Lì dove è pieno di nomi propri, c'è un nome che di nessuno è proprio. Chi l'ha scelto? Chi lo subisce? E perché? Meschino.
Inquietano e/o mettono angoscia i luoghi dove sappiamo che qualcuno è morto. Fanno impressione perché qualcosa aleggia, o pare aleggiare, in questi luoghi dove qualcuno – e qui entra in gioco la personale prospettiva – ha spiccato il balzo, è stato risucchiato nel nulla o ha lasciato una forma per assumerne un’altra. Inquietano perché coloro che invece rimangono, pur lacerati dalla separazione, nutrono l’intima ed irresistibile (irrazionale) convinzione che non tutto sia perduto, che qualcosa, un non-so-che, alla fin fine sia rimasto (che qualcosa permanga). Quei luoghi sono così importanti da diventare non-luoghi: sono stanze, corridoi, ascensori, pianerottoli, ospedali ed un’infinità di altri spazi che inquietano – ognuno, a suo modo, scenario e teatro in cui il tempo inesorabilmente impone la fine ad una vita. Su tale questione ho già speso qualche parola un po’ di tempo fa in un post dal titolo La morte, fuori dalla Storia, ha una sua storia? (qui) in cui a partire dal bel saggio di Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, si parla del problema dei corpi, del prepararsi alla morte e, infine, del problema della sepoltura. Il tema, in qualche modo, si è ripresentato.
Qualche giorno fa, in macchina sulla sp217 qualcosa di inaspettato ha catturato la mia attenzione. Ad un certo punto, lungo la striscia di asfalto tutta curve e tornanti che taglia la folta vegetazione, vedo una vecchia macchina lasciata con le quattro frecce sul bordo della strada, due ruote sull’asfalto, due sullo sterrato. Nulla di strano, fin qui, perché un mucchio di persone sono solite lasciare le loro macchine in corrispondenza di piccoli sentieri che dalla strada si infilano nel bosco. Questa volta, però, la cosa era decisamente diversa. Subito dopo la macchina addormentata c’erano due vecchietti indaffarati. Incolonnato sulla via del ritorno verso casa, il traffico rallentato per lavori sul manto stradale, lentamente procedevo e, intanto, li osservavo. Le macchine e i camion che andavano nell’altro senso di marcia prendevano via via velocità e sfrecciavano davanti a questo uomo e a questa donna curvi per l’età, facendo fremere i radi e sottili capelli sulle loro teste, che parevano piccole piccole. Erano lì, sul tornante con magnifica vista sul lago di origine vulcanica la cui superficie scintillava sotto al sole che lento andava a calare oltre la corona irregolare di terra ed alberi appuntiti che fa da calice all’acqua lacustre. Incuranti del pericolo erano lì a lucidare una delle innumerevoli – e a tutti note – piccole lapidi che costeggiano le strade del mondo. Quella, però, era la loro, di lapide, e non una delle tante lacerazioni sanguinanti dello spazio altrimenti neutro. Pareva incastonata su un blocco di pietra, ma non riuscivo a capire come. La pulivano dallo smog, dalla terra, dagli escrementi degli uccelli, dall’urina delle bestie. La donna svuotava un piccolo vaso e buttava via fiori marciti. La fila scorreva e così solo dallo specchietto retrovisore potevo vedere l’uomo che riempiva il vaso di acqua seguendo le indicazioni di quella che doveva essere la moglie, che poi aveva preso un mazzetto di fiori e l’aveva ravvivato prima di metterlo nel piccolo contenitore. Allontanandomi, mentre quello imprigionato nella macchina subito dietro la mia picchiava sul clacson per farmi dare una mossa, pensavo per la prima volta una cosa banale. Chi ce l’aveva messa lì quella piccola lapide? Non me lo ero mai chiesto fino all’altro giorno, e da quel giorno ad oggi non ho intenzionalmente voluto sapere. Non credo proprio che ci sia una qualche autorità che si occupa di cose del genere e, in ogni caso, se c’è non lo voglio sapere. Ho deciso (anche se mi pare la cosa più credibile) che quell’uomo e quella donna, in totale solitudine e per loro scelta e senza chiedere il permesso a nessuno, hanno creato e piantato quella lapide lì dove qualcuno aveva perso la vita, certamente in un incidente stradale.
