, anche se si si vorrebbe fuggire ( una fuga è un messaggio, dopo tutto). Ian, tuttavia, sente l’ imperativo etico del dire , della parola essenziale e autentica, non della chiacchiera. Ian Testa non vive in superficie e noi lo ammiriamo.
Attraverso i tuoi commenti mi viene in mente che uno dei fili conduttori sia la fedeltà. Non solo quella che traspare da Ian, ma anche quella mia nei suoi confronti. Per vie traverse, proprio oggi, mi sono imbattuto in una frase dal Malte di Rilke, che recita più o meno così: “Ma questa volta io sarò scritto”. P.s. questa mia risposta, a differenza di altre che lo sono “mio malgrado”, è volutamente criptica. Grazie per il tuo bel commento.