Lo ammetto, il giorno dopo sono uscito di casa con un poco di anticipo rispetto al solito e lungo il tragitto ho accostato un attimo lì dove il giorno prima avevo visto quei due vecchi. Taccio il nome, ovviamente. La lapide era di un ventiseienne che era morto in quel punto all’inizio degli anni Ottanta, quando io avevo più o meno quattro anni. Al centro della lapide le date, più sopra la brutta foto ingrigita dal tempo di un ragazzo serio serio che guardava dritto davanti a sé. Lo ammetto, vedendomi dal di fuori, per un attimo, perso a quel modo in quella macabra indagine, mi sono subito girato per tornare in macchina e andarmene. Avevo pensato che i vecchi genitori di quel ragazzo sarebbero potuti arrivare in qualsiasi momento e magari spaventarsi a morte vedendomi lì, forse pensando ad un ispettore che voleva togliere di mezzo quella lapide “abusiva”, oppure ad uno stronzetto che non aveva nulla da fare e che voleva passare un po’ di tempo divertendosi a vandalizzare quel luogo di memoria…
Dove è la tomba? Al cimitero dove il corpo o le sue ceneri sono custodite o, invece, lì dove si muore? Dove è l’anima, sempre che sia, di quel ventiseienne ormai morto da quasi quarant’anni? Secondo quelli che dovevano esserne i genitori, lì nel luogo della tragedia, dell’ingiustizia, di ciò che è inaccettabile. Ma in fondo, a ben vedere, quale anima è bloccata lì? Quella del morto o quella dei sopravvissuti? Quella di chi non è più o quella dei vivi, persi nel trauma, nella ferita che istupidisce e lascia di stucco, sul posto. Sul posto, appunto, su quel posto e non in un altro. Perché la lapide è, al tempo stesso, materia che oppone resistenza e separa in modo assoluto, ma anche stazione che collega, luogo dal quale si parla ai morti, ai cari. La lapide come luogo di incredibile densità esistenziale, crocevia di spiriti: di coloro che sono e di coloro che non-sono-più; luogo dove anima incontra anima abbandonando la via dei sensi che riduce il mondo a ciò che può essere visto per “vedere” l’invisibile.
A questa cosa ho ripensato ieri, salendo con l’ascensore su casa di mia madre. Molti anni fa, quando ero bambino, ero in quello stesso ascensore in compagnia di mia nonna e mio fratello di pochi mesi che stava disteso nel passeggino. Gorgheggiava e sorrideva guardando su in alto ed io seguivo il suo sguardo, per capire, ma non vedevo nulla. E allora chiesi a mia nonna cosa guardasse. Lui vede le anime perché è puro. Questo mi rispose, lasciandomi di stucco con una frase che non ho più dimenticato e che spesso, ancora oggi, mi torna in mente. Mia nonna è una vecchietta di quasi un secolo, del sud, che non ha mai letto un libro in vita sua e che ha sempre coltivato una religiosità intrisa di paganesimo, spiritismo e chissà quale altra diavoleria. Tutte cose, queste, che mi hanno sempre impaurito ed affascinato al tempo stesso. I corridoi e gli angoli dei soffitti, c’era da giurarci, erano sempre attraversati da spiriti e spiritelli e la casa, per lei, non era mai solo la nostra casa, ma sempre la casa che condividevamo con chi non siamo più in grado di vedere o che possiamo intravedere solo per un istante e con la coda dell’occhio – quel qualcosa/chi che poi, quando andiamo a guardare meglio non è già più…perché l’attimo è irrimediabilmente perduto e l’impressione svanita nel nulla.
Quando mio nonno morì, anzi, quando le morì letteralmente fra le braccia, improvvisamente, sul loro letto, presto al mattino, mentre lei lo aiutava a tirarsi su a sedere – mia nonna fu pazza per alcuni mesi. Faceva avanti e indietro per la grande casa in cui avevano sempre vissuto e quando andavo a trovarla mi diceva che il padre di tutti noi se ne era andato, che era morto. Non il padre di mia madre e dei suoi fratelli, ma di tutti noi, nipoti e pronipoti e di tutta la dinastia. Come se lui fosse (e simbolicamente in effetti lo era, per me) il principio di ogni possibile generazione. Furono mesi durissimi. Poi, un giorno, tutto cambiò. Mia nonna aprì la porta di casa e mi baciò sulla fronte, come sempre fa da che io ricordo. Poi mi invitò a seguirla nella sua camera da letto. Mi confidò che lui era finalmente andato a trovarla in sogno. Stava bene e aveva persino voluto che lei le preparasse un caffè dei suoi, di quelli buoni. Quando si era svegliata aveva preso dal cassetto uno dei pigiami del nonno e lo aveva sistemato, come sempre era stato in passato, sopra al cuscino del letto e, improvvisamente, tutto era tornato ad essere sopportabile. Mia nonna è una donna incredibilmente intelligente. Mi ordinò di non dire nulla a mia madre di quanto stava per confidarmi. Mia nonna non ha mai chiesto nulla nella vita, ma ha sempre e solo dato ordini, a tutti. Nell’ampia schiera fatta di figli, nuore, nipoti e così via, io sono sempre stato l’unico ad aver goduto del privilegio di trasgredire la legge – questa volta, però, non si poteva. Sapevo che stava per dirmi che nonno era tornato a casa sotto forma d’anima dopo un’assenza di alcuni mesi. Ed infatti fu quello che mi disse. Subito dopo mi diede un ordine per il futuro. Avrei dovuto piangere tanto, al momento della sua morte. Avrei dovuto piangere tanto, perché tanto lei aveva fatto per me. Fu serissima, quasi inquisitoria, quando aggiunse che lei, così come mio nonno, avevano amato me più di tutti – che io ero il prediletto. Subito dopo mi fece uscire dalla camera da letto. Mi avrebbe preparato un caffè dei suoi, di quelli buoni.
L’ascensore a casa di mia madre è sempre lo stesso, da sempre. Su in alto, oggi come ieri, c’è una luce al neon. È la stessa che mio fratello in fasce, ai tempi, guardava pieno di allegria. Questa è la semplice verità. Mia nonna, però, ha sempre visto di più e mio fratello, quel giorno, non mi confidò che stava effettivamente guardando la luce al neon e non delle anime ed oggi, se gli chiedessi qualcosa a proposito, staccherebbe lo sguardo dal cellulare, giusto un attimo, il tempo di farmi capire che non sa neppure di cosa sto parlando. Mia nonna direbbe che non è più in grado di vedere ed intendere quello che un tempo vedeva e comprendeva. L’anima di quel ragazzo è lì sulla strada, nel bel mezzo di quel tornante con vista sul lago. È lì perché qualcuno, a modo suo, la sente. Quando diventerò vecchio ed avrò dei nipoti spero di trovare il coraggio di dire ad uno di loro, quello che mi ispirerà più fiducia, esattamente quello che mia nonna ha detto a me. Piangi, ma non in generale – bensì piangi tanto. Piangi per me…fammi, col tuo pianto, in qualche modo essere. Lì dove c’è qualcuno a piangere c’è anche l’anima.
STORIE SELVATICHE DI FIABE, MITI E TESTI SACRI CHE APRONO LE PORTE ALLA RICCHEZZA
Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. (Carl Gustav Jung)
Blog della Biblioteca di Filosofia, Università degli studi di Milano
Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.
Un po' al di qua e un po' al di là del limite
Per un romanzo diffuso dell'Antropocene
La vita è l'unica opera d'arte che possediamo.
Recensioni, consigli di lettura e cose da lettori
Strana combinazione, proprio stamane ho letto in un altro blog, peraltro insospettabile, un post sul tema morte, ovviamente in termini diversi.
C’è chi lo affronta e c’è chi ricorre ad ogni possibile espediente per ignorarlo, ma è inevitabile che anche il più restio, prima o poi dovrà tenerne conto.
Chiudere gli occhi di fronte a qualcosa è, in ogni caso, un modo di rapportarsi a quella stessa cosa. Non se ne esce!
Bellissimo pezzo. Concordo con la tua visuale (sperando di non averla fraintesa in qualche punto): è l’anima dei sopravvissuti che ha bisogno di qualcosa (lapide, oggetto o foto che sia) per ricordare, per mantenere “vivo” un legame nel tempo (seppure labile, fatto solo di pensiero, preghiera o speranza di un incontro futuro) con qualcuno che non c’è più. Che non c’è più qui, nel nostro mondo materiale, ma che potrebbe benissimo persistere in un’altra dimensione. In fondo che ne sappiamo? Abbiamo forse delle prove inoppugnabili sul fatto che esista o non esista un’altra realtà? Se vogliamo essere sinceri con noi stessi, non possiamo né affermarla né negarla. E il fatto di crederci è ovviamente una scelta personale; ma nel dubbio, nell’irrisolvibilità di tale mistero, trovo sia straordinario avere il coraggio, almeno ogni tanto, di sperarci. PS (1): la tua fantastica nonna mi ha ricordato un po’ la mia; rimasta vedova, ha visto per mesi mio nonno che le stava accanto e le parlava, sdraiato sul letto, ma in un modo così realistico che poi, quando ritornava in sé, stentava a credere si fosse trattato di un sogno ad occhi aperti, di qualche forma consolatoria prodotta dalla mente… PS (2): personalmente sono propensa a credere che ci sia qualcosa dopo la morte (pur non abbracciando una particolare fede religiosa), perché mi è difficile pensare che tutto finisca così, nel nulla assoluto. Il nulla, ecco, non riesco proprio a concepirlo, è un concetto che esula del tutto dalla mia mente… o meglio dal mio modo di “sentire”, di percepire le cose della vita.
Grazie per il tuo bel commento. Vecchie e tostissime nonne a parte e che hanno sempre e comunque qualcosa da insegnare…il tema è così “grande” che fatico a prendere una qualche posizione. Credo sia questa incapacità a spingermi a tornarci sopra incessantemente…mi vien da pensare alle onde del mare che incessantemente toccano la riva per poi ritirarsi…ecco, è qualcosa del genere. Un problema non di poco conto! Ci ritornerò sopra…
Apprezzo sempre la tua capacità di vedere le persone, le situazioni e di farne oggetto di com-prensione. Suggestivo e di bella scrittura tutto il testo, ma in modo particolare la descrizione di quella tua nonna che ti ha molto ( troppo?) amato e che ti ha lasciato un impegno affettivo non di poco conto ( che forse ti arrovella…).
Quanto al tema del tuo post, scontato ma inevitabile ricordare che per Foscolo non vi erano dubbi Non vive ei forse anche sotterra, quando/gli sarà muta l’armonia del giorno,/se può destarla con soavi cure/nella mente de’ suoi? Celeste è questa/
corrispondenza d’amorosi sensi,, identificando il luogo laddove la pia terra porge nel suo grembo materno ultimo asiloe serbi un sasso il nome. Dunque, la tomba che ricorda ciò che tu chiami anima. Ma vi sono anche i luoghi concreti : per esempio- quando sia possibile- la scena della vita di qualcuno lasciata inalterata ( uno studio, in genere). Eppure, alla fine di tutto, l’ anima dei nostri morti resta in noi, nel nostro ricordo, vivissima e dolorosa prima e poi dolce e rasserenante.
Grazie. Bisognerebbe “tacere l’amore”, come scriveva Lacan. Ogni elezione rischia di tramutarsi in prigione ed ogni atto di libertà in tradimento. Per quanto concerne l’anima, so di muovermi, in questioni tanto delicate, come un bestione privo di grazia. Per me anima, ricordo-dell’altro e fantasma a tratti coincidono. Se tentassi di essere più preciso allora non sarei in grado di dirne più nulla. Purtroppo non posso permettermi di tacere su queste faccende…
Complimenti, le tue parole mi hanno davvero toccato, mi sono quasi scese le lacrime.
Io non posso affermare con certezza l’esistenza dell’anima, mi piace pensare che esista però.
Quello che mi ha colpito di più della tua storia è il fatto che nonostante siano passati più di trentanni i due genitori si rechino ancora alla “lapide” del figlio a cambiare dei fiori che nel giro di due giorni saranno già rovinati,, non c’è mai fine all’amore puro.
Ti ringrazio. È un tema forte che può essere risolto solo con un sì od un no. Rimane un’opzione debole: la sopravvivenza mediante la memoria di coloro che rimangono…Grazie per il commento.
Io credo che finché il ricordo di noi persiste nei nostri cari una parte di noi rimane in vita. Grazie a te per le tue parole che mi hanno spinto a fare una riflessione personale!
Sono d’accordo. È forse un’idea consolatoria, ma c’è del vero. Grazie per aver arricchito questo post con le tue riflessioni.